Storie genovesi

 

1

L’ALLUVIONE

 

A Tina sarebbe molto piaciuto andare a scuola quel giovedì pomeriggio. In effetti considerava il rientro pomeridiano un’occasione estremamente favorevole per un certo incontro che la mattina, chissà perché, risultava più improbabile.

Mario Traverso, il mito della classe, scendeva a piedi da Corso Aurelio Saffi e incrociava Tina proveniente da Via Carlo Barabino all’altezza della Questura. Un battito d’ali fino alla scalinata del D’Oria, ma anche una sofferenza psicofisica se consideriamo le scale del vecchio cassone dal lato delle Medie, già micidiali in solitudine, figurarsi in compagnia di un divo come Mario. Arrivata in cima sotto il peso dell’emozione e della cartella di cuoio Tina non sapeva mai se ringraziare la sorte o maledirla. Quando era sola se la prendeva comoda e inventava dialoghi intelligentissimi; con lui era sempre una corsa col fiatone e frasi di una stupidità allucinante.

I ritorni a casa invece si presentavano più facili: prima di tutto le scale in discesa, poi c’era Rosy da accompagnare alla fermata del 4 che guarda caso si trovava sul percorso di Mario. Girato l’angolo della Questura bastava rallentare il passo e far finta di chiacchierare per dar tempo al campione di raggiungerle dopo aver preso a cartellate lo sporco doriano di turno: una scena che si ripeteva quasi ogni giorno all’uscita di scuola. A quel punto l’autobus, già pieno come un uovo, accendeva il motore e Rosy si esibiva nella sua corsetta quotidiana con le gambe secche in fuori e i capelli al vento. La scomparsa di Rosy regalava a Tina un breve istante d’intimità con lui, dopodiché la chioma dorata e i fieri polpacci da calciatore svanivano dietro la curva che costeggia la Fiera del Mare e addio. Tutto questo con ogni probabilità sarebbe accaduto anche quel giovedì pomeriggio, se non fosse stato l’8 di ottobre del 1970.

Già la sera del 7 s’era messo a piovere come in terra e al mattino tutti si svegliarono sotto l’ira di dio. Dopo pranzo i genitori di Tina annunciarono che nessuno si sarebbe mosso di casa. Niente ufficio, niente scuola. Trattandosi di tipi prudenti che non facevano mai il passo più lungo della gamba, è facile che avessero sentito per radio la notizia del casino combinato a Voltri la sera prima dal Leira in piena.

Come al solito Tina non sapeva un tubo di niente né si sognava di domandare. Si chiuse in camera sua, infilò nel mangiadischi Occhi di ragazza di Gianni Morandi e incollò la faccia al vetro della finestra. C’erano due frasi in quella canzone che l’obbligavano a spingere il 45 giri dentro la fessura non una, ma due, tre, cinque e anche dieci volte di seguito. Frasi inquietanti e sottilmente misteriose tipo Quando si fa notte nei tuoi occhi c’è una luce che mi porta fino a te, o terribilmente struggenti come L’acqua di una lacrima d’ addio sarà l’ultimo regalo che da voi riceverò. Verso le due del pomeriggio era più l’acqua della lacrima a farle effetto, forse a causa delle preoccupanti condizioni meteorologiche. Tutto sommato però non era male guardare un simile pandemonio al di qua del doppio vetro. Ripensandoci, se fosse andata a scuola non è poi detto che l’avrebbe incontrato, mentre qui almeno poteva abbandonarsi a fantasticherie del tutto legali, non essendo stata sua l’idea di fare vacanza quel giorno.

La faccenda di Mario aveva avuto inizio in prima Media esattamente la mattina del 5 dicembre 1969. Tina ci sballava per le date e a fini di sicurezza (maniman la memoria l’avesse tradita) annotava tutto su un diario segreto che giaceva sepolto tra pile di mutande in fondo al cassetto della biancheria. Più per smania d’incasellamento che per sfogo letterario. L’anziana Prof d’italiano si era svegliata quella mattina con l’idea d’interrogare. Riassunto e commento della Madre di Ungaretti. Toccò a Traverso andare alla cattedra e chissà perché all’improvviso tra le file dei suoi amici calò un silenzio di tomba. Loro evidentemente sapevano, Tina no. Quando la Prof ignara pure lei (o colpita da arteriosclerosi incipiente) gli domandò se condividesse i sentimenti del Poeta nei confronti della Madre, a voce bassa egli rispose che sua madre era morta.

A Tina il cuore si fermò di colpo e per un attimo se lo ritrovò in bocca. Non si rese nemmeno conto di come la Prof se la cavasse in quel frangente, perché troppo occupata a riprendere il controllo del suo muscolo impazzito. Fu travolta da un’ondata di passione devastante nei confronti di Mario Traverso. Se lo sguardo potesse bucare la materia il bel Mario avrebbe avuto la schiena come Wild Bill Hickok, un colabrodo. Lei nell’ultimo banco in quanto alta, robusta e insignificante; lui nel secondo in quanto bello, coraggioso e soprattutto sventurato. Queste strane correlazioni avevano luogo solo nella mente di Tina, per natura volta alla tragedia.

Tuttavia non le mancava una certa dose di realismo: il fatto che Mario procedesse al suo fianco tra la Questura e il portone della scuola non significava automaticamente che l’amasse. Già Rosy si sarebbe esaltata, Tina no. Lo sapevano anche le pietre che amava un’altra. Purtroppo. E quest’altra era talmente al di sopra di tutte loro da rendere vano ogni tentativo di competizione. Sedeva nel primo banco a destra vicino alla porta, all’opposto di Mario: bionda, magrissima, tutti otto sulla pagella, danza classica, padre avvocato, Albaro. A invertire l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. Il prodotto in questione si chiamava Lella. Una viziata, arida, schifosa albarina di merda, avrebbe scritto qualche anno più tardi sul solito diario. Per ora si limitava a considerarla un essere estremamente odioso. Naturale che Mario ci perdesse le bave, è sempre così: su questo fronte Tina aveva già capito come funziona tutta la baracca. Sotto il grembiule nero Lella portava i jeans ( Levi’s o Wrangler boh, non sapeva ) abbinati a un meraviglioso assortimento di Lacoste e a scarpe da tennis col bollino verde dietro, garanzia di autenticità (non ne avrebbe saputo indicare la marca, ma che fossero autentiche era pronta a giurarlo). Tutta roba da fantascienza per lei che portava gonne smesse da sua cugina, camicette scubbie, calzettoni al ginocchio e scarpe marroni con la punta quadrata. Si approssimava il momento in cui Lella avrebbe sfoggiato uno splendido Loden verde, autentico pure quello. Non che Tina ci patisse più di tanto: Lella era Lella, si sa, ma l’eroico Traverso (porca l’oca) avrebbe potuto evitare di farsi trattare a mo’ di strassun da lavare per terra. Così è la vita, nell’ultimo banco in fondo c’è una tipa che guarda il tipo del secondo che guarda a sua volta la tipa del primo. La quale ci prova un gusto tremendo a farlo sentire una cacca.

Per fortuna Tina sapeva creare con l’immaginazione interi film, ispirandosi a libri come La Primula Rossa, Il fiume abbandonato, Nevada, I tre moschettieri e ovviamente Piccole donne. In questi film ella ricopriva le parti di un intero cast, facendosi aiutare dai poster di Aldo Reggiani e Paul Newman che stavano appesi a una parete della sua camera. I baci stampati appassionatamente dall’eroina sulle labbra dell’eroe consumavano a poco a poco la carta all’altezza della bocca, unica traccia peccaminosa che passò sempre inosservata agli occhi di sua madre.

Stava giusto interpretando uno dei suoi preferiti - dove protagonista è l’altera padrona di un ranch che in segreto ama un reietto dall’animo nobile, ma si decide a cadergli tra le braccia solo dopo aver scoperto che era stato lui a salvarla dal disonore, però aveva taciuto temendo il suo disprezzo - quando sua madre irruppe nella stanza e spalancò la finestra di botto. Affacciatasi sotto un’acqua della madonna Tina ebbe di fronte uno spettacolo di gran lunga superiore al più catastrofico dei film. Perché era reale.

Poco dopo le tre del pomeriggio il Bisagno, esploso dal condotto sotterraneo che lo porta alla Foce, scendeva da Brignole verso Corso Torino impennandosi su Via Carlo Barabino come un destriero giallastro e schiumoso. Vinta la strozzatura delle case l’acqua prendeva la forma di un fiume fangoso che cresceva sui fianchi dei palazzi invadendo i negozi, minacciando i piani ammezzati, riempiendo le discese dei garage dove le macchine galleggiavano ammucchiandosi e scontrandosi in modo assurdo. Per il momento Tina non pensò alla 500 bianca vecchio modello, portiere controvento, che stava esalando l’ultimo respiro nel garage di fronte. Bisognava preoccuparsi dell’acqua che saliva verso le finestre di casa, le quali per l’appunto si trovavano al piano ammezzato. Gradualmente cominciò a prendere forma l’eventualità di riparare ai piani di sopra.

Tina fu presa dal panico. I piani di sopra, chi conoscevano ai piani di sopra? Nessuno. E quando mai avevano avuto a che fare con gente dei piani di sopra? Se è per questo nemmeno ai piani bassi conoscevano qualcuno, a parte il carabiniere del primo piano e la moglie. Ma sua madre tagliando corto affermò che in alto ci abitava l’amministratore, quindi. Già, quindi Tina cominciò a riflettere seriamente su cosa portarsi dietro. Salvare il salvabile. Non a tutti capita di trovarsi di fronte alla scelta di cosa portare sulla famosa isola deserta. A dodici anni ella ebbe questa opportunità e decise per i seguenti oggetti assolutamente inutili dal punto di vista pratico: un vecchissimo orsacchiotto di pezza di nome Pilli, il mangiadischi, un portadischi a fisarmonica con i dischi, Le avventure di Tom Sawyer senza parolacce, L’isola del tesoro, Moby Dick in edizione ridotta senza descrizioni di balene, Piccole donne e Le piccole donne crescono. Punto. Dopo le quattro si capì che non sarebbe stato necessario trasferirsi ai piani di sopra.

Per Tina avrebbe anche potuto trattarsi di un intermezzo un po’ strong tra un film e l’altro se intorno a lei non fossero rimasti segni inequivocabili di una furia tutt’altro che immaginaria. La striscia nera sotto le finestre per esempio, cancellata anni più tardi dall’unanime decisione condominiale di ridipingere la facciata; e poi il fango, fango dappertutto che la obbligò a indossare quegli odiosi stivali di gomma che facevano sudare i piedi. Ma del fango non fece l’esperienza peggiore. Intanto guai a uscire di casa, le scuole erano chiuse, nessuno si muova. Di roba mangereccia era pieno il frigo e la credenza traboccava indipendentemente dall’alluvione: i suoi non avrebbero mai permesso che restassero vuoti, comunque. Comunque a casa almeno fino a lunedì.

Fu tornando a scuola che seppe di volontari muniti di pale, stivaloni, calzonacci e giacche da lavoro che si recavano ovunque ci fosse bisogno di togliere il fango. Sentì vagamente che alcuni suoi compagni maschi, tra cui Mario, confabulavano circa la possibilità di unirsi agli spalatori. Chi poi effettivamente mettesse in atto il proposito Tina lo ignorò. Né poteva fregargliene di meno di tutto quel fango da rimuovere. Che si sbrigassero, a lei faceva schifo dover camminare schivando a destra e sinistra. E mettere gli stivali, sporcarsi. Per non parlare della roba alluvionata in Piazza della Vittoria che sua madre si ostinò a visionare tutta senza ricavarci niente di buono. Solo jeans malimbelinati, non quelli a zampa di elefante che Tina voleva. Ritenne che se li fossero presi i più furbi, arrivati prima di loro. Anche dischi ce n’erano rimasti pochi. Facevano effetto così sciolti senza copertina e non le andava molto di toccarli. Alla fine portarono a casa una Turandot con Francesco Merli e Gina Cigna che fece contento suo padre.

La morte della vecchia 500 procurò a tutti qualche malinconia, ma presto si venne a sapere che le macchine alluvionate davano diritto a uno sconto sull’acquisto del nuovo, il che diede come risultato una Fiat 500 bianca ultimo modello con portiere antivento. Quando la macchina nuova fece il suo ingresso nel garage di fronte al posto dell’altra, di fango non ce n’era più. Né tracce fangose erano rimaste nella mente di Tina, eliminate da quel processo di pulizia interiore che spinge la rumenta sotto il tappeto.

Se avesse conosciuto gli angeli del fango o qualcuno le avesse raccontato delle loro imprese, chissà che non avrebbe drizzato le antenne a quanto le accadeva intorno. O forse no. Di sicuro ne sarebbe uscito un nuovo film dove il mitico Mario Traverso avrebbe ripescato lei Clementina Ferrari da una palude di fango. Poi sollevandola tra le braccia tutto lercio e imbrattato dalla testa ai piedi l’avrebbe baciata appassionatamente sulla bocca.

 

 

2

 

ROSY IMPARA A BACIARE

 

 

Maria Rosa Paparella detta Rosy si alzava tutte le mattine alle sei e mezza per raggiungere il capolinea del 4 in Via Soliman, Sestri Ponente. Per sedersi a capolinea bastava arrivare un po’ prima delle sette, e Rosy era la puntualità in persona. Tanto puntuale da costituire l’incubo di Tina che se la trovava alle otto meno dieci sotto casa con ogni tempo, anche quando a Genova tirava quella micidiale tramontana che ti sparava i capelli dietro la testa o te li spingeva sugli occhi specialmente all’angolo della Questura, dove chiamavi a raccolta tutte le tue forze per aprire una breccia nel vento.

Dalle Tre Caravelle Rosy e Tina salivano al cancello che dà sul cortile del Liceo-Ginnasio Andrea D’Oria, alias del vecchio cassone. Quel sabato mattina però non c’era vento: era il 20 aprile del 1974 e il Prof ripiegava Il Secolo XIX alle otto e cinque, bofonchiando qualcosa circa il rapimento del giudice Sossi da parte delle BR. Ma a nessuno in quel momento premeva conoscere le opinioni critico-filosofiche di Rodolfo Amarotti, uomo d’ordine di conclamata fede socialdemocratica nonché professore di greco, latino, italiano, storia e geografia presso la V Ginnasio sezione B. Anche i politicomani della classe avevano ben altro di cui preoccuparsi, per il semplice motivo che il programma della mattinata avrebbe stroncato un elefante già dalla prima ora: interrogazione a tappeto di verbi greci seguita da versione di greco con metodo a scacchiera brevettato Amarotti. Matematicamente impossibile copiare, a meno che non fossi Mister Fantastic in persona.

Quanto a Rosy e Tina, che aprivano Il Secolo solo alla pagina degli spettacoli (Rosy preferiva tacere che in casa sua circolava Il Lavoro), contrapponevano alla totale indifferenza verso la politica un’ottima competenza dei verbi greci e dell’arte di tradurre, avendo trascorso l’intero pomeriggio del giorno prima a sgobbare sui libri. Non per abbeverarsi alla fonte del sapere, ma per lui, per Amarotti. C’era dietro l’incommensurabile bruttezza di quell’uomo un che di potente, di carismatico che spingeva anche l’essere più amorfo a provare un brivido di emozione. Figurarsi tipe come Rosy e Tina che per una parola di encomio erano pronte a svenarsi. Egli stava su un piedistallo da cui nessuno si sarebbe mai sognato di schiodarlo. Non si metteva in discussione, punto. Anche quando certe sue affermazioni o previsioni risultavano del tutto oscure, come quella sul futuro delle TV private con i relativi diabolici retroscena, argomento sinistramente misterioso di cui solo lui pareva possedere la chiave, mentre tutti lo guardavano a bocca spalancata facendo segno di sì. Senza averci capito un’acca. Ma era questo il suo fascino. Egli ammiccava all’uditorio con aria complice, come dire: un giorno ricorderete che ve l’avevo detto.

Rosy consegnò la versione a mezzogiorno meno un quarto dopo averla controllata almeno quattrocento volte. Il problema che l’assillava da una settimana si riaffacciò alla sua mente più irrisolto che mai. Non era un problema di matematica, ma di vita. Quel pomeriggio si sarebbe recata a casa di Tina, i cui genitori erano in gita alle Cinque Terre con le Acli, perché come al solito Tina aveva trovato la soluzione, ma si rifiutava categoricamente di anticiparle anche mezza parola. Bisognava pazientare fino alle tre e poi si sarebbe visto in pratica. Da una settimana Rosy usciva con un ragazzo, ossia ci era uscita la domenica precedente e l’avrebbe rivisto l’indomani.

Escluse le gambe troppo secche, un accenno di scoliosi e l’apparecchio fisso (che avrebbe tolto di lì a poco) Rosy non poteva annoverarsi tra le racchie, anzi. I capelli neri mossi, lo sguardo caliente, la pelle olivastra ne facevano un tipo di zingara, però sui generis; d’indole un po’ nervosa (a cominciare dalla parlata a macchinetta), nei momenti critici diventava una raffica di mitra. Non ci fossero stati i suoi a rammentarle in ogni istante le loro origini buzzurre, si sarebbe sentita una gran dama, e lontana da loro s’arrabattava per sembrarlo. Ma le bastava vedere suo padre in divisa da spazzino o peggio coglierlo durante la lettura serale di Selezione (cui era abbonato), per tacere di quando sorbiva la minestra, per farsi venire le convulsioni dalla rabbia. Studiava come una matta la Rosy per levarsi da quella merda di Sestri, che schiattassero tutti compreso il nonno il quale belìn, non sapeva far altro che ratellare con sua madre dalla mattina alla sera. Sua madre che faceva la serva, in casa e fuori.

Ora questo Giuseppe Bolla detto Pino, di due anni più vecchio di lei, l’aveva conosciuto d’estate a Torriglia dove i suoi la spedivano a passare le vacanze a casa della zia Jole. Il padre di Pino era proprietario di una pompa di benzina con officina annessa (Autofficina Bolla ) sulla statale della Scoffera, e Pino ci lavorava anche lui perché studiare gli prendeva male. Era un impallinato delle moto affetto da logorrea cronica, cioè non la piantava un attimo di rintronarti il cervello. Ultimamente viaggiava su un Gilera 125 carenato da competizione, truccato di brutto allo scopo di produrre un baccano della madonna.

Da principio Rosy aveva fatto la tumistufi, poi s’era degnata di sorridere (ridere mai per via dell’apparecchio) alle battutine che lui le lanciava dalla moto, infine ci era salita. Sulla moto. D’altronde Pino era un bravo cristo, un po’ volgarotto ma buono come il pane. E poi c’avevano la lira. Zia Jole li conosceva fin da bambini lui e suo fratello Gianni, dunque. Dunque lì per lì la faccenda non era andata oltre qualche giretto in moto. E’ chiaro che a Pino non difettava la pazienza. L’ultima volta che i Paparella erano andati su a Torriglia le aveva tirato l’amarena con una di quelle frasi emblematiche tipo “domenica faccio un salto giù a Sestri con la moto“. Rosy non gli aveva dato importanza e invece eccolo, domenica 14 aprile in Via Sestri col chiodo di vera pelle e un casco integrale Nolan sotto il braccio, nuovo di trinca. A vederlo così non stava affatto male, a parte il naso a becco e le gambe lievemente arcuate. Lo riscattavano le spalle e i pettorali, ma soprattutto i fianchi stretti che finivano in un sedere fatto per stare appiccicato al sellino di una moto.

Si era imboscata con lui alla Villa Rossi dopo aver lasciato sua cugina Ketty in via Sestri a fare da palo. E alla Villa Rossi erano cominciati i casini: Rosy non aveva la più pallida idea di come si facesse a baciare. Teoricamente tutto ok, ma in pratica. In pratica, per la legge del contrappasso (visto che non la teneva mai ferma), le si era paralizzata la lingua e a momenti finiva soffocata da quella di lui che pareva una turbina. Pur morendo di vergogna Rosy non voleva gettare la spugna: col coraggio della disperazione era riuscita a sbloccarsi, fin troppo però, nel senso che ora le due lingue cozzavano una contro l’altra ostruendosi a vicenda. Insomma un macello. A quel punto Pino, col tatto e la delicatezza di un ippopotamo, se n’era uscito con un “belìn non sei proprio buona“ che aveva ferito Rosy nell’orgoglio e le bruciava più di tutto.

I fatti nudi e crudi erano stati riferiti a Tina per telefono quella sera stessa, comprese le dolenti note della frase incriminata. Aveva così preso corpo nella fervida immaginazione di Tina la geniale idea che domenica 21 aprile avrebbe sollevato Rosy dalla polvere dell’ignominia.

Devi usare una bocca finta che non ti faccia schifo, dichiarò con aria esperta afferrando una mela bella grossa. Poi col coltello scolpì nella polpa un perfetto cavo orale. Adesso bacia, ordinò, e vedrai che sarà più facile perché nella mela non c’è nessuna lingua. Rosy esplose in una specie di nitrito e per un attimo parve sul punto di morire: piegata in due accostò la mela alle labbra riuscendo solo a sputarci dentro. Ma più si sganasciava più Tina si faceva seria. Ora tira fuori la lingua e passala all’interno della mela, proseguì imperterrita, ma senza agitarti. A Rosy uscì dalla gola un residuo di nitrito che a poco a poco si spense. Stavolta fece come Tina aveva detto senza ridere e prendendo gusto al sapore del frutto che era ottimo. La cosa più importante, sentenziò Tina, è stare calmi. Già, ma per Rosy non era la cosa più semplice. Devi fare molto esercizio, guarda. E Tina a sua volta s’incollò alla mela che nel frattempo aveva scavato per sé, sapendo quanto Rosy fosse schizzinosa.

Quella tranquilla ragazzona pareva conoscere la vita senza averne mai fatto esperienza, ma in realtà si stava preparando. A tale scopo nella sua camera era stato appeso di recente un nuovo poster, Robert Redford in Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, assolutamente da sballo. Tina condusse Rosy con la mela di fronte al viso di Robert e la invitò a baciarlo. Tramite la mela. Rosy sentì un’ondata di fiduciosa gratitudine invaderle il cuore. Chiuse gli occhi, avvicinò la bocca alle fantastiche labbra di Bob e sporgendo la lingua lo baciò.

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