L'incontro

 

 

Merda! Sono già le tre e mezza e mi devo ancora cambiare il vestito. Pensò Marina mentre prese le due tazzine da caffè nella credenza di legno.

 

Sentire quella voce al telefono l'aveva davvero sorpresa. Non si erano più visti, in tutti questi anni non una telefonata, nemmeno un aperitivo da Motta come succedeva quando lui veniva a Milano per trovare i suoi. Si sa, capita spesso: due si incontrano, mantengono un contatto, fanno un viaggio insieme, ti chiamo. Sì dài! Passa in ufficio a trovarmi. Ti va una cena? Hanno aperto un locale a&ldots;e poi, e poi più niente. Uno scambio impercettibile, ci si ritrova su binari diversi con tante cose da fare: lavoro, vacanza al Med, trasloco, sposarsi, figli, nuova baby-sitter, bronchite, Audi 4 station ultimo modello. Per la verità fu quello che successe durante il loro viaggio a farle evitare altri incontri con lui. Quella volta, Marina, l'aveva raggiunto a Parigi, dove lui si trovava per lavoro, col programma di trascorrere insieme una settimana di vacanza. Al ritorno, però, senza troncare, ma con una serie continua di rimandi, lei aveva creato una specie di sospensione permanente ed era riuscita a non vederlo più. Cosa gli è preso di chiamare. E chi gli avrà dato il numero. L'ufficio, gliel'hanno detto in ufficio. Marina se lo disse mordendosi l'unghia e deplorando se stessa per non essere stata più pronta, nel non aver trovato subito una scusa credibile per rifiutare l'incontro, quando lui, la mattina, le aveva detto al telefono: " Passo per Milano, se ti va, vengo a trovarti." Ma le frasi più opportune le erano venute in mente dopo, quando ormai era troppo tardi. C'è mia madre qui, è venuta a stare un po' con me. Sto lavorando molto, lasciami il tuo numero, ti chiamerò io, quando avrò più tempo. E invece no, non gliene era uscita di bocca neanche una, anzi, al telefono, gli aveva detto che era contenta, che era proprio contenta di vederlo: "Ma che bella sorpresa!" Così non poteva più tornare indietro. Aveva anche pensato di chiamarlo per dirgli di vedersi al bar di sotto. Ma no, le sembrava una cosa, non era corretto, e poi, che stupida, si era dimenticata di farsi dare il suo numero di telefono. Sapeva che non appena lo avrebbe visto, ancor prima di notare i suoi cambiamenti, se portava ancora la barba o i jeans stretti, le sarebbe venuta in mente quella scena che la disturbava, che voleva tagliare via, che non aveva mai raccontato a nessuno. Per cancellarla dalla sua mente aveva addirittura fatto sparire tutto ciò che gliela poteva ricordare: vecchi numeri di telefono, fotografie di viaggi, lettere e cartoline, regali. Ma ormai era cosa fatta. Meglio così, del resto lui era stato gentile e disponibile con lei. Quando uscivano insieme offriva sempre lui, la portava nei migliori locali e ristoranti di lusso. E adesso, in qualche modo, Marina sentiva il dovere di sdebitarsi e ne aveva l'occasione invitandolo a casa sua, facendogli vedere le foto, di lei e del suo bambino, delle ultime vacanze in Corsica. Insomma, poteva mostrargli un pezzo della sua vita com'era adesso. Però, una volta riattaccato il telefono, aveva subito pensato al modo di rendere la visita il più breve possibile. Merda, le vaccinazioni! Sì, gli avrebbe detto così, guardando i numeri sul calendario della cucina mentre preparava il caffè. Merda, le vaccinazioni! Proprio oggi. Devo andare dal pediatra, sai le vaccinazioni del bambino. No, mi spiace non posso rimandarle. In tal modo avrebbe accorciato la visita quel tanto, o quel poco, che bastava per salutarsi, chiedersi Come stai? Ma cos'hai fatto in tutto questo tempo? e non risentirsi per altri cinque anni. Marina si sforzò di non associare la figura di lui a quel fatto che tanto l'aveva irritata. Ma si innervosì, mordendosi il dito, per non riuscire a trovare altre immagini dei loro numerosi incontri. Lui era stato anche un amico, spesso si confidava con lei, le parlava dei problemi che aveva con le altre. Insomma le occasioni per ricordarlo di certo non le mancavano. Ma no, il pensiero finiva sempre lì, a quella dannata sera. Guardò il bimbo nella culla. Dormiva. Sono quasi le quattro, se è puntuale com'era una volta. E basta! -si disse passando una mano tra i capelli - Non ho più voglia di pensarci. Ma sì - continuò a dirsi - non posso mica farmene una colpa. Del resto, quella sera, lei l'aveva vissuta come una trasgressione. Era cominciata così, lui l'aveva girata in ginocchio sul letto e aveva abbassato le mutandine prendendola a sculacciate. Poi era andato ad aprire la porta. Lei subito si era spaventata ma dopo un po' era stata al gioco. Si trovava di fronte ad uno sconosciuto, uno straniero che non avrebbe rivisto mai più. Poi, lui si era seduto sulla poltrona di fronte a lei dicendole, con precisione, tutto ciò che doveva fare con quell'uomo. Si era lasciata umiliare, aveva eseguito tutti i suoi ordini. Non ci aveva messo molto a capire che solo in quel modo, a lei estraneo, lui poteva eccitarsi. Non aveva mai avuto un'esperienza del genere e nemmeno l'aveva mai immaginata su di sé. Ma se in un primo momento ne era compiaciuta già il mattino dopo cominciava a percepire un fastidio e aveva voluto finire la vacanza prima del tempo stabilito. No, non si era data un giudizio morale, ma il pensiero di quella sera la infastidiva, quello che era successo la urtava, non faceva parte di lei, del suo carattere, strideva con i suoi capelli biondo ramati, con la dolcezza dei suoi gesti.

 

Suonarono alla porta.

 

Forse era stato il lamento continuo che proveniva dalla culla a persuadere un vicino a telefonare. Il fotografo non smetteva di gettare i lampi della sua Canon sul corpo di Marina facendo attenzione a non calpestare il sangue ormai raffermo che, come l'acqua da un rubinetto lasciato aperto, le era uscito dalla gola e aveva rotto la geometria del parquet a scacchi.

 

L'aquila d'argento.

 

 

 

Ciò che vide lo sceriffo, quel mattino di fine luglio, quando entrò nella casa di legno di Linda McGrauth fu una scena così vera da sembrare finta. Se non fosse stato per gli occhi spalancati di Linda, per il loro azzurro cenere che lui conosceva bene, avrebbe pensato di trovarsi sul set di un film dell'orrore. Il sangue era dappertutto, colato in un lago sul tavolo di fòrmica bianca, schizzato contro il frigorifero, sul tostapane fumante, sopra il bollitore che fischiava, caduto come pioggia sulle pentole messe ad asciugare. I cocci delle tazze per la colazione si erano mischiati ai pezzi di vetro del barattolo di sciroppo d'acero. E poi, due sedie per terra, le mosche che ronzavano, le impronte insanguinate di Linda sul telefono a muro a dimostrare il tentativo di mettere in salvo, se non se stessa, almeno i suoi due figli che giacevano immobili sul tappeto di vimini, l'uno di fronte all'altra. Linda ce l'aveva quasi fatta, si era piegata sul tavolo, aveva allungato la mano verso il muro, preso il telefono, fatto il 119, sillabato il proprio nome, ma, quello dell'omicida le era rimasto chiuso tra le labbra. Lo sceriffo si tolse il cappello per asciugarsi il sudore che scendeva sul collo e camminò lentamente, facendo attenzione a non spostare nessun oggetto, anche un pezzo di vetro sarebbe stato importante per l'indagine. Quando si trovò vicino al corpo di Linda Mc Grauth gli venne quasi da svenire. Durante tutti quegli anni di servizio, nella contea di Shetterfield, regione dimenticata, non ancora deserto e non più prateria, non gli era mai accaduto di assistere a un fatto di sangue così cruento. Gli succedeva soltanto di dirimere qualche rissa nell'unico bar di Belleville, centro della regione, o di portarsi a casa, per tutta la notte, un ubriaco, in attesa che smaltisse la sbornia. Per gli altri fatti, i più gravi, quando ce n'erano, arrivavano due della contea vicina, quella di Madison, e lui, lo sceriffo, lo relegavano a semplice passacarte, con il compito di trovare una sistemazione nell'unico albergo del paese o di procurare le birre gelate. Lo sapeva, era in pensione da sei mesi, e lì a Shetterfield, un altro sceriffo non ce l'avrebbero più messo. Era un costo elevato per un posto dove non succedeva mai nulla. In quella regione, dove anche la fabbrica era fallita, la siccità cedeva il posto alle alluvioni e, quando queste passavano, lasciavano fango, solo fango. La gente, negli anni, se ne era andata via e che bisogno c'era di uno sceriffo? Il sindaco, però, non se l'era sentita di lasciarlo a casa. Lui, lo sceriffo, era solo, e così, il primo cittadino, che era anche un suo amico, lo aveva nominato sorvegliante della contea dietro un piccolo compenso. Del resto, se lo meritava, quando ancora Shetterfield rappresentava un centro importante per la fabbrica di cerchioni per biciclette, lui, lo sceriffo, aveva svolto le sue mansioni con impegno, tenendo lontano quei vagabondi che di notte scorrazzavano con le loro moto per le strade del paese. E poi, tutti si ricordavano ancora di quella volta, quando aveva salvato da un incendio il piccolo Joseph, il figlio del dottore, e, per il suo atto eroico ( si era buttato tra le fiamme della casa senza indossare nessuna protezione), aveva ricevuto l'aquila d'argento, distintivo che portava sempre, con orgoglio, sulla giacca, gli luccicava sul petto, sotto i riflessi metallici della stella. Aveva fatto tanto per garantire l'ordine nella contea, e, anche se la sua stella adesso era solo simbolica, la gente continuava a chiamarlo sceriffo e lui, ogni giorno alle otto, si apprestava a fare il suo giro in macchina per controllare che, nella contea di Shetterfield, tutto fosse tranquillo.

Quel mattino, la centralinista del 119, chiamò subito, secondo gli ordini, quelli della contea di Madison, che altrimenti si sarebbero incazzati; immediatamente dopo, avendo intuito la gravità della situazione dalla voce spezzata di Linda Mc Grauth, informò il pronto soccorso dell'ospedale, che distava però di oltre venti miglia; ed infine, anche se non era tenuta a farlo, pensò di chiamare lo sceriffo che, meglio di altri, conosceva la giovane McGrauth. Almeno lui sarebbe arrivato prima di quelli di Madison, che, si sapeva, volevano essere informati subito, per primi, ma poi, se la prendevano comoda. Tanto - pensavano - cosa poteva succedere di così importante nella contea di Shetterfield, oltre a un'invasione di zanzare, alla morte precoce di un bovino o a un caldo ancora più torrido?

Povera Linda. Pensò lo sceriffo chiudendole gli occhi. Se avesse accettato di sposarlo tutto questo non sarebbe successo. Lui l'avrebbe protetta, le avrebbe dato una casa decente, nel centro del paese. Si, lo sapeva, la differenza di età con lei non era poca. Ma chi se la sarebbe mai presa una così, con due figli da crescere avuti da uno stronzo che poi l'aveva mollata? Lo sceriffo uscì dalla cucina passando per il corridoio, quando si guardò nella specchiera dell'ingresso non vide la sua aquila d'argento luccicare sulla giacca, vicino alla stella. Tornò indietro, forse gli era caduta prima, mentre era in cucina.

Quando arrivarono quelli della contea di Madison videro lo sceriffo seduto in veranda ad aspettarli. L'aquila d'argento luccicava sulla sua giacca, sotto i riflessi metallici della stella.

Lo sceriffo aveva dovuto strapparla dalla povera Rosalie che la teneva stretta, ben nascosta nella sua piccola mano. Rosalie sapeva che solo così si sarebbe vendicata di quell'uomo che, come una bestia, di fronte a lei impietrita dalla paura, aveva fatto del male a sua madre e si era sfogato sul quel corpo col coltello della cucina. Poi, come se niente fosse, si era tolto la camicia sporca di sangue, aveva indossato la giacca con la stella, si era girato verso William, il suo fratellino, l'aveva preso e scaraventato contro lo spigolo del tavolo fracassandogli il cranio, e infine, come una furia, si era gettato su di lei stringendole il collo.

 

 

Il rosso.

 

Tre ore di ritardo. L'aereo atterra in piena notte. Lui esce dall'aeroporto alla ricerca di un taxi.

"125, Brighton street. Al St. James, St. James College."

 

"Dio, ce ne hai messo, sono qui fuori da un sacco di tempo, è dalle nove che aspetto! Se mi beccano, questa volta avvisano i miei. Ma chi se ne frega tanto questo posto è uno schifo."

"Dai, su', vieni qui."

Lui la afferra per i capelli, le morde le labbra. Tocca la pelle, è fredda, fredda come quando per tutto l'inverno la sentiva entrare in casa, al mattino presto, spogliarsi, scivolare piano nel letto a rubargli il calore del corpo per pochi minuti prima della scuola. Lui le aveva dato le sue chiavi. Lei le usava con prudenza, ogni giorno, sempre alla stessa ora. Se vedeva un'altra nel letto si faceva ancora più piccola e silenziosa si attaccava a lui, cominciava a succhiarlo dolcemente, senza svegliarlo. Isabella era una sua allieva, per giunta minorenne, e lui ci doveva andare cauto se non voleva guai. Ma si fidava di lei, il suo odio verso gli "adulti" era una garanzia di riservatezza. Entrano in albergo. Il portiere di notte comprime le narici e mette le chiavi sul banco. "La 16. Secondo piano." Entrano nella stanza. Lui la butta sul letto.

"Ma quanto hai bevuto?"

"Te l'ho detto. Ti ho aspettato lì sotto al freddo per quattro ore. Meno male avevo questa bottiglia."

Tira fuori dalla borsa una bottiglia di whisky bevuta per metà, gliela versa sulla bocca mentre comincia a baciarlo. Solleva il lungo maglione, si sfila le mutandine, piega le gambe e si siede sopra di lui, le braccia legate al collo, le gambe strette al suo bacino, con un deciso colpo di reni si dondola, lasciando cadere la testa all'indietro ad ogni spinta. "Dai, ancora, più in alto." Ride. L'emozione incontenibile di una bambina che per la prima volta si stacca dal suolo. "Adesso fermati, ti prego! Mi gira la testa." Il calore sul viso le accende la pelle, si leva il maglione, lo lascia cadere a terra, gli sbottona la camicia e comincia a leccarlo con cura. Lui le prende il viso tra le mani, le tira indietro, sulla schiena, i capelli neri. La guarda negli occhi: "La tua dolcezza mi commuove." Lei gli mette un dito in bocca, raccoglie tutta la saliva, se la spalma sul seno, si spinge il più possibile contro di lui, aderisce al suo corpo. Con una mano gli apre la cerniera dei pantaloni, sente il calore sul pube e si schiaccia ancora di più contro di lui, con le unghie dentro la schiena e i muscoli delle gambe che lo stringono in una morsa. "Sbattimi. Sbattimi forte." Il ritmo febbrile e allo stesso tempo armonioso le scuote il corpo in una danza tribale. "Sbattimi. Sbattimi. Sbattimi." Una fitta al ventre. Si solleva, la mano sotto il pube raccoglie il sangue che scende abbondante. La mano piena, getta il mestruo contro un quadro, le dita intinte nella vagina dipingono segni sul muro. Balla e ride, si lecca le dita, sangue e sperma. Lui sta a guardarla.

"Matta. Sei proprio matta."

 

Il faro.

 

Vaga e indistinta è la linea di demarcazione tra la spiaggia e il cielo. Il telo di lino grezzo ripara la pelle dalla soffocante luce d'agosto.

"Un altro cubetto?" Le chiede il cameriere.

"Si, grazie. Con un po' di gin."

Il rumore del ghiaccio spezza per un momento la linea retta su cui corre il suono delle onde.

La donna si gira e guarda il faro in cima al promontorio. Qualcosa l'attrae. Lentamente si allontana dalla spiaggia e cammina a piedi nudi incurante del sentiero impervio frammentato da punte di roccia e da piccole ma robuste piantine di cardi, uniche presenze in grado di sfidare i venti e i rigurgiti di salsedine, acido corrosivo su ogni forma di vita. Un vento forte e improvviso si alza da ponente e scuote il mare dalla sua pigra sonnolenza. Il corpo leggero vibra al rumore delle onde che si infrangono sugli scogli. Guarda il faro. Grande, imponente sopra di lei, silenzioso testimone di burrasche e bonacce, salda memoria di approdi e derive senza meta. Guarda. Guarda tutto ciò che gli occhi possono prendere, dall'altro capo della baia fino a tutta la spiaggia e poi ancora oltre il promontorio, dove il mare e il cielo si toccano, si fondono in un solo, lungo, interminabile respiro.

 

 

 

 

 

 

 La schiuma salmastra galleggia negli anfratti tra le rocce, un fiotto di saliva le esce dalla bocca. Si pulisce con la mano senza perdere di vista il mare. Il mare nero della sua memoria che poco alla volta si risveglia seguendo il cammino ipnotico delle onde, si muove e libera tra i flutti pensieri intrappolati, restituisce sulla sabbia immagini ormai cristallizzate. Commozione. E' scritta su quel volto che affiora tra le onde, tra le pieghe della malinconia. Disperazione. Paura. Escono dalle lacrime. Impresse negli occhi, nell'ultimo sguardo prima di&ldots; prima di. No, non ce la fa a proseguire. Abbassa gli occhi sulla terra. Terra bruciata dal sale.

Come riprendere quella parte di sé che la furia del vento ha gettato via? Come ricongiungersi col resto del corpo che per anni il mare ha ingoiato e poi sputato, spinto in frantumi tra le rocce e poi ancora ingoiato e sputato e ingoiato? Madre e sorella, carne della mia carne. Si abbassa il Chador, in ginocchio su quella terra umiliata. Terra delle donne d'Algeria che non riconosce il canto, il canto straziante del mare che restituisce uno ad uno tutti i suoi figli.

 

Il liquido dentro il bicchiere si illumina trafitto dagli ultimi raggi di sole. E' tutto ciò che resta di questa giornata estiva, dove anche il mare si è placato e ha raccolto i suoi averi succhiando col manto invisibile le conchiglie e le pietre colorate delle torri di sabbia, fragili architetture di sogni infantili.

 

 

Paola Forno