STORIA SCONTATA.

di Tomaso Carnaghi

 

Salve io sono Daniele Formenti.

Ed a volte vorrei che la mia faccia si scavasse. Con

grossi solchi neri intorno agli occhi. Righe marcate intorno agli zigomi. Così che si possa vedere l'anima che c'è dentro. Vorrei capelli così sporchi da non esser più tanto importanti.

Faccio volantinaggio. Non mi piace il lavoro che faccio. Non mi da soddisfazioni. Non è un lavoro.

Non.

Quando ero piccolo avevo provato ad andare a scuola. Ma al prof. non andavo a genio e così ho perso degli anni. Ora a scuola non ci vado più perché non mi dava soddisfazioni. E poi ero sempre triste e nervoso.

Ed ora.

Faccio del volantinaggio.

A sei carte l'ora.

E poi la cultura migliore ce la dà la vita e non i libri.

Vorrei che la mia faccia fosse scavata da poterci vedere dentro. Forse lo avevo già detto. Ma con parole diverse.

Mio padre è un brav'uomo. Lavora per dare da mangiare alla sua famiglia. Si diverte solo al bar con gli amici e alla domenica allo stadio. Non come tutti questi stronzi albanesi. Che vengono qui da noi a scroccare il lavoro. E neppure come i gelesi.

Mia madre prega in chiesa la Domenica. Parla con le amiche tutti gli altri giorni. Al mercato al Gs dal parrucchiere (dove spende troppi soldi e mio padre s'incazza. Giustamente.) dalle sue sorelle dalla nonna.

E così via.

Io non ho tanti amici. Perché ha ragione mio padre. Che non bisogna mai fidarsi. Di nessuno.

Il Franco Beletti L'Alfredo Crespi e la Rossana. Che quella è un po' più di una amica. Anche se non si capisce un gran che bene. Perché una volta in una gita (era una mia compagna. Non l'avevo detto) lei mi ha tirato dietro ad un muretto. Mi ha preso la mano. E me l'ha appoggiata lì.

Ha ragione mio padre.

Le donne non le si può capire mai.

Nel mio tempo libero non faccio tante cose.

Confondo quello libero col resto.

Ascolto Radio D.j. Con gli Articolo 31 (quelli di "Oi Maria"). E la commerciale.

Alla sera esco.

Sempre.

Faccio quasi sempre le stesse cose.

Tranne al Sabato. Che vado quasi sempre in discoteca.

Con le cento che tiro su a settimana (Fra il lavoro e la mancia di mia madre) io l'Alfredo e il Franco compriamo quasi sempre le caramelle per la sera. E le sizze per fare su.

Una volta ci siamo detti che se avremo i soldi proveremo a farci qualche schizzo.

Così.

Tanto per provare.

Perché se no son sempre le solite quattro cazzate che si fanno.

Ce ne sarebbe una un po' diversa. Ma ora non ho voglia di scriverla.

Cazzo vorrei la faccia più scavata. Che mi si possa vedere l'anima che c'è dentro. A volte quando sono fatto ci penso forte. Quando sono sfuso.

Quando.

Mi ricordo quando da piccoli io e l'Alfredo davamo fuoco con lo Zippo di suo frate alle code dei gattoni randagi. Come stavamo bene anche senza farci. Non ne avevamo ancora.

Bisogno.

Quando abbiamo staccato il carburatore dal motorino di quel marocco. A calci. Perché quel delinquente importunava delle signore. Per vendere degli accendini. Vadano a lavorare. Come mio padre. Dieci ore al giorno in fabbrica. A sfondarsi il culo per la famiglia. O se no se ne tornino in Africa.

Alla tivù parlavano della Padania. E' giusto che ognuno stia dove deve stare. Lo dice anche mia zia (la sorella di mio padre). Anche se lei ha la cameriera napoletana. E quindi non è una razzista.

Non è giusto che noi ci facciamo il culo per dar soldi anche a loro. Che lavorino. Compratele le Clio sedicivalvole invece di rubarle.

Adesso vado a distribuire i volantini.

Prima volevo dire che qualche sera. Invece delle solite cose. Io e gli altri siamo andati in autostrada.

Sulla Varese - laghi. Ma non con la macchina (anche perché i suoi non gliela danno sempre a Franco).Ci siamo messi sul cavalcavia. La Rossana era tutta agitata. Guardava giù. Le macchine che passavano. Mi aveva anche baciato. Prima mentre venivamo ci eravamo fatti. Ma non tanto.

"Chi fa centro?... Dai !".

Urlava.

Alfredo si era messo in piedi sul parapetto. Guardava ridendo le macchine.

I fari delle macchine. Le luci dei fari delle macchine. Scorrergli sotto velocemente. Le stava calpestando.

La serata era fresca. Di quelle solite. In cui si fanno sempre le stesse cose.

Quando il sasso precipitava il mio cuore aveva strani attimi. Era come se la vita del conducente mi trapassasse.

Fuori dentro fuori.

"Vieni a vedere Rossana. Non è pericoloso".

Tanto non è la nostra.

Quando la mancavamo. Tutti volevamo ritentare. Come alla Slot-machine. Che anche se perdi ritenti. E ritenti. Perché ci provi gusto.

Immaginavamo. Volevamo poter essere il sasso. Per poter vedere la loro espressione. I loro occhi. Cazzo. Sapere cosa diamine si provava. Se dicevano delle ultime cose.

O semplicemente tacevano. Urlavano. Non urlavano. Cazzo che sensazione. E poi le sgommate. Tutto quel macello. Una volta il clacson gli era rimasto incastrato. E continuava a suonare.

Come un Grido.

Ed il mio cuore batteva. Mentre correvamo attraverso i boschi li intorno. Come le subwoofer del pianale del Franco. Sulla Marbella. Quando metteva su la commerciale.

Ora ci sono ritornato. Solo con la Rossana. Ci siamo fatti. E lei me lo ha toccato. Sono venuto. Ma lei aveva lo scottex nello zainetto. Le ho detto "ti amo".

Perché mi aveva fatto stare bene.

In piedi sul parapetto. Ci girava un po' la testa.

Dentro al sasso.

Il fruscio dell'aria.

Veloce.

Il vetro. Subito rotto.

Subito i loro visi. I loro occhi.

Nessuno aveva urlato.

Quale delle due paure sentivo dentro?

Il nostro peso. Contro la sua velocità.

Di chi era quel rumore? Da chi era?

Ed ora il cuore non più come i subwoofer della Marbella.

Quale istante era trascorso.

Quale era.

Finito.


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