Racconto scritto da Luca Magri

L'ANIMA DEL VECCHIO

Ormai era un bel po' che mi rigiravo nel letto senza trovare pace e senza trovarne la ragione. Sarà

colpa di questi materassi di lana pensavo, visto che di solito la Domenica mattina dormo

tranquillamente fino a giorno fatto.

è strano che il babbo abbia voluto venire qui nella casa dove è nato in questo periodo, però mi piace,

non c'ero mai stato. Dalle persiane ormai vecchie entra una luce uniforme e bianca che scopre per me

le travi di legno, l'anima del tetto, e dipinge di chiaroscuri tutta la stanza; il semplice comò dai tanti

cassetti, lo scolorito sentiero aperto sui rossi mattoni del pavimento da tanti passi e il mio letto scuro,

che ieri sera ho scoperto, a mie spese (ho ancora il livido sul gomito) essere di metallo.

Ormai è inutile: decido di uscire anche se è presto e non so dove andare. Con l'attenzione di un

originale ladro esco di casa, per fare in modo che nessuno rompa questa strana magia di questa

insolita giornata. Trattenendo il respiro richiudo il portone dietro di me; libero. Vado verso la stalla

dove sono sicuro di trovare il motorino che usiamo d'estate per andare in campagna. Nel silenzio

della solitudine la trovo addirittura bella: le colonne sono curate e le volte del soffitto danno un senso

di leggerezza a tutto l'ambiente, un ambiente dove, in fin dei conti, ci stavano delle bestie puzzolenti.

Già, chissà com'era con le mucche. Sicuramente ci sarà stato più caldo di ora; ormai il mio naso è

insensibile: ma chi me l'ha fatto fare di uscire dal caldo del mio letto? Mah!? Ancora silenzio. MUUUU!

Ho muggito, e non so neanche il perché; mi sono quasi sorpreso. Comunque del motorino non c'è

traccia, però trovo una vecchia bicicletta, una di quelle che si vedono dominate dalle donne anziane,

che col fazzoletto in testa (non hanno ancora capito che si porta davanti alla bocca? Non hanno mai

visto un film con John Wayne?) e la pedalata regolare vanno a trovare il marito, la domenica

mattina. Incredibile, ha ancora le ruote gonfie. A fatica riesco a diseppellirla dalle macerie

che la ricoprono e, sfrattato qualche inquilino di troppo, tolta un po' di polvere, monto in sella...

comoda, larga, invita proprio a continuare il viaggio, così imbocco lo stradone sterrato che porta al

civile asfalto. Solo ora mi accorgo che non c'è il sole. Vedo le nuvole grigie che scendono fino a

terra diventando timidamente azzurrine, orlate da quella lontana e distinta nebbiolina chiara che non

raggiungi mai. Lungo la strada maestra, così si diceva una volta, anche se non ho mai capito cosa

insegnasse, ci sono i soliti platani a destra, seguiti da qualche casa ancora spenta e dall'altra, il grande

canale che le fa compagnia. Ieri, il babbo, diceva che una volta arrivavano a litigarsi per decidere chi

dovesse tagliare l'erba che cresce sugli argini: beh, sicuramente non capita più a giudicare da come

sono ridotti. Arrivo al paese, naturalmente è deserto, come se tutti fossero in letargo, perfino le

automobili tacciono e io proseguo confortato dal sol rumore della dinamo che a fatica tiene dietro

alla ruota. Ma la luce del fanale si scontra contro la nebbia, che ora ha fagocitato anche l'orizzonte e

che in agguato aspetta di catturare solo me, per poi risputarmi e iniziare tutto

d'accapo. Forse, vuole solo riempire il vuoto lasciato.

Attraverso tutto il paese, non incontro anima viva; che si sia fermato il tempo?

La nebbia non è più solo qualcosa di immateriale nel quale perdersi, infatti sulle ciglia le gocce di

umidità hanno preso il posto dell'estivo sudore. Non so come, forse per la mia scarsa conoscenza

del paese o guidato dalla nebbia, mi ritrovo a salire lungo un argine, abbastanza grande, importante,

ma non riesco a vedere il corso del fiume o del canale che racchiudono, così alla prima deviazione

scendo verso la golena e proseguo a piedi verso la riva. La corteccia dei pioppi da macello è

impregnata di umidità e ... (stupore) finalmente la mia attenzione viene calamitata da qualcosa di

ancora indistinto...

un odore, un rumore ... ecco, sì, proprio un rumore ... discontinuo... un rumore discontinuo veloce,

sì veloce come l'acqua che scorre. Acqua? Ma certo, l'acqua del fiume ! L'acqua del Po.

Ormai c'era confidenza tra me e lui, e potevo passeggiare sulla riva senza timore; anzi, potevo

addirittura guardarlo e vedere, a dispetto della piattezza della sua facciata, le fuggenti rughe infinite,

i gorghi dal cupo suono, l'indifferenza con cui andava avanti. Lungo il mio cammino scorsi una figura

scura appollaiata su un tronco. Mi fermo indeciso se continuare o meno, visto che questa presenza

andava a infrangere la solitudine a cui mi ero affezionato. Un passettino, un'indecisione, un mezzo

passo, poi un passo, fatto sta che mi ritrovai vicinissimo all'uomo che ora distinguevo bene,

anziano, avvolto in un mantello che il mio babbo mi ha detto essere un tabarro e sovrastato da un

cappello scuro, nero il tabarro e una canna da pesca in mano. In preda al panico sul da farsi,

decisi sull'indifferenza passandogli dietro e via.

<<Ac' bela educazion>>

Aveva parlato, eccome. La sua voce era uscita come da un vecchio grammofono sul quale girava

un disco graffiato dal tempo.

<<A sen in dù, an salutè gnianc'>> *

Mortificato; per guadagnare u po' di considerazione azzardai con sicurezza:

<<Questo è il Po, vero?>> a cui seguì il più totale silenzio. <<Guardi che ora il maleducato è lei>> un

po' titubante.

<<Vi sembra una domanda da fare?>> Abbozzai una timida

difesa interrotta da :

<<Io qui ci sono nato. Mio padre era pescatore e anche io lo sono stato finché ci sono stati gli

storioni.>>

Questo è pazzo, ma non mi mossi.

<<Quando ero ancora un piscialetto, quella buon'anima di mia madre per farmi dormire mi metteva

sulla barca del padre, che mi cullava; era l'unico modo per farmi dormire.>>

Ormai ero suo; ogni sua parola era seguita da una scia di fate luccicanti che venivano avidamente

accolte nella mia fantasia.

<<E non si è mai rovesciata?>>

Immediatamente <<CERTO!... certo... ma io lo conoscevo, sapevo i suoi pericoli, lo capivo e lo

rispettavo. Non certo quando ero un ranocchino, come diceva mia madre. Allora c'era la nonna che

mi badava e mi cantava le ninne nanne.>>

A me non le hanno mai cantate, pensavo:

<<E quando l'ha portata in barca suo padre per la prima volta?>>

Un attimo di silenzio, una boccata di passato poi:

<<Avevo sette anni, era nel `22, era una bella giornata estiva, il fiume era basso; mi ricordo che

non avevo dormito quella notte per vedere quando sarebbe arrivata la luce del grande giorno. Mio

papà mi fece anche potare la barca, in un'insenatura. Sbarcammo perfino sull'isola in mezzo al

fiume; mi sembrava di aver scoperto il mondo, povero ingenuo.>>

A questo punto il suo fiume aveva rotto gli argini, con dolcezza. <<Poi via via che passava il tempo mi

insegnò a riconoscere i pesci, a distinguere i posti migliori dove pescare, a evitare le secche. Era una

gioia immensa vedere mio padre contento, orgoglioso quando vedeva che avevo imparato. Me l'ha

sempre detto che sarei diventato bravo quanto lui. Conosceva tutto di lui; gli alberi che crescevano

lungo la riva, gli uccelli che lo abitavano. Ci incantavamo a vedere le rondini che bevevano a pelo

d'acqua... >>

Incredibilmente torna alla realtà :

<<Voi sapete distinguere un Martin pescatore da un airone, vero?>> <<Oh si, me l'hanno insegnato

a scuola>>, orgoglioso di poter dimostrare di sapere anch'io qualcosa.

<<Tutti e due mangiano pesce, solo che uno è grande, mentre l'altro è più piccolo>>

<<Vabbè, ma qual è quello più grande? >>

<<Beh, l'airone penso>>

<<Come, penso>>

<<Non ne ho mai visto uno>>

<<Cosa?!>> la sua intonazione si colorì di stupore; ormai per lui ero un eretico.

<<Così grande non ne hai mai visto uno? Roba da matti.

Taci, guarda, quello li è un Martin pescatore.>>

<<Quale, dove>>

<<Quello davanti a te>> sussurrato.

Vidi solo una scia di blu sluccicante.

<<è straordinario; quando meno te lo aspetti vola via a una velocità impressionante; è molto più

svelto del tuo occhio. E con quell'acuto trillo ti sfida a trovarlo; e lui lo sa che ci frega sempre>>

Ancora una pausa.

<<E vostro padre vi ci porta a lavoro con lui?>>

<<No, lavora in banca, non può.>>

<<A capisco, i capi non vogliono>> quasi sarcastico.<<Io ho un solo capo; lui. Se vuole io vado,

se no pazienza. Ormai non mi offendo più.>>

Silenzio.

<<Invece io e mio padre eravamo come due fratelli. Una volta abbiamo tirato su da soli uno

storione di due metri. Ha tirato un giorno intero, cal cancar. Poi hanno cominciato ad aiutarci i miei

fratelli ma il loro rapporto con mio padre è stato sempre diverso. Infatti hanno smesso prima di me

di fare i pescatori, se ne sono andati, chi a Milano, Roma, anche in America ... e chi è stato

ammazzato dai tedeschi. Eh, cosa ci vuoi fare... >>

Io non ho neanche un fratello.

<<Abitavamo là.>> indicò con un leggero cenno del capo.

<<Ma non c'è niente.>>

<<Infatti, l'ha presa lui>> indicò decisamente il fiume con un dito.

I ricordi del vecchio volteggiavano nell'aria fino ad arrivare come immagini nella mia mente, e

vedevo quest'onda colossale spazzare via la casa come il lupo quella dei porcellini.

<<Mio padre l'aveva detto: non si fidava di quella pioggia e non c'erano più i topi nel pollaio;

dovevamo stare attenti, invece...>> <<E poi>> ora ero io a invitarlo a ricordare.

<<E poi... poi ricominciammo tutto da capo. Ma le rinunce furono tante, gli sforzi fatti spesso non

bastavano così alcuni miei fratelli se ne andarono a fare gli operai, i braccianti, finché non rimasi solo io

e mio padre; non lo avrei mai lasciato. Io sono nato pescatore. Come lui. Sai, una volta abbiamo

preso `na bala, c'era festa in paese, ma così grossa che ci siamo messi a pescare da un ponte

ferroviario.>> La frase finì con una risata strozzata in gola che si spense piano, piano, piano. Poi una

goccia, e poi un'altra caddero dal viso del vecchio, leggere come il ricordo, disegnando nell'acqua

cerchi subito cancellati dalla corrente, a testimonianza di una vita passata insieme a lui, suo padre e il

fiume.

<<Va via>> le sue ultime parole.

Obbedii senza neanche rimproverare la sua asprezza. La sua voce così flebile e piena di echi, con

quel ritmo cadenzato e solenne quasi... quasi da marcia funebre... no, no! cadenzato e basta... che mi

aveva ipnotizzato, affascinato, io, che non ascolto neanche mio nonno. Mentre torno a casa non

faccio che ripensare a quel vecchio; che strano, per tutto il dialogo non mi ha mai guardato, non si

è mai girato verso di me, non conosco il colore dei suoi occhi... ha sempre guardato il fiume. E la

canna... si quella canna che teneva tanto gelosamente fra le mani non aveva il filo... e non aveva

esche con sé. A questo punto mi bloccai, non sapevo più cosa pensare.

Avevo riattraversato il paese, ma era tutto come prima; stesso silenzio, stessa nebbia che riempiva

la piazza. E i platani, i soliti platani che bagnano la strada di casa... dei platani ne colgo le

differenze che li distinguono: più robusto, più slanciato, quello rachitico. Anche le sfumature sui

tronchi mi parlano con voce nuova, finalmente a me comprensibile. Ora capisco anche perché la

strada è maestra...eh sì, maestra di vita, di vita, come il fiume, vero vecchio?

Che bello tutto ciò, che fortuna essermi alzato presto questa mattina... già, chissà che ore

saranno; freddo è ancora freddo e le

case sono ancora disabitate, mah !? Però vedo qualcosa, un'ombra, allungata e sottile; ma si! è

un airone! Non posso deluderlo, accelero... mi sta aspettando.