( Cesare Placida )

- NON CI RESTA NULLA -

La chiamavano “ Trattoria Svizzera”. Così, almeno, diceva l’insegna,mentre, quasi sventolando a mo’ di bandiera, con le sue scritte rosse su fondo giallo,ammiccava all’ignaro viaggiatore.

Della trattoria, pur potendosi ordinare una pasto caldo, in verità aveva ben poco. Era un specie di corte dei miracoli. Lì dentro, tra gli odori di cipolla, dei soffritti e della polvere impastata nel sudore, una folla di accattoni carrettieri gente svelta di coltello e più di qualche avanzo di galera trascinava, tra quelli pareti color del fumo, la propria misera esistenza.

Si muovevano tra bestemmie da fare inorridire ogni “ pio” seguace di Satana, quarti di rosso e interminabili,quanto combattute partite a scopone scientifico.

Erano gli anni dell’immediato dopoguerra, quando alle riaccese speranze dei pochi faceva da sfondo la disperazione dei tanti, i quali, grazie all’ardente fornace dell’ultimo conflitto bellico, avevano, compreso l’onore, perduto tutto. E tra un bicchiere di barbera e un piatto di pasta e fagioli quell’umanità di “ senza Dio” attendeva l’ora del giornale radio.

Tacevano di colpo. Tutti, grazie all’informazione, riacquistavano, magari per un solo momento, la loro dignità di cittadini. Poi, tornando al gioco delle carte e intercalando i loro commenti tra una bestemmia e l’altra, chiedevano all’oste di prendere Radio Mosca. Era quello il loro vangelo, il loro verbo, il loro discorso della montagna.

“ Baffone”,anche per loro, avrebbe fatto sorgere il “sole dell’avvenire”.

&ldots; La nebbia, salendo dal fiume, radendo l’argine e alzandosi sopra i filari dei pioppi, opacizzando la luce dei lampioni, invadeva la città. Era l’ora dell’Avemaria.

Era l’ora di riscaldarsi le ossa dopo una giornata passata a tendere la mano tra il Duomo e Santa Maria del Carmine.

Mentre per i carrettieri, saldato il prezzo del rimessaggio del carro, contavano,pesandolo su una mano, il loro magro guadagno.

Anche un uomo con una gamba di legno contava il ricavato della sua giornata sul sagrato del Duomo. Contava i suoi soldi sopra il luridume di un tavolo della

“ Trattoria Svizzera”. Gli era andata bene; aveva raccolto molto. Gli occhi dell’uomo brillavano per la felicità: cantava e bestemmiava mentre dalle sue tasche uscivano banconote da dieci da cento e da mille lire.

Ordinò da bere e un piatto di pasta e fagioli. “ Oggi per me è arrivato Baffone”, disse battendo sul tavolo con la mano aperta, “ Baffone è arrivato! E’ arrivato Baffone”.

Un uomo, con le spalle alla parete di fronte, seduto al suo tavolo mangiava un uovo al “ purgatorio”. Il rosso del sugo faceva sparire il rosso dell’uovo. Era un uomo di media statura, vestito alla zuava. Aveva una camicia di flanella scura. La giacca, sbottonata, pur avendo la fodera sdrucita, non dava un senso di disordine.

Quell’uomo. Nell’insieme, ricordava vagamente il gentiluomo di campagna, una categoria spazzata via dalla guerra. L’uomo intingeva il pane nel sugo, e nel portarlo alla bocca, guardava l’uomo con una gamba di legno.

Poi, con fare indifferente, rigettava il suo sguardo nel piatto. Il rosso del tuorlo lo fissava sornione.

Quello dalla gamba di legno accucchiaiava ingordo nella pasta e fagioli. Un filo di brodo gli colava lungo il mento spargendosi a delta tra l’ispida barba.

“ Baffone è arrivato” - ripeteva mentre il cucchiaio andava su e giù. La radio gracchiava. Radio Mosca taceva. “ La radio è disturbata, Radio Mosca non si sente” - disse l’oste spegnendo l’apparecchio.

“ Tutta colpa degli americani”. Commentò ad alta voce un carrettiere.

“ Sta sicuro che c’entra anche il Vaticano”, disse un altro. “ Maledetti preti”

“ Carlo un quarto”. E l’oste con fare sollecito si portò al tavolo dei carrettieri.

“ E’ arrivato Baffone!” - e l’uomo con la gamba di legno, sempre bestemmiando come un forsennato, ordinò stufato con patate e un altro quarto di rosso.

L’uomo alla zuava continuava ad osservarlo mentre, la mano sinistra appoggiata al bicchiere, fumava un mezzo toscano&ldots;

&ldots; Una donna dal volto piuttosto appassito si precipitò dentro la “ Trattoria Svizzera”. “ E’ l’Irene, quella che “lavora” tra il vecchio Vescovado e Piazza Goito” - osservò Celeste, un tipo a mezzo tra l’accattone e il carrettiere.

“ Olà Irene! Dai! Vieni a farti un bicchiere!” - Urlarono dal tavolo dei carrettieri. Ma la donna era stravolta. Ansimava. Si mise a sedere. Una mano le porse un bicchiere.

“ Lì fuori, verso il vescovado&ldots;” - prese a dire sempre ansimando - “ un uomo è a terra; perde sangue&ldots; correte !”

Uscirono tutti. L’uomo con la gamba di legno giaceva a terra;

perdeva sangue. Con una mano cercava di tamponare la ferita.

 

  Era uno squarcio profondo proprio in mezzo alle costole. Accattoni e carrettieri fecero circolo intorno all’uomo.

  “ E’ arrivato Baffone, Baffone è arrivato” - diceva tra gli spasmi del dolore.

  Come sbucato dal nulla, chiedendo permesso e sgomitando, l’uomo alla zuava si portò sopra all’accattone dalla gamba di legno. Carrettieri e accattoni cominciarono a stringersi intorno minacciosi.

  Quei personaggi da corte dei miracoli avvertivano come un pericolo immanente sopra le loro teste. Quell’uomo non era uno di loro. Perché era capitato proprio lì in mezzo?

  “ E’ arrivato Baffone !” e con quell’ultimo urlo l’uomo con la gamba di legno morì.

  Quella piccola folla fu invasa dallo smarrimento. “ Ha da venì !” - Esclamò Celeste.

  “ Certo, verrà per ognuno di noi” - disse l’uomo alla zuava.

  Delicata come una carezza la mani di Irene chiuse gli occhi dell’accattone.

  La “ topolino” blu era arrivata alla fine del viale dei cipressi. La villa di mattoni

rossi, quasi un turrito castello, apparve come all’improvviso dominatrice sul prato.

Faceva caldo. Il sole dell’estate picchiava su alcuni papaveri mentre due farfalle svolazzavano vicino una siepe di more. La “topolino” arrestò la sua corsa di fronte al cancello. Un uomo dai capelli brizzolati scese dall’auto. Un vecchio vestito in coloniale gli venne incontro.

“ Si accomodi”, disse. L’uomo dai capelli brizzolati varcò il cancello.

“ Andiamo a bere qualcosa di fresco sotto il porticato”. Continuò il vecchio vestito in coloniale. I due, lentamente e silenziosi, si avviarono verso il porticato. Il frinire delle cicale erano l’unica voce di quel pomeriggio d’agosto.

“ Se non ho capito male lei è un giornalista”

“ Si”, rispose l’altro; “scrivo per “ La gazzetta”.

“ Ho capito, ma, coraggio, non faccia cerimonie, si accomodi e beva la sua limonata&ldots;con questo caldo&ldots;”

I due si accomodarono su delle poltrone di vimini. La limonata era frasca e l’uomo dai capelli brizzolati, allentando il nodo della cravatta, si sbottonò il colletto della camicia.

“ Non voglio disturbarla troppo quindi&ldots;”

“ Lasci perdere, ho capito bene perché è qui; ma mi dica cosa ha suscitato il suo interesse? Quell’uomo, quello con la gamba di legno, non aveva parenti e non fu possibile nemmeno identificarlo. Il caso venne archiviato subito: omicidio di uno sconosciuto a carico di ignoti”.

“ E’ vero, però di fronte ad una vita spenta con la violenza si è sempre davanti ad un buco nero, una forma di energia maligna che potrebbe tornare a colpire ancora. Quell’uomo steso sull’asfalto, subito dopo l’imbrunire di una sera del “ 46”, era soltanto un povero accattone. Una nullità. Per i più un qualcosa di insignificante nel complesso ingranaggio della vita”.

“ Vedo che se la prende calda, però è giusto che sia così e un tempo anch’io ero come lei. Mi piaceva battermi per un ideale. Mi sentivo un paladino della giustizia e più la causa era oscura e più mi ci buttavo a capofitto. Poi successe qualcosa e nel nome di tanti ideali sia io che tanti altri come me finimmo come schiacciati da una forza oscura. Diventammo una massa informe, scura, ristagnante come mota di acquitrino di palude. Questa è la verità caro signore, ma, a proposito, ho dimenticato le sue generalità&ldots;”

L’uomo dai capelli brizzolati abbozzò un sorriso. “ Nonostante l’età e la pensione non ha dimenticato il suo vecchio mestiere, oppure di quello è rimasta solo un’antica deformazione professionale? Un altro non avrebbe mai detto “ ho dimenticato le sue generalità”. Comunque sono Roberto Pastrengo e scrivo per “ La gazzetta” ma quest’ultimo particolare lo ricorsa bene”.

“ Che vuole sono stato Commissario di Pubblica Sicurezza per oltre trent’anni e quel modo di parlare mi è rimasto appiccicato nella lingua, del resto anche lei come cronista di nera ha un suo linguaggio, un suo gergo, e lo ha dimostrato poco fa a proposito dell’ultimo particolare”.

I due uomini, guardandosi negli occhi, si sorrisero amichevolmente.

“ Toccato !” Esclamò Roberto Pastrengo.

Il vecchio commissario si alzò in piedi e, invitando Roberto Pastrengo a seguirlo, iniziò a scendere per un vialetto.

Si accese un “ toscanello” . Lentamente, ammirando la geometria del parco, i due raggiunsero un boschetto di larici. Al centro uno zampillar d’acqua precipitava gorgogliando dentro una vasca circolare.

“ Mi piace venire qui”- disse il vecchio vestito in coloniale.

“ Qui ci veniva anche mio padre e prima di lui mio nonno. Un tipo strano mio nonno, un po’ picaro e un po’ Casanova. E per la mescolanza delle due qualità si ritrovò garibaldino: prima a Marsala e poi a Mentana. Qui mio nonno e mio padre venivano a meditare e, specie mio nonno, qui meditava sulle donne. Anche mio padre, sa, sull’argomento non scherzava davvero ed io, spesso, da bambino ho visto mia madre asciugarsi qualche lacrima. Poi tutto tornava come prima, la vita di ognuno è fatta così: una risata, quattro lacrime, una baruffa e, alla fine, di nuovo una risata. Dopo un funerale c’è sempre un lauto banchetto&ldots; E sì! Bisogna ricominciare&ldots;”

Il “ toscanello” si era spento. Il sole, calando verso ponente, colorava di rosso l’acqua di un fiumiciattolo. Roberto Pastrengo provò quella strana sensazione tra lo stupito e l’imbarazzato. Non era piacevole. Un giornalista, come diceva il suo capo, non deve farsi catturare dalle situazioni e dai fatti: deve entrarci dentro, frugarvi all’interno con attenzione e, quale provetto subacqueo, risalire in superficie dopo un giusto periodo di decompressione.

Ma nelle parole del commissario c’era un messaggio trasversale, forse un avvertimento, sicuramente sarebbe andato verso un ammasso putrido di brutture, un coagulo di nefandezze in uno strano spaccato di umanità. E doveva stare attento, essere vigile, pronto a risalire in superficie e, il vecchio in coloniale aveva ragione,tornare alla vita, tornare nuovamente a ridire.

“ Vede”.- Il vecchio aveva ricominciato a parlare. Il “toscanello” faceva brillare la brace rossa alla luce dell’imbrunire.- “ Vede laggiù in fondo alla pianura, subito dopo l’argine destro del Bindolo, ecco, ha visto?”

Roberto Pastrengo assentì con un rapido cenno del capo.

“ Bene!”- Esclamò il vecchio assaporando il sigaro - “ Proprio lì, in fondo alla pianura, era la primavera del “ 45”, un battaglione tedesco attaccò un colonna partigiana. Erano appena scesi dai monti quando quelli, all’improvviso,uscirono sparando da sotto l’argine destro del fiume. Avevano piazzato tre mitragliatrici e due panzer della classe “ tigre” sbucarono, ruggendo, da dentro il pioppeto&ldots;”

“&ldots; Dai Tonin! Scappa! Togliti di lì! Accidenti a loro questi ci stavano aspettando&ldots;” E Tonin, correndo, si lanciò dietro un mucchio di sassi. Il suo volto si contrasse: un ghigno, una smorfia e cadde. Gli occhi sbarrati, una chiazza rossa sul petto e Tonin rimase disteso sul terreno con le braccia aperte. Sembrava che volesse abbracciare il cielo.

“ Siamo stati traditi, qualcuno ci ha venduti”, disse quello che sembrava essere il capo della colonna.

“ Su, di corsa, filiamo verso la cascina Bandello, ai morti qualcuno ci penserà&ldots;”

“ Questo è successo laggiù, un giorno della primavera del “ 45”, e quel terreno di battaglie ne ha viste tante: Spagnoli, Austriaci, Francesi e Piemontesi tutti hanno i loro morti lungo il corso del Bindolo”.

“ Ho capito” Disse Roberto Pastrengo e passandosi le dita tra i capelli: “ Ma perché mi racconta queste cose? Io sono qui per tutt’altro affare”.

“ E’ vero, ma intanto guardi la pianura. La vede? Nonostante tutto è sempre bella. Creda a me e non mi scambi per un cinico. La mia età, ormai, mi porta ad essere una specie di filosofo, un filosofo piuttosto pratico”.

Il sigaro del vecchio in coloniale si era spento di nuovo. L’uomo gettò lontano il mozzicone. L’imbrunire tendeva al verso sera e Venere, a destra del sole, sola nel cielo, splendeva in tutto il suo lucore.

&ldots;&ldots;&ldots;..

Nella cameretta del “Micca”, un alberghetto stile liberty al centro di Collepiano, Roberto Pastrengo, alla tastiera della sua portatile, cercava di dare forma agli appunti, alle impressioni della giornata.

Quell’inchiesta si presentava difficile e nessuno sembrava disposto a parlare. Tutti volevano dimenticare. La guerra, il più brutto dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, aveva cambiato l’animo degli uomini.

Eppure quel vecchio, il filosofo pratico, con il suo girare in tondo per non toccare l’argomento, qualcosa gli aveva detto. Anzi, forse più di qualcosa. Ormai si erano stabiliti degli equilibri. Equilibri fatti di silenzio, fatti di dire e di non dire.

Ognuno aveva firmato il suo trattato di pace. Lui, invece, Roberto Pastrengo, quel trattato di pace doveva romperlo.Chi aveva ragione? Lui? Gli altri? Difficile

trovare una risposta.

Sentiva caldo. La finestra era aperta ma non entrava un filo d’aria. Allontanò da sé la macchina da scrivere. Radunò i pochi fogli e uscì. Lungo la strada una coppietta tubava appoggiata a un muro. Due ubriachi, sostenendosi a vicenda, cantavano una canzonaccia: “ Là dietro il monumento di Mazzini&ldots; giocavano a scopone i ragazzini&ldots; E il cane e il gatto e la mosca mora fanno un baccan della malora&ldots;”

Roberto superò i due “ cantanti” mentre la coppietta si produceva in un bacio appassionato. Girò l’angolo e fu sul corso. Entrò in una balera.

L’orchestra suonava il bolgie- bolgie; tre giovani coppie piroettavano in pista.

Tutti avevano voglia di vivere e di dimenticare. Ordinò un boccale di birra.

“ E’ solo?”-Una mora sui quaranta si era avvicinata al banco di mescita.

“ Si annoia ? Vuole ballare ?”- Si, la donna stava parlando proprio a lui.

Roberto la riconobbe era la cameriera del “ Micca”. Non era niente male ed aveva un seno procace e la pelle del collo e delle spalle era liscia, lucida ed accattivante.

“ Mi scusi”, riprese la donna, “ forse l’ho disturbata ?”

“ Oh,no non si preoccupi ! Non mi disturba affatto&ldots;gradisce un bicchiere di birra ?” E, senza attendere risposta, ordinò un altro boccale.

“ Collepiano è un paese noioso e poco ospitale con il forestiero” tornò a dire la donna. Roberto continuava a guardarla sentendosi sempre più attratto fisicamente da lei.

“ Mi scusi ma come si chiama?”

“ Maria, Maria Steli, lei invece si chiama Roberto, Roberto Pastrengo”.

E insieme risero della banalità delle parole e della situazione.

L’orchestra prese a suonare “ Il bel Danubio blu”. “ Balliamo?”, disse lui. E subito conquistarono la pista.

Un due e tre, giro! Un due tre, giro! E più giravano al ritmo del valzer e più lui la stringeva attirandola a sé premendo sulla schiena. Lei lo guardava. Sorrideva

socchiudendo gli occhi mentre, come le onde del Danubio sciabordando lievi si lasciavano cullare dalla corrente,si abbandonava all’abbraccio di lui.

Sull’ultima nota la guancia di lei si poggiò per un attimo su quella di Roberto.

Eccitati e sudati Roberto e Maria tornarono al banco di mescita. Ci voleva qualcosa di fresco. Presero due orzate.

“ Balli bene, sai, sei molto leggera”- disse Roberto Pastrengo accorgendosi di aver usato un tono molto confidenziale: senza averle chiesto l’assenso le aveva dato del tu.

“ E tu sei anche molto svelto&ldots; ma, ti dirò, ti preferisco così; ma perché non usciamo? Fa caldo qui dentro”.

Uscirono: i due ubriachi, seduti sugli scalini di un nobile palazzotto seicentesco, continuavano, con delle variazioni sul tema, nel cantare la loro canzonaccia: “ E Fanfulla, Fanfulla da Lodi&ldots; cavaliere di gran rinomanza&ldots; ogni notte grattava la pancia&ldots; a una donna di facili amor&ldots;”Roberto Pastrengo, con un sorriso ironico a fior di labbra, si mise ad osservarli.

“ Beh, almeno loro sono felici e riescono a stare allegri” commentò ad alta voce.

Perché, e a te cosa manca? E non badare al Carlo e al Giovannino, la loro testa è eternamente immersa nella schiuma del barbera e vivono come capita”.

“ Si, però, anche loro hanno un cuore, anche loro, un giorno, avranno amato&ldots;”

“ Oh sì, a Collepiano si racconta che anni fa il Carlo&ldots; ma accidenti a te, lascia perdere e vieni con me, la notte è lunga ma l’alba spunta presto e non mi va di stare qui a parlare di quei due disgraziati”.

Aveva detto disgraziati. Proprio disgraziati, ma perché? E Roberto, seguendo Maria, ci pensò su per un attimo. Forse quei due mai conobbero fortuna, magari perché oppressi da qualcuno, oppure perché perseguitati dalla malattia e dalla miseria.

Comunque, in ogni caso, forse a modo loro, avevano guardato al di là del buco nero e, sempre a modo loro,avevano svoltato pagina praticando il collo della bottiglia e il fondo del bicchiere. Anche loro, in fondo,come il vecchio vestito in coloniale, erano dei filosofi pratici.

“ Guarda, io abito lì”. La voce di Maria lo fece riemergere dal profondo delle sue elucubrazioni e, senza volerlo, le cinse le spalle. Provò una strana sensazione. prima sentì come un vento caldo alitargli sul viso, poi, quasi a mo’ di una sferzata, un brivido freddo gli corse lungo la spina dorsale. Erano forse i primi segni dell’innamoramento? Non volle cercare la risposta; la vita andava vissuta, bevuta,sorbita, momento per momento attimo per attimo.

Così sarebbe stato molto più pratico: e accidenti al vecchio vestito in coloniale!

Roberto e Maria, stretti l’uno all’altra, andavano avanti lentamente. Lei continuava nel suo chiacchierare. Lui, nuovamente precipitato dentro i suoi pensieri, al contrario, taceva. Entrarono in un cortile. Sulla sinistra del porticato una scala, inoltrandosi nel buio, saliva verso gli appartamenti. La mano di Maria cercò l’interruttore della luce.

Un chiarore giallognolo illuminò la scala. Presero a salire: la prima rampa e furono su un pianerottolo; ancora cinque scalini e apparve un portoncino. Sulla destra, sopra il campanello, “ Maria Steli” diceva la targhetta. La donna viveva sola.

“ Accomodati” e facendogli un cenno di invito gli fece strada. Roberto Pastrengo percorse un breve corridoio. Un salottino civettuolo gli si aprì davanti. Due poltrone, un tavolo rotondo, una cristalliera e quattro sedie arredavano l’ambiente.

Sulla parete, dietro alle poltrone, una serie di ritratti 18/24 animavano il muro.

Sul ripiano della cristalliera, invece, una foto di gruppo, racchiusa in una cornice d’argento, troneggiava come il simulacro di una divinità pagana all’ingresso del tempio.

“ Adesso faccio un caffè”- disse lei. “ E’ proprio quello che ci vuole rispose lui”, mentre lei, muovendosi con dei passettini veloci, andava verso la cucina.

Roberto si avvicinò alla foto sulla cristalliera. Un gruppo di giovani, chi a terra e chi abbarbicato su un trattore, con lo sguardo fiero e le mani strette sui mitra si concedevano all’obiettivo. Non vestivano uniformi; era chiaro: erano partigiani.

“ Su, bevi il caffè” e la voce di Maria lo richiamò al presente. “ Pensa tu allo zucchero”.

“ Grazie!” E mentre versava lo zucchero nella tazzina i suoi occhi tornarono sulla fotografia incorniciata d’argento.

“ Ottimo il tuo caffè”

“ Oh, beh, non mi prendere in giro! Visti i tempi ci si arrangia come si può. Senti, mica vorrai passare la notte a parlare di caffè” continuò Maria accavallando le gambe.

Aveva indossato una vestaglia rossa e il rosso della vestaglia faceva un gran contrasto con il nero dei capelli. Si baciarono.

“ Sei un timido” disse lei mentre ormai la vestaglia si era aperta sul davanti.

Lui la guardò avidamente. Tornò a stringerla. Le accarezzò teneramente il seno e fu sua.

Era l’alba. “ Dimmi una cosa Maria”.

“ Di pure”.

“ Chi sono quelli della foto sulla cristalliera?”

“ Oh quelli! Poverini che brutta fine. Erano partigiani e qualcuno li ha traditi. Ma aspetta! Aspetta solo un momento”.

E flessuosa come un gatto scese dal letto. Si mise un paio di pianelle e andò verso il soggiorno. I primi rintocchi della campana annunziavano il nuovo giorno.

“ Guarda qui” Roberto afferrò la fotografia dalla mano di lei.

“ Guarda sul retro” - Roberto Pastrengo girò la foto sul retro. - A Maria con amore. Tonin- diceva la dedica.

“ Hai letto?”

“ Sì!”

“ Quello seduto sul cingolo del trattore era Tonin, il mio Tonin”.

In Roberto Pastrengo si risvegliò lo spirito del giornalista e il fiuto del cronista di nera. Anche il vecchio vestito in coloniale aveva fatto quel nome. Perché?

Forse quel mistero, quella storia, stava,uscendo dalle nebbie di un recente passato, prendendo forma e sostanza.

Però, ironia della sorte, quella storia lo aveva coinvolto emotivamente ancora prima del suo riemergere dal punto più nero dell’oblio. Ormai con Maria doveva avere tatto, delicatezza, lui, quella donna, sentiva di amarla.

“ Ti va di parlarne?” Le chiese quasi sottovoce.

“ Quelli”, cominciò con la voce che tradiva l’emozione, “ sbucarono con il loro carri da dentro il pioppeto&ldots;”

Non c’era alcun dubbio era la stessa storia dell’uomo in coloniale. Sì ! Qualcuno aveva tradito.

“ Maria lascia perdere, conosco la storia; so com’è andata e forse sono qui proprio per questo”.

“ Che vuoi dire ?” Gli chiese piuttosto sorpresa.

“ Voglio dire che sono un giornalista de “ La gazzetta” e le circostanze del lavoro mi hanno condotto qui, a Collepiano, seguendo le tracce di un cadavere con una gamba di legno”. Lei rimase in silenzio. Lui sentiva l’amaro venir su dallo stomaco e impastargli il palato. Aveva in testa una gran confusione.

Pensava: “ c’è un momento in cui la sensazione si confonde con il sentimento” mentre fissava intensamente Maria. E rompendo la magia del silenzio raccontò di quella sera de “ 46” quando un accattone venne accoltellato.

“ Sì, però il Tonin era un’altra cosa”.

“ Non ho detto questo”. E nel rispondere Roberto ebbe la percezione che Maria si stesse allontanando da lui.

“ Ti senti come tradita, vero ?”

“ Non dire stupidaggini, sono io che ti ho cercato giù alla balera. Quello che non riesco a capire è perché tu voglia, quasi per forza, accostare il mio Tonin al quel tuo accattone”.

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;.

L’orologio del campanile segnava le sei. Le campane di San Gaudenzio suonavano il mattutino. Il sole sembrava come adagiato dietro le nuvole e un odore d’acqua, trasportato da una leggera brezza, avvolgeva il paese risalendo dal Bindolo.

“ Andiamo, è ora di uscire” -disse Maria alzandosi dal divano.

“ Ci vorrebbe un caffè” disse Roberto mentre con una mano, e a fatica, cercava di soffocare uno sbadiglio. Non avevano dormito. E quella lunga notte era passata in fretta. Era come volata via sciupata dai ricordi emergenti dal passato.

Erano sull’uscio quando lui l’afferrò alla vita.

“ Che fai?”

“ Voglio baciarti”.

“ Ma che stupido!” E con un fare flessuoso si avvinghiò a lui. Scesero in strada: “ devo fare delle faccende”- disse lei e stringendogli il braccio si divise da lui.

Roberto Pastrengo non disse una parola - aveva capito - e camminando a passo svelto raggiunse l’albergo.

Lo sguardo dell’albergatore appariva sorpreso.

“ Ha dormito fuori?” Chiese non riuscendo a trattenere la curiosità.

“ Sì! Al bordello che non c’è”, rispose Roberto piuttosto seccato. L’uomo capì e abbassando lo sguardo gli porse la chiave della camera.

Ma quell’uomo poteva essere utile: una persona umiliata per un errore compiuto cerca sempre la via del riscatto e lui, come si dice,. a bocce ferme, gli avrebbe indicato quella strada, gli avrebbe offerto l’opportunità.

Quell’uomo, almeno per sentito dire, doveva sapere qualcosa di quel tradimento. Un albergo, anche in tempo di guerra, fa sempre registrare un certo andirivieni.

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;.

La “ topolino”, dopo un ultimo colpo di tosse, si fermò di fronte al duomo. Le guglie gotiche del tempio dominavano la piazza.

Roberto Pastrengo, girando dal lato dell’altare della deposizione, raggiunse la redazione. Aveva ancora voglia di quel caffè ma il dovere lo chiamava.

A “ La gazzetta” non lo vedevano da due giorni e il direttore,sicuramente, “stava in pensiero”.

Meglio toglierlo dallo stato d’ansia. Entrò nell’androne del palazzo. Su, in alto, al centro della parete di destra, il volto baffuto di un nobile sabaudo lo fissava.

“ Certo che anche questi hanno fatto una brutta fine” si sorprese a pensare e riflettendo sugli antichi miti risorgimentali varcò la soglia della redazione.

“ Salve gente novità?” Dentro l’acre odore di fumo di fetentissime “nazionali” e di bionde “ serraglio” si mescolava con quello della carta straccia.

Praticamente era il caratteristico odore di ufficio, dove il ristagnare degli odori stessi dava sempre un’impressione di scarsa pulizia.

“ Finalmente ti si vede!” L’apostrofò il direttore.

“ Menomale! Mi ha visto e così gli è passata l’ansia”.

E un solo vago lampeggiare degli occhi di Roberto, fece accenno, forse, alla sua muta sottile ironia.

“ E allora che sai dirmi del “ Gambadilegno”? Lo vogliamo scrivere o non lo vogliamo scrivere questo servizio?”

E veloce più della raffica delle sue parole, il direttore tornò a sparire dentro il suo ufficio. La segretaria di redazione gli lanciò un’occhiata. Roberto la ricambiò con un sorriso e si accomodò alla sua scrivania.

Si mise a riordinare i suoi appunti. Doveva rintracciare alcune persone, magari l’Irene, quella che “lavorava” tra il vecchio vescovado e Piazza Goito. Quella prostituta, già avviata verso il bacino di disarmo, oltre agli ultimi spasimi del, come diceva il direttore, “ Gambadilegno”, doveva per forza aver visto dell’altro.

Magari il colore del vestito, dei capelli, insomma un piccolo particolare capace, però, di reggere due numeri de “ La gazzetta”. E il direttore sarebbe stato contento e lui avrebbe finito di andare in giro ad evocare fantasmi&ldots;

“ Salve gente novità?” Dentro l’acre odore di fetentissime “ nazionali” e di bionde “ serraglio” si immischiava con quello della carta straccia. Era il caratteristico puzzo d’ufficio, dove il ristagno degli odori dava sempre un’impressione di scarsa pulizia.

“ Finalmente ti si vede”- l’apostrofò il direttore.

“ Menomale! Mi ha visto e così gli è passata l’ansia” . E un solo vago lampeggiare degli occhi di Roberto, fece accenno, forse, alla sua sottile ironia.

“ E allora che sai dirmi del “ Gambadilegno”? Lo vogliamo scrivere o non lo vogliamo scrivere questo servizio?” E veloce, quasi più della raffica delle sue parole, il direttore tornò a sparire dentro il suo ufficio.

Roberto si sentì come colpito da un’occhiata della segretaria di redazione; lui la ricambiò con un sorriso. Si accomodò alla scrivania e si mise a riordinare i suoi appunti. Doveva rintracciare alcune persone, magari l’Irene, quella che “lavorava” tra il vecchio vescovado e piazza Goito.

Quella prostituta, già avviata verso la via del disarmo, come diceva il direttore,oltre agli ultimi spasimi del “ Gambadilegno” doveva per forza aver visto dell’altro. Forse il colore del vestito, dei capelli, insomma un piccolo particolare capace, però, di reggere almeno per due numeri de “ La gazzetta”. E il direttore sarebbe stato contento e lui avrebbe finito di andare in giro ad evocare fantasmi&ldots;

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;..

 

Trovò l’Irene al suo solito posto. Stava seduta fuori, sulla strada, vicino al suo monolocale, un vecchio magazzino di un tale senza parenti prossimi e sparito in Africa Orientale all’indomani della proclamazione dell’Impero.

Irene ricamava una massa informe che aveva la pretesa di essere un lenzuolo.

Canticchiava un vecchio motivo mentre con l’ago cercava di portare a termine un’orlatura. Non era ancora mezzogiorno e non era ancora l’ora dei clienti.

Irene ebbe come un sobbalzo all’udire il suono della voce di Roberto. Quell’uomo si era rivolto a lei con troppa gentilezza; troppo rispetto e lei, l’Irene, alle gentilezze non era abituata. E nel dire buongiorno si tirò sulla schiena e il suo viso si atteggiò in una smorfia tra la preoccupazione e il senso della paura per l’incombere di un ignoto pericolo.

“ Buongiorno Irene”.

“ Sì, che c’è? Buongiorno, io non so niente!”

“ Ma io non ti ho chiesto ancora nulla e poi non sono un poliziotto”.

“ Non sei un poliziotto! E allora cosa diavolo sei?”

“ Sono un giornalista de “ La gazzetta” e vorrei chiederti una cosa, ti ricompenserò”.

“ Dimmi”.

“ Nel “ 46”, tu hai visto uccidere un uomo, un accattone con una gamba di legno: chi era quell’uomo? e tu lo conoscevi?”

“ Ancora con quella storia del “ 46” e allora dissi tutto a un tizio, un commissario di polizia, ma chi fosse quel tale io proprio non lo sapevo e non lo so. Quel poveraccio era capitato qui agli inizi dell’anno e si mise ad accattonare sul sagrato del vecchio vescovado. Però&ldots;”

“ Però” - chiese Roberto approfittando della pausa di Irene.

“ Però, ecco, a me non è mai sembrato un vero accattone, ma questo al commissario non lo dissi”.

“ E perché mai?”

“ Perché alle madame meno dici e meglio è. C’è il rischio che in mezzo ai guai ci finisci tu”

“ Beh, hai ragione, come si fa a distinguere un accattone vero da un accattone falso”.

“ Questo lo dici tu; io sto per strada dodici ore al giorno e un accattone so riconoscerlo, credi a me! Quello nello stendere la mano non ci metteva convinzione, non ci metteva passione, in altre parole non ci metteva carattere, non ci metteva l’orgoglio”.

“&ldots; Era proprio vero, l’orgoglio, pur essendo un sentimento, è un concetto indefinito” - pensò Roberto Pastrengo mentre l’Irene si accendeva una sigaretta. Ne aspirò una boccata e riprese a narrare: “ Disse di chiamarsi Manlio e di aver perso una gamba a Tobruk. Ma la faccenda di Tobruk, però, io credo che sia una balla.”

“ Disse di chiamarsi Manlio e il suo cognome?”

“ Non lo so, non lo disse e io non lo chiesi, sulla strada è meglio non mostrarsi curiosi”.

“ E della sera dell’omicidio cosa sai dirmi?”

“ Non molto; lui, Manlio, tanto per intenderci, stava seduto al suo solito posto quando, il volto stravolto dal terrore, si alzò di scatto cercando di fuggire verso Piazza Goito. Tornai ai miei affari, stavo trattando con un cliente, poi, proprio da dietro quell’angolo, arrivò un urlo. Il mio cliente ed io ci precipitammo verso quella parte &ldots; e&ldots; il resto&ldots; lo conosci già”

“ E il tuo cliente che fine fece? tornò poi con te?”

“ Sparito, sparito nel nulla e, a parte il guadagno perduto, non lo biasimo”.

“ Grazie Irene!” E una banconota da mille lire era comparsa nella mano destra di Roberto.

“ No, grazie&ldots; questo non è lavoro&ldots; è una cortesia” e girando su sé stessa si infilò nel monolocale.

&ldots;&ldots;&ldots;

Era domenica. Il ferragosto bussava alla porta. Faceva caldo, molto caldo. il riverbero del bianco dei palazzi stile liberty, rimbalzando sul nero dell’asfalto,

scoccava i suoi infuocati dardi sul corso di Collepiano.

Roberto posteggiò la “ topolino”. Maria gli fece cenno di raggiungerla. Stava poco più in là, all’ombra di un platano, tra l’edicola e il caffè Spagnoli.

Si abbracciarono. Si scambiarono un bacio. Roberto le accarezzò una guancia.

“ Dovrei fissare la camera per la notte” . Le disse cingendola alle spalle.

“ Ma non essere sciocco, starai da me”, gli rispose Maria ammiccando con gli occhi con aria di complicità. Lui accettò senza rispondere. Tenendosi abbracciati si misero a camminare.

“ Andiamo al fiume?” Gli chiese lei.

“ E va bene! Andiamo alla macchina”.

Si lasciarono Collepiano alle spalle. La campagna si aprì davanti a loro. Filari di viti, orti e fiori di campo: la natura faceva sfoggio di tutti i suoi colori. Roberto guidava muto; era come assorto quando la sua attenzione venne attratta dalla villa dell’uomo in coloniale. Fu Maria a rompere il silenzio. “ A che pensi?”

“ Oh, niente, guardavo quella villa lassù è da lì che ho cominciato la mia inchiesta”.

“ Toh! da quel vecchio strambo e solitario del commissario in pensione, ma, per favore, io voglio stare con te e lasciare perdere i morti. Quelli, pace all’anima loro, ormai sono solo i nostri ricordi e noi abbiamo il dovere di vivere”.

La “ topolino” avanzava lungo la strada bianca. Dopo la curva, dove l’argine del Bindolo formava una specie di promontorio, uno chalet dall’aspetto ospitale e civettuolo li invitò a fermarsi.

Roberto arrestò l’utilitaria. Entrarono. Era un ristorantino delizioso, adatto all’accoglienza di coppiette in cerca di solitudine. Prenotarono per le tredici e scesero lungo l’argine giocando a rincorrersi tra il pietrisco della spiaggetta ghiaiosa.

L’afferrò alle spalle. La trasse a sé. La sollevò sulle braccia. La baciò delicatamente posandola su una zolla erbosa. Maria si avvinghiò a Roberto.

Ripresero a baciarsi. La mano di lui le sbottonò la camicetta. Lei fremeva di piacere e mentre la mano di Roberto raggiungeva l’ombelico Maria si irrigidì. Poi, con dolcezza, con un sussurro in un orecchio, gli disse: “ Fermati, calmati, la giornata è lunga e la notte è noiosa&ldots;” E in quella pausa c’era tutto un programma.

Roberto si mise a sedere. Era ancora presto. Una biscia d’acqua, lenta e sinuosa, scendeva lungo la corrente del fiume. Una libellula si posò su un sambuco. Si alzarono, si guardarono negli occhi e tornarono a passeggiare lungo la spiaggetta.

“ Ti voglio bene, ti amo”, le disse con un filo di voce.

“ Anch’io cosa credi” rispose lei mentre gli prendeva una mano.Roberto finalmente aveva capito. Sottilizzare con l’amore era inutile, così come l’analizzare il sentimento era solo un’attività distruttiva.

E di distruzioni, sia fisiche che morali, ne aveva viste anche troppe.Bisognava tornare a vivere e l’amore era la vita. Era l’attimo fuggente da afferrare e con esso

camminare verso uno sconosciuto futuro.

&ldots;&ldots;&ldots;

L’uomo in coloniale aspirava con voluttà il suo “ toscanello”. Il Neri

sorseggiava un bicchiere di vino bianco ghiacciato.

I due, cercando di combattere l’afa, dalla veranda del Gran Caffè Prosdocimi, osservavano i radi passanti di Corso Roma. Sullo sfondo i grandi giardini pubblici,

dominati dalla statua di un Garibaldi a cavallo,chiudevano con degli alberi fronzuti

l’ultimo spicchio di cielo.

Il Neri e l’uomo in coloniale tacevano. Fu il Neri a parlare per primo.

“ Quella storia sembrava ormai sepolta ed ora eccola, puntuale, risorgere dal passato grazie ad un oscuro cronista di provincia. E’ il caso di preoccuparsi?”

“ Non più di tanto” - gli rispose l’uomo in coloniale che, cercando di riattizzare il “toscanello” e ostentando tranquillità, aveva assunto un tono distaccato.

“ Dici bene tu” .

“ Perché di cosa hai paura, tu, tra l’altro, quella famosa sera non eri qui in città; nella cosiddetta “ Trattoria svizzera” c’ero io e, posso garantirtelo, feci le cose per bene”.

“ Si, ma l’Irene?”

“ Non parlerà, puoi esserne sicuro. Fu una mondana coinvolta per caso e poi sai dirmi cosa potrebbe dire? Stava trattando il prezzo del suo “ mercato”.

Non sa nulla e vide soltanto quell’uomo steso a terra a cui, pietosamente, chiuse gli occhi. Al resto ci pensai io”.

L’uomo in coloniale lasciò il “ Toscanello” nel portacenere e il Neri finì il suo vino bianco. Era l’ora del pranzo e corso Roma era ormai deserto. Uscirono dal

“Prosdocimi” e, dopo una rapida stretta di mano, il Neri e l’uomo in coloniale si divisero.

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;.

Maria e Roberto erano al caffè. Il pranzo era stato ottimo e l’odore del fiume avvolgeva lo chalet. Alla dolcezza del momento stava subentrando una specie di torpore: era un po’ di sonnolenza e Maria appoggiò la testa sulla spalla di lui.

“ Torniamo al fiume? lì potrai riposarti”. Maria acconsentì. Si sistemarono in una zona d’ombra. Si presero per mano. Lei chiuse gli occhi. Sembrava che dormisse. Le accarezzò la fronte. Due farfalle volavano in tondo. Un ramarro in un guizzo di luce verde sparì in una siepe di felce.

Lui l’abbracciò e lei cercò la bocca di lui. Alte le rondini garrivano nell’azzurro. Tornò a stringerla e ripresero a baciarsi.

“ Andiamo a casa mia?” Sussurrò lei.

“ Come vuoi tu, Maria!”

&ldots; Il Neri era immerso in cupi pensieri, quel giornalista proprio non ci voleva. Diceva bene il vecchio commissario: lui quella sera non era in città. Lui comandò soltanto quella disgraziata azione quando Tonin e gli altri due caddero falciati dal fuoco tedesco.

Il “ Gambadilegno”, però, venne giustiziato senza processo un anno dopo quel fattaccio. Aveva voglia di ripetersi che andava fatto e un senso d’angoscia, sempre più forte, sempre più prepotente, salendo su dallo stomaco, lo stringeva alla gola.

Ma chi era il “ Gambadilegno”? Non lo conosceva. Non lo conosceva nemmeno il resto della colonna. Lo conosceva soltanto il vecchio in coloniale, il vecchio commissario, quello che combinò tutto e che, fingendo di indagare sull’omicidio, sistemò ogni cosa. E mettendosi a riordinare i ferri della sua officina cercò di scacciare un si brutto pensiero.

Il sospetto però è come il tarlo nel legno è come la ruggine nel ferro, ti rode dentro, ti mangia il cervello fino a farti crollare.

Il Neri sentiva che doveva agire, doveva fare qualcosa. Lui non era mai stato un vile e lo aveva dimostrato più volte durante la guerra partigiana. Mai, davanti al nemico, aveva voltato le spalle e il pericolo lo aveva sempre affrontato a viso aperto.

Ma quella volta si era fatto convincere e il commissario ebbe buon gioco. Lui era un uomo pratico capace per vocazione naturale di far girare i motori e di politica capiva poco, mentre l’uomo in coloniale, quello sì, accidenti a lui, che con le parole era un mago e della politica era un profondo conoscitore.

“ Tu vorresti farlo processare” - gli aveva detto - “ ma ricordati che dal processo potrebbe uscirne assolto; tutti sappiamo che fu un delatore ma la prove? Ti sembravano tempi quelli per poter acquisire delle prove? Ascolta a me che di indagini me ne intendo”: E decisero per l’omicidio.

Tonin e gli altri morti lo volevano. Già, me che quello, il “ Gambadilegno”, fosse un delatore lo sapeva soltanto il vecchio in coloniale; per lui per gli altri il

“ Gambadilegno” era soltanto un poveraccio che trascinava il suo patire cercando di vivere.

Il rosso del tramonto stava precipitando verso l’imbrunire. Le rondini avevano lasciato il cielo ai pipistrelli. Roberto e Maria, seduti sul letto,si godevano la penombra.

Si erano amati, si erano amati a lungo tanto da sembrare come vinti dal lungo sforzo dell’eros.

“ A cosa pensi?” - chiese Maria.

“ Penso che tanta felicità è come turbata da qualcosa di impalpabile, inivisibile, tuttavia invasiva con la sua presenza”

“ Sei un cervellone, devo ammetterlo, ma io non ti capisco, cosa vuoi dire?”

Roberto le sorrise e la mordicchiò sul collo. Lei lo ricambiò con un bacio e i due corpi tornarono a cercarsi. La luce bianco lattiginosa della luna penetrò nella stanza.

“ Senti ancora quella presenza?”

“ Si, ancora, è come un qualcosa tra noi due”.

“ Tu non vuoi dirlo ma sei geloso”.

“ Non credo!”

Roberto Pastrengo tacque. Maria sospirò mentre i suoi occhi cercavano quelli di lui.

“ Hai fame?”

“ E tu?”

“ Beh, qualcosa nello stomaco dobbiamo metterlo&ldots;senti di là ho del pollo freddo e una bottiglia di spumante&ldots; andiamo!”. Obbedì muovendosi con fare pigro.

“ Certo che pasteggiare a pollo freddo e spumante è un’idea piuttosto originale, non trovi?”

Lei non rispose e Roberto provvide ad apparecchiare la tavola. Ebbe inizio la loro cena per due.

 

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;

“ La Trattoria Svizzera” inghiottì Irene. Una lama di luce giallo verdastra le illuminava i tre quarti del viso. Un odore di fumo e di sudore saturava l’ambiente. Si accomodò a un tavolo vicino alla parete di fondo. Ordinò un quarto di barbera e un piatto di minestrone.

Più in là, tra il banco di mescita e il vecchio apparecchio radio, quattro facchini del mercato generale giocavano a scopone scientifico. Irene si immerse nel piatto. Aveva fame.

“ Scopa !” Gridò uno dei facchini e, quasi per festeggiare la mano fortunata, si versò da bere; ne versò anche agli altri tre. I quattro, all’unisono,levarono in alto i bicchieri per un rumoroso brindisi.

“ Alla salute! Cin cin!” E il mazziere diede inizio alla distribuzione delle carte. Irene, intanto,silenziosa sola e cupa, sorseggiava il suo barbera.

“ Ciao Irene”. La donna sollevò un tantino il capo. Il suo sguardo incontrò quello di lui. Era, anno più anno meno, un uomo intorno alla cinquantina.

“ Chi sei?” Chiese Irene. Ormai cominciava a non ricordare più i volti dei suoi clienti. In fondo costoro erano soltanto il corrispettivo della sua prestazione. Lei non doveva chiedere altro e, possibilmente, dimenticare subito.

“ Non mi riconosci?”

“ No !”

“ Già, è passato molto tempo da quella sera”.

“ Ma quale sera!”

“ Quella sera del “46” quando un urlo interruppe il nostro incontro”.

“ Tu!” Esclamò Irene.

“ Sì, io”.

“ E adesso cosa vuoi?”

“ Vorrei, come dire, riprendere da dove fummo interrotti”.

Irene si sentiva a disagio. Era la prima volta dopo tanti anni di mestiere.

Avvertiva come un pericolo imminente. Quell’uomo era come tornato da un lontano passato.

“ Allora”- incalzò lui.

“ E va bene andiamo”

L’uomo pagò la misera cena e il vino di Irene e uscirono.

Tra il vecchio vescovado e via Guasco il monolocale di una modana in disarmo fu il testimonio di un carnale mercimonio. La modesta alcova di Irene, ricavata in un angolo del monolocale, era illuminata da una fioca luce rossa.

Lei, nuda, giaceva sotto un lenzuolo celeste. Era tesa e percepiva quell’uomo come ostile. Lui, silenzioso e voltato di spalle, si stava rivestendo.

“ Quella sera me la sento ancora dentro”- disse lui mentre metteva del denaro sopra una consolle: due banconote da diecimila.

“ Questi sono per te”.

“ Ti ringrazio ma sono troppi”.

Forse quel pericolo sconosciuto si stava allontanando. Lui non rispose. Poi, guardandosi intorno con fare indifferente,l’afferrò per le spalle. La tirò fuori del letto. Irene era esterrefatta. L’attirò con forza a sé come per baciarla. Lei cercò di schermirsi ma lui era troppo forte. Le sue mani erano forti. La stringevano sul collo.

A Irene mancò il respiro. Il sangue le batteva sulle tempie. Si afflosciò come un sacco vuoto. Era finita.

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;

Roberto versò lo spumante. Le bollicine ballavano nei bicchieri. Filavano verso l’alto. Un raggio di luna colpì il bicchiere di Maria.

“ Amavi molto Tonin?” Lei fece il broncio.

“ Devo saperlo”- continuò Roberto.

“ E’ una storia passata”- rispose lei.

“ Sì, ma il suo epilogo fu tragico”- riprese Roberto.

“ Ma perché mi tormenti?”

“ Perché devo sapere. Ti amo Maria e ti voglio con me, per la vita”.

“ Sta tranquillo! E’ una storia passata”.

Brindarono ancora mentre una nube nascondeva il disco della luna.

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;

In redazione c’era animazione. Tutti correvano, tutti si davano da fare. Quel nuovo omicidio aveva risvegliato la città.

Il capoluogo di provincia sembrava uscito da un lungo torpore e l’umano egoismo, al di là del sentimento di pietà, vedeva nella morte di una mondana finalmente qualcosa di nuovo.

Del resto, dicevano i capannelli alla fermata dell’autobus, i piccoli gruppi nei caffè e le donne, durante l’ora del pettegolezzo salottiero, una mondana, una che fa quella vita, una fine simile doveva aspettarsela.

Quegli incontri occasionali sulla strada quell’appartarsi con degli sconosciuti non potevano che portare male. E quando, raramente tra l’altro, la pietà riusciva a far capolino un “però poverina” era il massimo della sua esternazione.

Il sentimento, quasi come un elemento di disturbo, immediatamente veniva esiliato tra le più profonde nebbie dell’inconscio.

La povera abitazione di Irene era piena di poliziotti mentre il cadavere, coperto con quel lenzuolo celeste, giaceva ancora lì per terra,freddo e immobile nella fissità della morte.

Il commissario Esposito, nella sua cadenza tipica del napoletano verace, si muoveva intorno dando ordini e disposizioni.

C’era anche Roberto Pastrengo. Il commissario e il giornalista si conoscevano da tempo: non erano amici ma si stimavano.

La salma venne rimossa. Il carro funebre si allontanò da via Guasco.

“ Qui abbiamo finito”, disse il commissario Esposito mentre i suoi uomini sigillavano il portone.

“ Omicidio di una prostituta, poca roba per voi giornalisti”- sottolineò Esposito rivolgendosi a Pastrengo.

“ Forse, ma questo - secondo me - è un omicidio un po’ particolare: non si tratta di un omicidio a scopo di rapina e non si tratta del solito maniaco”, gli rispose Roberto.

Il volto del commissario si contrasse come per una smorfia e, affondando la mano sinistra nella tasca dei calzoni, si avvicinò al giornalista. I due si allontanarono dagli altri. Camminarono lentamente verso il vecchio Vescovado.

“ Che vuole dire?” Chiese Esposito.

“ Per ora nulla, niente di preciso, ma proprio cinque o sei giorni fa ho parlato con quella poveretta. Sto volgendo un’inchiesta su quel fatto del “ 46” quando venne ucciso quell’accattone dalla gamba di legno”.

Il commissario si irrigidì.

“ Senta, credo che lei sappia qualcosa più di me, forse dovrebbe mettermi al corrente”.

“ E’ solo una sensazione ma mi dia qualche giorno e, naturalmente, ci metteremo d’accordo, anch’io ho certe esigenze. Intanto sappia che&ldots;” E Roberto Pastrengo raccontò al commissario Esposito la storia dell’agguato tedesco, della morte di Tonin in fondo alla pianura del Bindolo e come la Irene fu, in qualche modo, testimone dell’uccisione dell’accattone dalla gamba di legno.

“ Certo!” Esclamò il commissario. “ Quei soldi sopra la consolle escludono la rapina però, per quello che è la mia esperienza, non me la sento di escludere l’ipotesi del maniaco”.

“ Potrebbe avere ragione. Tuttavia, l’uccisione della Irene mi sembra una strana coincidenza; lei non era l’unica mondana della città, forse era una delle più anziane e un maniaco, in genere, non paga mai la sua vittima”.

“ Beh, nel suo ragionamento c’è del vero e la sua inchiesta potrebbe anche entrare nella mia e, perché no, potremmo anche collaborare, non le pare?”

“ Sì! Potremmo”

&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;&ldots;..

Fece un bel pezzo. La pagina di nera de “ La gazzetta” formulava un ventaglio di ipotesi e il direttore era soddisfatto. Solo Roberto era inquieto e rimaneva nella convinzione primitiva.

Quell’ultimo omicidio non era avvenuto per una pura coincidenza. Irene sapeva, sapeva di più di quanto avesse detto, almeno nella convinzione del suo carnefice. Squillò il telefono.

“ Pronto”.

“ Pronto, è Roberto Pastrengo?”

“ Sì, sono Pastrengo”.

“ Ottimo lavoro, sono il commissario Esposito, il suo articolo potrebbe far commettere un errore all’assassino, quanto ha scritto è ottimo per le indagini”.

La cadenza napoletana del commissario gli invadeva il timpano, sembrava un fiume, un fiume di parole che lui, ormai, non comprendeva più.- Commettere un errore - commettere un errore - “ Accidenti ! poteva uccidere ancora! Maria! Sì! Maria era in pericolo”.

E con quel rovello nel cervello si accomiatò dal commissario e, quasi a cavallo del vento, uscì dalla redazione.

La “ topolino” correva lungo la provinciale. Collepiano apparve subito dopo il terzo tornante. Il campanile gotico del duomo dominava il paesaggio. Ma Roberto non aveva testa per riflettere sul bello e sull’arte. Un pensiero fisso gli ronzava nella materia grigia. Sentiva che Maria era in pericolo.

L’assassino poteva arrivare fino a lei. Quella storia di sangue voleva altre vittime e le vittime garantiscono il silenzio. L’uccisione di Irene non era un omicidio per caso e Roberto lo sapeva.

Quel suo agitarsi, quel suo continuo chiedere e ricercare il filo sottile della verità doveva aver allarmato qualcuno: qualcuno che sapeva, che vide e che forse ordinò quel primo omicidio del “ 46”.

La “ topolino” si arrestò davanti al Micca. Roberto Pastrengo entrà nell’albergo. L’albergatore curioso,forse per farsi perdonare la gaffe dell’altra volta, lo accolse con una cordialità eccessiva, un tantino untuosa.

“ Buongiorno, desidera una stanza?”

“ No! Avrei bisogno di vedere Maria, potrebbe chiamarla?”

E l’uomo, piuttosto contrariato, affacciandosi sulla scala chiamò Maria ad alta voce.

La donna arrivò poco dopo e Roberto, afferrandola per un braccio, la trascinò fuori. L’uomo dell’albergo, da dietro il banco della reception, seguiva la scena con avida curiosità.

“ Ma che ti prende!” Esclamò lei mentre il rosso dell’ira le copriva il volto.

“ Sei in pericolo, molla tutto e vieni via”,. le rispose Roberto a denti stretti.

“ In pericolo io? e perché!”

“ Non hai saputo dell’uccisione della mondana giù in città?”

“ Sì, ho saputo ma io cosa c’entro?”

“ Su, spicciati e non fare domande; giù in città, a casa mia, ti spiegherò tutto”.

Intanto l’albergatore, sempre dal banco della reception, assisteva al loro concitato parlottare.

Roberto e Maria rientrarono e lei, cercando una scusa plausibile, prese congedo dal suo datore di lavoro.

Salirono sulla “ topolino”. L’albergatore afferrò il telefono.

 

  &ldots;&ldots;&ldots;&ldots;..

La lettera era chiarissima: Roberto, immerso ne ticchettio delle macchine da scrivere della redazione, non faceva che rigirarsela tra le mani.

Il vecchio in coloniale era la chiave di quel maledetto puzzle. Già commissario di pubblica sicurezza, capo partigiano e poi nuovamente commissario di polizia. Aveva organizzato tutto con estrema meticolosità. Quello di Manlio, l’accattone dalla gamba di legno, era stato un delitto perfetto e soltanto l’Irene ne rappresentava una nota fuori posto. Una mondana avrebbe potuto parlare, specie se sollecitata da un piatto di minestra e un bicchiere di rosso di quello della “ Trattoria Svizzera”.

Era una mondana da poco, che per poco si vendeva. Di quel tipo di femmina lui era pratico, meglio eliminarla come il “ gambadilegno”.

Quello poi si era infiltrato in mezzo alla sua colonna e una sera, prima del fatto del “ Bindolo”, qualcuno dei suoi lo sorprese ad origliare. Ascoltava i discorsi del capo e li raccontava in giro. Una sera , sul finire del “ 44”, proprio sulla piazza di Collepiano, finì preda di un rastrellamento tedesco.

Non gli successe nulla e il giorno dopo, più o meno verso l’ora di mezzogiorno, era di nuovo in giro per il paese.

“ Il resto lo conosce. Caro Pastrengo torni a casa mia e le farò vedere un cosa”.

Roberto decise di fare un’altra visita al vecchio. Sarebbe partito nel primo pomeriggio. Avvertì il commissario Esposito. Quest’ultima novità poteva essere interessante.

“ Se non le dispiace vorrei venire anch’io”. La voce del commissario aveva un tono cordiale e privo dell’ufficialità.

Roberto acconsentì alla richiesta. Riagganciò la cornetta del telefono e tornò alla macchina da scrivere.

Pioveva. Un forte temporale scaricava acqua ed elettricità sulla strada e sulla campagna. La “ topolino” avanzava decisa tra la pioggia. Grosse nuvole nere, scendendo da Collepiano, facevano rotta verso la città.

“ E’ l’estate che se ne va”, disse il commissario Esposito.

Dopo l’ultima curva apparve il lungo viale dei cipressi.

“ E’ laggiù” e Roberto indicò con l’indice della mano sinistra la villa di mattoni rossi. Si fermarono. Roberto suonò il clacson. Pioveva. Il cancello era aperto.

“ Strano”- osservò Roberto.

“ Sembra che ci attenda” - disse di rimando il commissario.

Scesero dalla “ topolino”, varcarono il cancello e, affrontando la pioggia, superarono di corsa il viottolo di ghiaia.

Un silenzio, rotto a tratti dal brontolio dell’allontanarsi del temporale, avvolgeva la villa. La portafinestra del porticato era aperta. Bussarono ai vetri. Non ebbero risposta. Entrarono in casa. Tutto era in ordine.

“ Ma dov’è il vecchio?” Chiese Esposito. Roberto non rispose. Entrarono nello studio. Il vecchio in coloniale giaceva immobile, accasciato in poltrona con il capo quasi rovesciato sullo schienale.

Un’imponente libreria riempiva le pareti. Un rigagnolo di sangue veniva giù dalla tempia destra del vecchio in coloniale. Gli scendeva lungo il collo, gli macchiava la giacca ristagnando sui calzoni.

Un foglio di carta, una lettera scritta con inchiostro nero, stava al centro della scrivania.

Una pistola, una 6,35, giaceva a terra a qualche metro dal vecchio commissario.

“ Accidenti!”- urlò Roberto con voce strozzata.

“ Si è suicidato” - Commentò Esposito-

“ Ma quella è una lettera!”

“ Su, la prenda”.

“ Ma è per me!”

“ L’avevo capito. La legga ad alta voce”.

“&ldots;Caro Pastrengo, allora feci un errore. Io uomo della legge volli sostituirmi ad essa. Mi sbagliai ed ora ho deciso di rendere conto di quei fatti ad un più alto tribunale. Spero di trovarvi un po’ di clemenza. Non mi resta altra scelta ma devo interrompere questa spirale di sangue. Io solo sono il colpevole. Gli altri ormai al sicuro, hanno solo avuto fede in me ed eseguito i miei ordini&ldots;”

“ Tutto è finito” - disse Esposito.

“ Per la cronaca” - osservò Roberto.

“ Già, questo diavolo di vecchio se ne è andato con il suo segreto”.

“ Ha ragione, non ci resta nulla, tutto è finito e un assassino, o forse due, sono liberi per la strada”.

“ Così va il mondo o almeno così sembra, ma guardi qua”.

E il commissario frugando in un cassetto della scrivania aveva tirato fuori una vecchia foto ormai ingiallita. Il temporale era terminato. Era tornato il sereno e l’arcobaleno si tuffava nel “ Bindolo”.

(Eventuali riferimenti a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistite sono puramente casuali).


 

Note bio-bibliografiche:

nome: Cesare

cognome: Placida

nato a Tivoli (RM) il 06/11/1941 e residente in Avezzano, via Massa D’Albe n. 25. Educatore penitenziario per adulti a riposo.

Ha pubblicato scritti di storia e saggistica varia, scritti giuridico-pedagogici, storici nonché racconti brevi. Questi alcuni titoli:

Narrativa:

§“Ciociaria che scompare”- Progresso Democratico “30” Marzo ’71;

§“Lo strano viaggio di Ruby Marx”, “Il cappello di Roky Clox” - Marsica Domani 1996;

§“Champagne per due” - Marsica Domani 1996, “La grande invasione” - Marsica Domani 1998.

Saggistica:

§“La cultura e il premio Silone” - Marsica Domani 1987, “Omaggio a Silone nel ventennale della morte” - I nuovi argomenti maggio 1998, “Il suicidio: crisi della comunicazione” - I nuovi argomenti dicembre 1998.

Storia:

§“Omicidio in teatro” - Marsica Domani 1999, “Innocenzo e Anacleto - ovvero la provincia di campagna e marittima scacchiera dello scisma occidentale” - Progresso Democratico “30” - Frosinone maggio 1971.

Scritti giuridico-pedagogici:

§“Riflessioni sul caso di Marco Caruso” - Temi Ciociara - Rivista giuridica bimestrale nov/dic 1977, anno IV, fasc VI, “Il risveglio della creatura sopita - Droga che fare?”- Marsica Domani 1995, “Carlo Cattaneo e la funzione rieducativi della pena” - Marsica Domani, “Un problema psicopedagogico - note a margine a due casi di omicidio” - Marsica Domani 1993.