Domenica 23-4-2000 -Pasqua




Viola leggero e verdolino tenerello, un salone fin de siecle di vent’anni fa mi attende dall’altro lato della hall coi suoi specchi, coi suoi divani di midollino e col suo silenzio fatto di thè e di vecchi profumi.

I suoi tavoli sono bassi ed io me ne devo stare nel simmetrico bar saturo delle note della globalizzazione musicale in declinazione iberica che zittisce anche i più caciaroni fra i gruppi di turisti che indulgono ai riti del divertimento serale normalizzato.

Qui i tavoli sono alti e se voglio fissare qualche ricordo di questa settimana maiorchina, qui devo stare anche perché lo scrittoio della camera, questo elemento irrinunciabile che la tradizione britannica ha collocato nelle camere per ospiti di tutto il mondo, da noi è occupato dal nero scatolone che, se si esclude una “Passione secondo San Matteo” l’altro ieri, vomita l’usuale pattume in tutte le lingue.

“Piove” di un Modugno che si starà tradizionalmente rotolando , si alterna al “Bel Danubio blu” ed imperterrito io scrivo……

Mio figlio gioca a bigliardo con alcuni bimbi spagnoli ed io, tra uno sguardo divertito ed uno perplesso, ne approfitto per chiacchierare con mia moglie, cosa che, con lui attorno è rigorosamente vietata al punto che lei mi confessa di gradire sommamente un simile momento di intimità , pur inglobati nella folla a chiudere questo giorno di una Pasqua laica che un Venerdì Santo spagnolo, non avrebbe assolutamente lasciato supporre.

La solita colazione al buffet questa mattina, anzi non proprio la solita perché molto più contenuta delle precedenti e poi via, in autobus, verso una Palma indifferente dove attendere un’ora l’altro bus che ci avrebbe portati a destinazione. Ale a chiedere il cos’è e il perché di ogni cosa, e noi, quattro passi col naso al vento a cogliere echi modernisti e verande pensili su stretti balconi che evocano muscharrabbye di mai trascorse arabità.

Trovato il bus aperto e vuoto, saliti senza biglietto, convinti di farlo a bordo, visto riempire il bus, scesi di corsa vedendo che gli altri lo avevano già in mano – Si facevano al bar di fronte - dopo aver rischiato di non trovar più posto, siamo finalmente partiti.

Sempre più anonimi,i palazzoni ,lasciavano il posto ad una piatta e ricca campagna punteggiata di case padronali e coloniche ma tutte circondate da muriccioli e muraglie che da tempo immemorabile si sbriciolano ad un sole che oggi non c’è.

Nuvoloni neri sfrecciano sulla pianura e minacciano diluvi su di noi che, muniti debitamente di impermeabili ed ombrelli, abbiamo lasciato tutto nella valigia in albergo.

Il compagno di partita a bigliardo di mio figlio opta per le braccia del padre ed Ale, non troppo di buona voglia, deve raggiungere noi che ciondolando un po’ ci alziamo per raggiungere la camera.

Della nostra meta di oggi quindi, parlerò domani













Lunedì 24-4-2000 – Pasquetta


In nostro onore diffondono musica napoletana che in un’esecuzione peraltro pregevole, con questi luoghi non ha tuttavia granché a vedere. Giovanna, un po’ ingrugnata perché insoddisfatta della sua scelta di venire qui, indugia su una panchina assolata, io, felicissimo, assaporo questo paradiso scrivendo all’ombra, Lale fa la spola fra di noi e disegna.

Alla mia destra tra le branche di una scala a tenaglia gorgoglia una fontana nascosta fra le radici contorte di una specie di banian salgariano, di fronte gracidano le rane fra le ninfee di un laghetto placido “ e non mi accorgo “ di un turista, forse italiano, che fa loro il verso. Lale non vuol saperne di non mettere il bicchiere di spremuta d’arancia fuori della portata dei suoi piedi e puntualmente lo rovescia: sua madre trattiene con difficoltà istinti omicidi.

Scriviamo alcune cartoline: una a Bruno che ci scrive sempre, una a scuola ed una a Silvano per dirgli che questa mattina, alla fermata dell’autobus, abbiamo colto due battute di una conversazione che facevano così : “ Al g’ha mia voia da lauraa “. Ci spiegherà poi da illustre glottologo qual è se a Gravellona, per caso si parla maiorchino.

Alla fermata dell’autobus successivo, alcuni ragazzi discutevano a voce altissima per scegliere una meta alla loro scampagnata di Pasquetta. Perduta quella prescelta per un ritardo di una sola misera ora rispetto a quella di partenza, c’era chi voleva il mare, chi la montagna e chi invece voleva convincere il conducente a cambiare percorso per andare dove diceva lui. Sono saliti su un altro autobus (peccato erano simpatici) .

Per un lungo tratto la strada era la stessa di ieri poi una deviazione e ai piedi delle montagne, prima del tunnel di Soller, una rotonda con asfalto eccessivo e quindi l’arrivo: Jardines De Alfabia.

Antica villa araba, poi gotica ed infine barocca, si apriva davanti a noi con i pilastri tagliati a sghimbescio sulla strada obliqua. Un viale alberato saliva all’ingresso principale: biglietto, visita bagni ed entrata.

Una facciata liscia terminata a cimasa come le chiese dei pueblos messicani, con grande portale a colonne, due occhi di bue sagomati sotto i quali ripiani con scalette, ci dicono per salire a cavallo (e se i proprietari volevano scendere in campagna dove non c’erano i ripiani?).

Entriamo…. No! Da lì si esce. Bisogna svoltare a sinistra e salire una lunga scalinata tra palme ,che in altri tempi deve aver conosciuto cascate e zampilli, ma che ora è polverosa e secca. L’impronta è inconfondibilmente islamica ,ma di un islam pensato romanticamente che non ricorda il Generalife o Siviglia ,ma il Kashmir o i giardini persiani. A ben guardare, tuttavia se non fosse per le palme, potrebbe anche essere una Villa D’Este inaridita.

Alla sommità, una porta per introdurci in un mondo promesso di magie proprio non c’è: un altro muro liscio con una sperduta fontanella chiude la prospettiva, ai lati due avancorpi con due occhi di bue, guardiamo in quello di sinistra: ciarpame, guardiamo in quello di destra una volta di pietra e muschio accoglie il riverbero mobile di un immenso bacino d’acqua sferzata da sciabolate di luce d’oro verde: la magia è qui.

Breve svolta e attraverso una porta insignificante si scende lungo un pergolato dalle colonne di pietra e dalle travi a volta pieno di zampilli che annaffiano il malcapitato che vi si avventura, e pur bisogna andare. Un cartello dice che le pause durano 20 secondi perciò se ci si sbriga è possibile attraversarlo asciutti. Scatta, partiamo, Ale cade subito, lo rialzo e ci si parano davanti due signore che sarebbe scortese superare….. Lavati! Arriviamo ad una terrazza con un tavolo in pietra e, perfidia mediterranea, non si va da nessuna parte, bisogna tornare indietro: Rilavati! I fontanieri di Hellbrunn erano dei dilettanti.

Pieghiamo a sinistra per un viale aperto su arance ed ulivi appena schermati da mura di bambù e penetriamo nella foresta: palme, eucalipti, platani d’improvviso sulla destra una fontana con alto zampillo, dietro, vicinissimo e quasi invisibile si indovina il muro della casa. Un pergolato a destra conduce alla loggia, a sinistra una scala a due rampe scende al piazzale del bar che serve solo succo d’arancia e di limone di produzione autonoma, attorno alberi fittissimi che disegnano arabeschi di luce, fra le rampe della scala la fontana avviluppata nel banian, più in basso un laghetto. La casa dietro di noi è di nuovo scomparsa, solo si intravede un angolo della loggia alto tra le chiome. Pochi vialetti dalle curve capricciose, intagliati nel verde selvaggio, scendono ancora ad uno spiazzo aperto, vuoto, inaspettato e per questo notevole. Un’altra fontana, altri bambù, altre palme e un ultimo viale dritto parallelo alle coltivazioni più in basso. Tutto qui: un giardino inglese sotto un cielo blu, palme dei tropici e attorno montagne aguzze dell’Ossola.

In fondo è poco, se ne avessimo una piantina scopriremmo che è piccolissimo, Giovanna è delusa, io ne sono incantato.

Varie volte entriamo nella casa incustodita e per questo anch’essa incantata. Un atrio a T la divide in due parti di cui, solo la sinistra aperta: un salone, tre sale, un’alcova, quadri, cassoni , sedie e poltrone allineate alle pareti, in mezzo sempre un tavolo alla spagnola, qua e là bracieri e vasi d’aspidistre; le porte finestre danno sulla loggia che si intravede dal giardino, davanti ad una di queste un seggiolone in legno scolpito, gotico del trecento, un mobile praticamente unico.

Bisogna lasciare l’Alfabia. Indugiamo ancora per le stanze, ancora quattro passi per rubare con gli occhi un poco d’incanto e poi, fuori, nel patio grande, quadrato con una fontana nel centro e ombreggiata da un platano gigantesco. A destra alcun piccole finestre gotiche, di fronte una finestra gotico catalana, superbo resto della casa precedente, e nell’atrio d’ingresso, da cui noi usciamo, incredibile, un soffitto arabo artesonado, resto mitico della casa ancora più antica.

Sarà arabo? Sarà mudejar? Non lo sappiamo proprio ma di certo è una meraviglia , la cosa sicuramente più bella dell’intero complesso e con sottile gusto teatrale e perché no, con fine intuito turistico viene mostrata alla fine, anche a costo di far vedere la casa alla rovescia, in modo che lasciando l’Alfabia sia questo soffitto l’immagine che resta negli occhi e nel cuore. Il soffitto è alto e i colli all’indietro cominciano a dolere ma noi imperterriti continuiamo a girare in cerchio per l’androne, per fortuna vuoto, le teste all’insù e le menti lontane…

Una volta fuori bisogna attendere l’autobus e , siccome c’è tempo, Lale non dico io o Giovanna, ma Lale, sei anni ancora da compiere, pretende di ritornare indietro fino all’androne per vedere ancora una volta il soffitto arabo, alto e ipnotico, sospeso sopra di lui.



























Martedì 25-4-2000

Sveglia veloce; colazione ultrarapida , corsa fino alle”Terrazze” dove prendiamo il bus, per Palma, solo perché è fermo al semaforo. Siamo di fretta perché il pullman delle “Baleari Nord” per Esporles parte, da Palma, alle nove e il buffet della colazione apre alle 8.

Ci riusciamo, ma subito in viaggio abbiamo una splendida notizia: il pullman arriva fino a Esporles, ma la Granja è a due chilometri! Da fare a piedi. I chilometri sono ridotti ad uno in un bar, ma sicuramente due da percorrere: in leggera salita, con strada, per fortuna, ombreggiata con Lale che si stanca subito.

Quando il paesaggio si apre su un bivio di terra riarsa e di asfalto recente ecco la Granja: un viale a mezza costa ci porta ad una loggia circondata da un gruppo di case e casupole, rannicchiate nel fondo di una valle verde, verde come quella di ieri ma assai meno ricca.

Lale si incanta davanti ai conigli, ad un cavallo, ad alcuni pavoni chiusi in gabbie troppo piccole per le loro ruote: una sorta di Villa Pallavicino per milanesi venuti da Madrid.

Per una scaletta scendiamo ad un giardino incassato fra una parete rocciosa, dove si apre una grotticina artificiale ed il lungo fabbricato ad un piano della casa di abitazione.

Per una porta finestra entriamo in una prima sala: - Salone fiorentino – proclama il depliant. Un soffitto tardo neoclassico copre una stanza con uno scialbo panorama dipinto alle pareti e con un mobilio vagamente rococò che con Dante o con i Medici a ben poco a che vedere.

Il secondo salone si impone per le sue dimensioni, per le tre finestre lungo ciascuno dei lati lunghi, per le due alcove, una delle quali un vasto salone essa stessa, sui due lati brevi. L’altra alcova è occupata dal grande modellino di un teatro collocato, direi da poco, per arricchire ad ogni costo un ambiente che ricco di suo non è. L’arredamento ci riporta in Spagna, non sono in grado di dire se a Maiorca (le tende forse sono in tessuto tipico), ma in Spagna certo sì: le pareti bianche dove spiccano grandi quadri scuri, cassoni e sedie allineati alle pareti, kenzie ed aspidistre qua e la danno all’ambiente quel ché di sobrio e di nobile che caratterizza le case al di là dei Pirenei.

Dopo un paio di stanze si arriva ad una specie di cantina tripartita che viene indicata come il resto unico del periodo in cui il luogo, grazie alla disponibilità d’acqua, dopo essere stato dei romani e degli arabi era passato ai cistercensi come ci comunica in tre righe il testo debitamente acquistato.

Ancora un po’ di stanze con mobili che paiono disposti a casaccio. Nell’ultima un alcova, che deve aver ospitato il letto, è occupata ora da una biblioteca interamente fasciata di legno, troppo graziosa per essere originale.

Da qui si esce sulla loggia aperta, a sinistra, sul cortile un piano più basso, a destra, sul giardino più basso di tre. Grande, ariosa, con nove arcate per lato rette da colonne ioniche in marmo, ricorda da lontano la Pliniana sul lago di Como (senza lago) e da vicino la villa sotto il Castello di Barengo cui un recente restauro ha attribuito un insipido color rosa facendo sparire ogni traccia degli affreschi barocchi.

Torniamo alla Granja e percorriamo la loggia guardando giù nel giardino che francamente non pare un gran che ed in ogni caso è di gran lunga inferiore a quello fascinoso dell’Alfabia di ieri.

A destra, un platano gigantesco, a sinistra uno zampillo sale fin quasi a noi, al centro una spianata attrezzata con panche per spettacoli per offrire al pubblico sempre quel qual cosa di più che esprime l’intima consapevolezza di aver ben poco da offrire.

Lasciata la loggia si rientra in una stretta galleria che ci riporta indietro nell’alcova grande del salone. Da una porta si vede una sala da pranzo con un curioso mobile, metà bigliardo, metà tavola apparecchiata.

Pochi passi e si entra nella cucina: grande, bella ma incredibilmente ingombra di oggetti al punto che riesce difficile credere che fosse così quando veniva usata. Una donna in costume impasta una sfoglia su uno dei tavoli che vi si trovano ma non le prestiamo troppa attenzione, occupati come siamo a guardare ciotole, terraglie, brocche, rami e stoviglie disseminati per ogni dove. Alle pareti piastrelle bianche e verdi disposte a zig zag che si interrompono solo dove due antri si espandono nei fabbricati adiacenti. In uno di questi, davanti ad un forno, alcune sedie scompagnate formano un angolo accogliente destinato, parrebbe, al riposo invernale dei domestici.

Per una scala di pietra bisunta scendiamo al piano terra dove, attorno al cortile si snodano le stanze dedicate alle attività agricole e non, che si svolgevano nella proprietà. Quando giungiamo al laboratorio dell’orafo ci rendiamo conto che si tratta della solita operazione all’insegna del “ di tutto di più”.

Dalla sala dei telai usciamo in un settore del parco e mentre Giovanna si

siede su di una panca io e Lale saliamo ad un belvedere e senza nemmeno accorgercene usciamo dal sentiero consigliato, quando mi rendo conto della pericolosità del percorso intrapreso non ci resta che continuare perché scendere è ormai di gran lunga più pericoloso che salire- tremando per il mio povero Lale cui è toccato un padre tanto snaturato e incosciente- Quando finalmente raggiungiamo l’agognato belvedere, Lale non manifesta alcuna paura e osserva la Granja dall’alto senza sapere d’aver avuto a cinque anni e mezzo il suo battesimo d’alpinismo senza imbragatura, corda o sicurezza alcuna.

Scendiamo rapidamente per il sentiero canonico e con la mamma ci infiliamo nel piano ancora inferiore della casa dedicato alla lavorazione del formaggio e dopo aver attraversato una cucina rustica, troppo simile a certe tavernette dei nostri lidi, penetriamo nientemeno che nella “stanza delle torture” che dire: scheletri di plastica in gabbia, letti d’allungamento, poltrone con i chiodi, ceppi e catene ingombrano un paio di cunicoli e, o vogliono onorare dopo quella del fabbro, del casaro e del calzolaio, anche l’onorevole professione del boia, oppure vogliono alludere all’aspetto coercitivo della giurisdizione feudale esercitata dai proprietari della tenuta. In questo caso vien da pensare che nemmeno il convento dei domenicani di Palma sede dell’Inquisizione e distrutto a furor di popolo all’indomani delle leggi di Mendizabal, abbia posseduto strumenti in tale cospicua quantità e di tale elevata qualità Non commento la presenza delle cinture di castità che fanno bella mostra di sé alle pareti e dopo aver superato una mannaia infitta in un ceppo con una raffinata sfumatura di rosso dipinta sulla lama, una scaletta ci fa salire al portico di ingresso che dal cortile esterno immette in quello interno.

Di fronte a noi la cappella: niente di particolare, noto che il pavimento a scacchi bianchi e verdi è ottenuto con le stesse piastrelle della cucina disposte diversamente.

Nel patio interno trapezioidale con una fontana ottagonale al centro una scala, invero modesta, sale al primo piano e forma un curioso contrasto con la loggia ad archi che domina in alto superba.

Il cortile esterno, ombreggiato da quattro platani, è davvero gradevole e vi indugiamo a lungo. Lale si serve una ventina di volte del succo d’arancia offerto in omaggio in bicchieri lillipuzziani mentre Giovanna tenta invano di esporsi un poco al sole..

Non lo dice ma forse invidia un poco la signora della famiglia conosciuta in albergo, alla quale consapevoli dell’assenza di futuro delle amicizie in vacanza, non abbiamo chiesto il nome, ma con cui abbiamo simpatizzato.

Trascorriamo insieme quasi tutte le serate nel giardino dell’hotel, Lale gioca con il loro bambino un po’ più piccolo di lui e noi, seduti davanti ad una bibita chiacchieriamo garbatamente del nulla.

Passano le loro giornate in spiaggia ed è questo che Giovanna forse invidia un poco, ma non sono banali, stanno fermi per via del bimbo ma sono già stati qui ed hanno visitato tutta l’isola.

Alle nostre richieste di indicazioni e consigli, rispondono in modo pertinente e gentile ed il nulla acquista un inaspettato spessore.

I bimbi giocano tra loro e con i bimbi tedeschi e spagnoli indifferenti a quella barriera che si chiama lingua, che ci dicono essere uno strumento per comunicare ed invece tanto spesso isola e divide.

Il marito avanza qualche cauto timore circa il nuovo corso che si profila per il Paese, noi condividiamo pacatamente, non per scarsa convinzione, anzi siamo fin troppo d’accordo, ma per il deliberato desiderio di lasciare l’Italia e le sue beghe, via da qui ma si sa, il viaggio è circolare: si porta la propria casa con sé quando si parte e la si ritrova dovunque si arrivi.

I signori vivono a Milano, ma lei, che è di origine siciliana è nata e cresciuta a Domodossola: più circolare di così!

Chiedo direttamente a Giovanna, se per via di Lale, avrebbe preferito una vacanza più calma, e lei nega con decisione. Se insisto confessa un pochino che gradirebbe tornare mostrando quel colore ambrato che l’eterno femminino identifica con la bellezza, ma star fermi per Lale di certo no.

Mi racconta anzi della discussione avuta, tempo prima, con una collega la quale, in età non più verde s’era finalmente decisa a compiere un viaggio ad Istanbul e relazionava inorridita su una giovane coppia che s’era portata un bambino ed aveva dovuto barcamenarsi continuamente fra biberon e pannolini.

- Ma una creatura così piccola non si porta fino ad Istanbul !- aveva rincarato

un’altra collega che aveva trascorso la vita in grandi viaggi estivi fra il luogo di lavoro e il paesello natale.

- La morale del discorso quindi è : Se due persone hanno un figlio, devono stare a

casa. Delle due l’una: o questa è una benedizione sufficiente e “ di più non dimandare “ oppure è una maledizione da espiare per il resto dei propri giorni o, se va bene, fino alla sua crescita.

Noi, rispettiamo i signori dell’albergo, forse volevano solo riposarsi e Maiorca in fondo non è poi così lontana da Milano, ma siamo divorati da una febbre diversa.

Due anni aveva Lale quando ce lo siamo portati per 5ooo Km in giro per l’Europa, da Praga a Dresda, da Berlino ad Amsterdam, ma noi avevamo lui, lui era parte di noi e noi eravamo così.

Ora Lale non ricorda quasi più niente di quel viaggio e comunque poco di quelli successivi, ma nulla ci potrebbe ripagare del suo incantato stupore di fronte agli orologi di Rottenburg e del municipio di Praga o dei suoi occhioni sgranati di fronte al trono dorato dei re di Sassonia nel palazzo cinese di Pillnitz adagiato sull’acqua.

Certo qualche rinuncia si era resa necessaria ma l’abbiamo compiuta con gioia: l’ingresso ad uno solo dei palazzi del Sans Souci a Postdam o la visita troppo veloce al Pergamon Museum di Berlino dove si trovano la ricostruzione ( in gran parte fasulla ) della porta di Ishtar di Babilonia o la porta del mercato di Mileto e l’altare di Pergamo che conoscevo e mi aspettavo di vedere, ma anche l’imponente facciata del palazzo Omayyade di Mshatta che non mi aspettavo affatto e che avrebbe richiesto una sosta e un’attenzione ben maggiore.

Ma senza prezzo sono state le battute di Lale come quella nello Zwinger: - se qui siamo a Dresdra, sinisdra dov’è?- oppure in Olanda di fronte ad un mulino a vento: - E’ casa nostra perché noi stiamo in Via Mulino venti!-

Fin che vorrai figlio mio, chi ti lascerà mai a casa. Non ti chiederò di amare ciò che io amo, ma pregherò perché in una porzione sempre più grande di mondo tu possa cercare e trovare le tue cose da amare.

Breve discesa al giardino che conferma l’impressione avuta dall’alto: non è un gran che e poi attraverso la rampa che sale al piazzale d ‘ingresso risaliamo per fare un nuovo giro nella casa. A quest’ora gli sciami di turisti invadono il ristorante e noi possiamo vedere le stanze da soli con tutta tranquillità. Nel salone sentiamo anche una musica di Mozart di cui non ci eravamo per nulla accorti prima. Quando siamo di nuovo sulla loggia, una musica fragorosa ci obbliga ad affacciarci sul giardino dove, un cavaliere in costume da torero, su di un cavallo bianco, dà uno spettacolo di alta scuola di equitazione spagnola: di tutto di più i turisti ne siano soddisfatti.









































Mercoledì 26 – 4 – 2001



E’ l’unica escursione acquistata , ma le grotte sono toppo lontane e venerdì scorso, quando non sapevamo nemmeno come arrivare a Palma, abbiamo pensato che fosse troppo difficile arrivarci da soli. Breve ritardo alla partenza nel piazzale del vicino Hotel Taurus, perché mancavano tre signori dell’Hotel Orient . Eravamo noi che saliti per primi aspettavamo pazientemente, guardando il parlare concitato dell’autista e della guida, rinunciando a capire i motivi dell’attesa.

Prima sosta ad un negozio di cianfrusaglie da regalo, allogato in un edificio di forme pseudocastellane sulle quali è facile fare dell’ironia ma, che sono di gran lunga più belle e meno deturpanti di quegli scatoloni di cemento con cui la legge Tremonti ha ricoperto le nostre campagne, senza che nessuno ci abbia trovato niente da ridire.

Seconda sosta al negozio delle perle dove Giovanna, qualche acquisto lo fa e poi si riparte ascoltando la storia di Maiorca da Margarita, la nostra guida, bionda matrona di mezz’età dai movimenti ieraticamente lenti e dalla voce professionalmente gioiosa.

Giungiamo alle grotte degli Hams che prendono il nome da curiose formazioni a forma di ami. A noi le grotte piacciono tutte, così apprezziamo anche questa nonostante le luci violente, nonostante la barca del concerto sia parata con palloncini tipo Piedigrotta e nonostante i distruttivi interventi per rendere possibile la visita come i cunicoli scavati in grotte basse, così che le stalattiti sembrano scorrere in teatrini all’altezza degli occhi.

La ragazza che ci accompagna e che declama una Madonna di qua, una torre di Pisa di là, ci comunica che le stalattiti si allungano di un centimetro ogni trent’anni, Margarita ci aveva avvisati di questa fola ricorrente , pregandoci di non commentare; una visitatrice non ce la fa e scoppiamo tutti a ridere.

Breve sosta per il pranzo a Porto Cristo in un ristorante a picco su fiordo trasformato in porto canale attorno al quale si affastellano le case e gli alberghi della località.

Le grotte del Drach sono lì accanto e le raggiungiamo subito: parcheggio sotto gli alberi, breve sguardo alla paccottiglia architettonica senza la quale non può esistere alcuna attrazione turistica.

Ci mettiamo in fila per scendere all’ingresso. Qui nessuna attesa, ci infiliamo uno dopo l’altro nella porta e scendiamo nel ventre della terra. Non c’è giuda, niente saluti, niente spiegazioni, nessun rito di introduzione tutti, uno dopo l’altro procediamo speditamente dietro un invisibile capofila.

Tento deliberatamente di rallentare la marcia per cominciare a godere della bellezza del luogo, qualcuno abbocca e mi supera. La mia manovra non viene notata e, grazie alla larghezza del percorso costruito con generosa insensibilità, la ripeto più e più volte.

I nostri compagni, compagni di viaggio, compagni di visita ci sfilano accanto senza vederci seguendo il pastore che si indovina più oltre e noi, strabiliati dalla novità senza madonne, organi, torri di Pisa e quant’altro si incontra in questa come in ogni altra grotta del pianeta, ci immergiamo in un mondo di pure forme che la luce esalta in un’esplosione di colori falsi ed artificiali quanto tutti gli altri eppure più attraenti che mai.

Le colonne si susseguono alle colonne, le cavità alle cavità e noi avanziamo lentamente, scendendo sempre più, accompagnati dal silenzio verso un dopo che ci attrae assai meno di questo incantato presente.

Giovanna mi fa notare la curiosa originalità delle stalattiti sui soffitti: minuscole guglie puntute che si susseguono fittamente sopra di noi come non se ne vedono altrove. Non sono molto diverse dalle volte arabe a Muqarnas ( stalattiti appunto), chissà forse sono queste che hanno guadagnato alle grotte del Drach il soprannome di “Alhambra sotterranea “.

Dopo una svolta sbuchiamo in una sala, grande ma non altissima, con un lago disegnato dalla luce che si inoltra sotto le volte lontane verso mondi segreti di mistero e magia. A sinistra quando gli occhi si abituano scopriamo uno scioccante esempio di rispetto per l’ambiente: sotto le stalattiti e di fronte all’acqua un’orrida spianata artificiale solcata da file e file di panchine brulicanti degli spettatori giunti prima di noi. Ci sediamo e cominciamo ad aspettare, inesorabili gli inservienti stipano una dopo l’altra le ondate di visitatori che arrivano continuamente. La folla annulla la poesia e l’attesa uccide l’incanto. Così quando il carro bestiame è colmo cala un buio improvviso e sgorga una musica lieve. Dalla profondità delle grotte un lume avanza verso di noi: è una barca che scivola sull’acqua e avvicinandosi rivela meglio le sue forme, poi un’altra e un’altra ancora. La musica continua a suonare, tra le teste degli spettatori vediamo le barche con i musicisti che si avvicinano, ci superano e si inoltrano sotto le volte lontane.

Chopin e Hoffenbach si scontrano con la caca, il calore, la puzza i pop corn sgranocchiati con indifferenza bovina ma la tenzone è breve, le barche con i musicisti si riavvicinano per sparire da dove sono venute.

La visita prosegue attraverso il lago da superare ,a scelta, su di un ingegnieristico viadotto addossato alla parete di destra oppure con le barche seguendo i musici. Senza storia: le barche! E così ci siamo trovati a scivolare sull’acqua con il volto a sinistra con barcaioli notturni che ci turbinano nella mente, ogni tanto uno sguardo alle spalle per trattenere ciò che lasciamo per misurare quanto manca alla strettoia che ci strapperà da qui, da questo mondo che vorremmo ci appartenesse e a cui vorremmo appartenere, cavità turbinose e risucchianti, antri fascinosi e tentatori la cui malia non possono esprimere né parole né immagini.

Né quaderni, né tele riusciranno mai a dar corpo al ricordo di questi penetrali, la nostalgia dei quali comincia prima ancora d’averli lasciati.

Ci vorrebbe la musica! Solo la musica forse sarebbe in grado di disegnare per sempre la danza delle colonne immobili, o di restituire a comando la vibrazione delle cavità profonde e silenti.

Ma la musica si sa, non è per me e come un muto incapace di articolare parole, sarò condannato per sempre ad ascoltare da solo il suono, ora melodia, ora fragore e boato che mi turbinerà nella mente ogni volta che chiudendo gli occhi penserò alle grotte del Drach.


























Giovedì 27-4-2000


Che noia vagare per Palma alle tre del pomeriggio avendo già visto tutto quanto si intendeva vedere e aspettando la sera per essere trasportati in aeroporto, collocati su un aereo e spediti a casa.

Bisognerebbe partire al mattino appena svegli: doccia, colazione, trasferimento rapido con il paesaggio che si sgrana dai finestrini, aeroporto e via.

Invece ci trasciniamo da una panchina ad un bar cercando un po’ di riparo dal freddo improvviso o il conforto di un poco di sole.

Lale congiura per un’ulteriore sosta al Mac Donald, mai pago di pupazzi di qualunque tipo e, come è ovvio vince. Entriamo ma la coda è al di là di ogni immaginazione, così mentre io occupo un tavolo, loro vanno in bagno e quando tornano ci vado io, dopo di che rinunciamo al Mac Donald e ce ne andiamo alla ricerca di un altro posto.

La fortuna di Lale è infinita, dopo una curva: “ Bocatta” un Mac Donald spagnolo dove il menù infantil vale come il celebre happy meal e costa la metà offrendo pure un dignitoso fantasmino di marca latina, assai più gradevole degli orrori americani e giapponesi che si trovano altrimenti.

Per parte mia sono incantato dalla sobrietà dei colori delle insegne, e delle confezioni: invece dei gialli e rossi squillanti, troviamo degli ocra e delle terre su fondi verdi, scuri ma spenti. Questa volta la scatola di cartone me la porto a casa io!

Ci siamo riconciliati con Palma, città di facciate moderniste e barocche schermate da mura di platani.

Scrivo seduto al tavolino, unico visitatore che scrive, mentre la città fluttua attorno, attendo i miei che sono scomparsi all’interno, forse un’altra sosta al bagno, ma sono pronto a ripartire.

Ogni tanto alzo gli occhi per catturare ancora un’immagine da portare via, il balcone sbrecciato chiuso da vetri opachi, la cascata sontuosa delle fogli di una palma che sovrasta il chiostro in legno dei biglietti della lotteria.

I miei sono tornati, siamo pronti a ripartire.

Questa mattina il sole alla Playa aveva convinto Giovanna a mettersi a leggere , ma giunta qui con il cielo coperto aveva iniziato a sentir freddo e poche cose sono peggiori del freddo quando si gira per una città senza far niente.

La prima meta era il Casal Solleric, quanto meno per vedere il cortile: il tipico cortile maiorchino con portico e scalone, che solo un cancello separa dalla strada a manifestare una sorta di gusto per l’intimità esibita. Curioso lo scalone di tipo imperiale rovescio ( che parte a due rampe e finisce con una ) ma sostanzialmente non un granché

Finito il rullino non si può fotografare, risaliamo il Passeig del Born, la più bella strada di Palme, invasa dai platani e svoltiamo a destra per vedere il Grand Hotel, ora fondazione culturale, è troppo bello per non fotografarlo: un edificio modernista di Domenec Y Montaner , alla ricerca di un rullino e quando lo trovo, giù a fotografare il Grand’Hotel. Due facciate gemelle sempre moderniste poste in una piazzetta quasi di fronte il campanile di una chiesa lì accanto, e via per vicoli e strade con le teste sempre all’insù.

Fuori dai circuiti i turisti sono rari e noi abbiamo agio di osservare i maiorchini che vanno per strade e per vicoli secondo ritmi tipici di una qualsiasi città mediterranea, a cui mancano tuttavia sia la concitazione e lo sporco di quelle italiane. Anche il traffico è meno congestionato che da noi, ed i cretini che sfrecciano sgommando per le strettoie sono veramente pochi.

Assaporiamo la calma di queste ore nella città che lentamente finisce, ancore poco e poi per noi Palma non ci sarà più eppure non siamo tristi: come per alcune e diversamente da altre, per una settimana Palma è stata la nostra città. Forse anche a causa della lingua che si comprende senza difficoltà e dell’assenza di difficoltà con cui i maiorchini, e in genere gli spagnoli comprendono l’italiano, qui siamo stati a casa.

Sospesi tra il viaggio ormai finito ed il rientro non ancora cominciato, lasciamo calare le ore vagando per la Palma dei cittadini, senza speranza per i bassi e i cortili irredimibili e senza illusioni per gli scorci più incantevoli.

Attraversiamo per l’ennesima volta la piazza del municipio, dalla regolare facciata tra il rinascimentale e il barocco, guardiamo ancora il cornicione di legno sporgente, il vecchio ulivo contorto, il balcone di vetro appeso di fronte e via….

Compaiono a volte chiese dalla facciata sontuosa e dagli interni inesorabilmente chiusi: Miracolo riusciamo a penetrare nel chiostro di S. Francesco dove, le dimensioni fanno assumere alle colonne un aspetto di esilità accentuato dagli edifici circostanti sicuramente sovralzati. Da qui penetriamo nella chiesa, vasta e oscura, le alte arcate gotiche si intravedono con difficoltà nella penombra. Riamo l’imponente retablo dietro al quale si trova la tomba di Raimond Llull, il maiorchino più illustre.

Usciamo di nuovo nel sole e per le strade consuete, raggiungiamo la cattedrale per dirle addio, un’occhiata al palazzo dell’Almudaina e per la scala dove si è svolta la Sacra rappresentazione del Venerdì Santo, scendiamo verso il mare. Una sosta all’Hort del Rey dove le panchine sono state appena verniciate, troviamo un po’ di ristoro sui gradini di un bacino d’acqua verde, incassata fra arcate ealte muraglia.

Qui veniamo scelti da una bimba di un paio d’anni, bionda con gli occhi azzurri ed un vestito di un azzurro uguale, che si mette a giocare con noi indirizzandoci un sorriso di gioiosa impudenza.

Quattro chiacchere con la madre e poi via, risaliamo per le solite vie verso la Plaza Mayor, Lale entra ancora una volta nel negozio della Disney, dove di certo lascierà il cuore. Per lo stesso percorso raggiungiamo Piazza di Spagna dove prenderemo il bus.

Sotto gli alberi, come sempre, gruppi di ragazzi africani stanno seduti sulle panchine aspettando un futuro, noi in piedi aspettiamo il mitico “15”, che ancora una volta ci porterà verso l’albergo, tappa breve, oggi lungo la via di casa.

Pigiati come sempre nell’autobus, i posti a sedere si trovano solo verso Can Pastilla, guardiamo la campagna scorrere fuori dai finistrini. Prima abbiamo percorso lo zig zag del viale sorto sul luogo dei bastioni, poi di fronte al mare, svolta a sinistra per una strada fra palazzoni che diventavano insensibilmente case e poi la campagna, chiusa a nord dalla catena degli azzurrini monti e punteggiata qua e là da mastodonti nuovi e da mulini a vento.

Ancora una volta il lungo mare con la palazzata di questa Rimini balcanica, poi la pineta. Discesa di fronte al solito cantiere che ha occupato il marciapiede e scaricato un liquame vomitevole sulla carreggiata, svolta a sinistra nella strada perpendicolare al mare fiancheggiata da portici e padiglioni della multicolore bidonville che costituisce il debordante santuario della vita notturna dei turisti disperatamente affannati di vita.

Oggi, senza il velo della notte e l’illusione delle luci, questi rivelano impudichi il loro cartone e la loro plastica da spettrale palcoscenico disertato dagli attori.

Rinunciamo ad entrare dal “Taurus”, attraverso il passaggio interno, e ci inoltriamo nella pineta resa grigia dalla sabbia accumulata dal vento.

Due salite e due svolte e finalmente l’albergo scintillante come sempre con i suoi cristalli, i prati verdi annaffiati e splendenti, i tavolini e le sdraio immacolati, la piscina stucchevolmente blu: Benvenuto a chi arriva, addio a chi va.

Il cameriere del bar ci offre il caffè e mentre Lale scorrazza per il giardino, noi ci ritiriamo nel salone, dove questa mattina ho notato, sperduti tra i divani, un paio di tavolini alti dove tra una considerazione ed un pettegolezzo, posso scrivere due righe lontano dalla confusione della hall e dal trambusto del bar.

Nella luce diurna, il verde degli specchi appare aggressivo e la tonalità dominante è il giallo brillante della tappezzeria alle pareti, idoneo a sottolineare il lusso senz’anima sovrano qui, come nelle altre parti dell’albergo.

Una pagina, quattro chiacchiere e irrompe nel salone il capotribù dei “mi sun padron da partuttut” seguito dalla tribù al gran completo, un barilotto cinquantenne, basso e rotondetto con una corona di riccioli da cherubino che dopo lunghi studi all’università dei “ taja giù cum al piulet”, gira il mondo seguito dalla famiglia e da una paio di famiglie amiche, predicando il Verbo.

“Ci mettiamo lì!”, fa con voce tenorile, “no, meglio là!” risponde il baritono. Andiamo là, rilancia il soprano consorte e dopo cinque minuti di monologhi, arie, duetti e recitativi si siedono. Sia ringraziato il “dio dei viaggiatori” sottovoce, lontano da noi.

Anche così sentiamo perfettamente il cherubino dai riccioli grigi che arringa i seguaci su come ci si comporta da “furbi” al check-in…..check-up…o giù di li; tu vai subito di là…..io corro qui, tu non farti passare avanti nessuno, lui guarda i bagagli….come se un viaggio da Palma a Malpensa, un’ora e rotti di volo sia qualcosa da pianificare come una campagna militare!

Lasciamo il cherubino von Clausewitz e torniamo a noi.

Anzi No

Già che ci sono posso anche parlare di lui : l’abbiamo conosciuto subito giovedì sera, appena scesi dall’aereo e saliti sul pullman che ci portava all’albergo e subito abbiamo cercato di dimenticarlo.

Dopo i primi incerti convenevoli durante i quali la nostra insicura britannicità ci impedisce di mantenere disinvoltamente la conversazione sul tempo, il cherubino proclamava a gran voce la sua intenzione di arrivare in albergo, di farsi una mangiata e di andare a dormire e di fronte al mio silenzio, turbato dall’originalità delle sue intenzioni, passa al generale: …e si perché in vacanza bisogna farsi delle belle dormite (grazie al cielo non aggiunge altro) non è vero? Cosa ne pensa lei?

Io penso che dormo benissimo sui miei materassi e che mia moglie cucina come il Giove della Findus, da Dio, ma non voglio di certo sconvolgere i suoi ideali di vita, e mi limito a sorridere, pregando d’arrivare al più presto e ripromettendo di limitarmi al buongiorno e buona sera se i corridoi dell’albergo dovessero essere troppo stretti.

La cena all’arrivo era un toast con un bicchiere di acqua minerale e la camera arredata con teutonica civetteria sarebbe stata il solito balletto notturno dello scambio dei letti, perché Lale vuol dormire con la mamma e non nel letto suo.

Più a casa di così!

Fra una chiacchiera ed uno sguardo ad un demonietto che corre fuori, il tempo scorre nel salone e noi pensiamo al mattino di venerdì, il nostro primo giorno a Maiorca.




















Venerdì 21-4-2000


Risveglio di buon’ora come da italica abitudine. Gesto tradizionale di spalancare le tende e uscire sul balcone affacciandoci sul panorama. La sera precedente siamo stati portati in pullman e dopo un giro per scaricare i vari turisti negli alberghi loro destinati, siamo stati scaricati qui e abbiamo visto solo le luci della hall per cui non abbiamo idea di dove siamo capitati.

La nostra camera da sul fronte posteriore e questo, come sa chiunque abbia viaggiato un po’, è un bene perché è sempre più tranquillo. Di fronte a noi pinete ondulate e dune riarse, qua e là il lusso miserabile di un gigante biancastro sormontato da una insulsa scritta rossa. Quelli esotici almeno non si capiscono, ma quelli nostrani dei dintorni sono deprimenti: Orient, Taurus, Astor Splendid, Belvue, da noi c’è pure un Hotel Dino e bisogna ringraziare che il padre del proprietario non si chiamasse Melchiorre.

Torniamo a Maiorca e all’albergo nostro, sotto di noi un nastro d’asfalto, è il parcheggio dei dipendenti e poco più oltre una spianata di terra assolata aperta da una recente ferita e poco più in là, dopo un prato di sterpi, le pinete grigiastre.

Gut morghen…. I nostri vicini di stanza sono usciti sul balcone che è diviso solo da un basso muretto e da una leggera inferriata….Sorrido e dico buongiorno mentre trattengo Lale fuori con me mentre Giovanna chiusa in bagno telefona ai miei per comunicare che siamo arrivati “da nonna Tina”, è una menzogna lo so, ma come si fa a dire ai miei che abbiamo trascinato il loro nini lontano su una sperduta isola spagnola. Questi sono capaci di morire d’infarto e poi di organizzare una spedizione di soccorso… Decisamente meglio da nonna <Tina che saluteremo senz’altro, anche lei ha detto di salutarvi, si certo…ciao, ciao.

Scendiamo per la colazione che il ristorante è ancora chiuso e con noi attendono solo alcuni anziani signori tedeschi e quando finalmente, si spalancano le porte: buffet imperiale e per quanto abbiamo tentato di trattenerci le processioni ora al banco del dolce ora a quello del salato, ora alla frutta, ora ai salumi, furono più e più d’una.

Salivamo mentre gli altri ospiti scendevano ad ondate per piazzarsi ai tavoli dalle lunghe tovaglie rosa, per celebrare i riti che noi avevamo appena concluso ed erano appena le 8 e mezza.

Il breafing, perché chiamarlo appuntamento, chiacchierata, chiarimento, delucidazione, programma riunione, incontro non faceva fine, era fissato per le 10,30 e bisognava aspettare.

Due ore d’attesa, accidenti, due ore gettate via nel nostro primo giorno di Maiorca, in due ore cerchiamo almeno di capire come si arriva in centro città: domanda alla reception- c’è il bus più sotto- scendiamo a vedere- la nostra strada incontra una trasversale che conduce di certo a Palma: il bus passa certamente da qui. Non una scritta, non un cartello, panico, ci hanno sbattuti in un albergo fuori dal mondo, chissà come si arriva a Palma.

Non passa anima viva.

In uno degli angoli dell’incrocio una spianata di non grandi dimensioni è disseminata di baracche, transenne, tettoie il tutto in perfetto stile bavarese completo di mura a graticcio marrone scuro su intonaco bianco. Appollaiato su un tetto, scorgiamo un uomo intento a far qualcosa: - Disculpe senior donde se busca el bus por Palma, por favor? Il mio spagnolo sarà maccheronico ma gli spagnoli sono intelligenti e mi capiscono anche quando parlo italiano. Questo alza lentamente il capo forse mi guarda e dopo un tempo che pare non finire mai, risponde Quien sabe? Non avevo estatè e gli cala la palpebra.

Insomma qui è pieno di alberghi, vuoi che sia una colonia penale per turisti? In qualche modo a Palma ci si arriverà?

Tra una boccata di speranza ed uno spasmo di terrore, arrivano le 10,30 e con esse il sospirato conseil, rat, soviet, divan o come lo si può chiamare:

Seduti ai tavolini del bar con in mano un bicchiere per il brindisi di benvenuto ascoltiamo Alessia: giacca da calcia alla volpe, mascella volitiva, acconciatura alla Schwrzeneger che con sorriso di festoso mestiere ci insegna a divertirci e ci illustra le favolose offerte e le meravigliose escursioni che dobbiamo acquistare. Ci da un foglio per scegliere, ma tra quelle indicate guai a chiedere quelle – come posso dire- ma sì quella brutta parola…. E dai capite no…va bè scusate se parlo sboccato, okay lo dico: Culturali!

Trasale, il sorriso cessa per un istante poi torna e tra l’ironico e il professionale ci dissuade: - Ma noo, non ci va nessuno, non è bello, io non ci sono mai stata. Bisogna andare allo spettacolo del Solemar, fare l’escursione in catamarano, andare alle grotte del Drac. Una ragazza trepidante chiede: - ma nelle grotte c’è il concerto di musica classica, ma non sarà noioso? Il sorriso cessa di essere professionale e si illumina di intima adesione poi materna la rassicura: - ma noo, dura pochissimo, non ti preoccupare arriva la barca e quando è vicina è già finito: un attimo, non fa male. – Pic Indolor – penso io !

Qualche domanda tecnica ma la risposta è sempre la stessa: - si, si può, ma non so, ad esempio: - Per Palma c’è il bus giù sotto….

I nostri compagni di breafing continuano ad imparare a divertirsi con Alessia, noi, pur pensando di dover acquistare l’escursione alle grotte, per oggi ci siamo divertiti abbastanza, salutiamo e partiamo per Palma.

Per Palma sì, ma come ci si arriva?

Ridiscendiamo fino all’incrocio del bar bavarese senza incontrare nessuno; le macchine sfrecciano verso Palma e noi rinunciamo a fare autostop e non potendo andare né a destra né a sinistra in quanto la strada è fiancheggiata da pini in entrambe le direzioni fin che arriva lo sguardo, prendiamo quella dritta che punta verso il mare. Miracolo è quella giusta. Dopo una duna, cominciano gli alberghi inframmezzati alle baracche indispensabili alla festa di ogni notte nelle città di mare. Quando incrociamo un’altra strada, parallela alla prima, una di queste baracche è costruita isul tema “Stille Nacht “ con tanto di pareti dipinte con neve ed alberi addobbati, ed addossato ad un palo di questa il cartello del bus con tutte le indicazioni del caso: è il “15”, passa ogni 15 minuti, arriva il Placa della Reina ecc. Poco dopo ne passa uno e dopo nemmeno mezz’ora arriviamo in Piazza della Reina, cuore della città di Palma, è quasi mezzogiorno: Ce l’abbiamo fatta!

Attraversiamo un giardinetto, saliamo una scalinata e sbuchiamo in una strada in lato, piena di gente: a sinistra la mole della cattedrale, a destra l’Almudaina che rannicchiata ai suoi piedi sembra minuscola, in fondo una folla di persone assiepate, nell’aria altoparlanti diffondono note di musica sacra: è Venerdì Santo e siamo in Spagna, raggiungiamo la muraglia umana ma sulla destra una porta dell’Almudaina è aperta. Un’occhiata alla muraglia di pietra della facciata che dovrebbe risalire all’epoca araba. Io vedo le tracce di infiniti restauri ma faccio già fatica a leggere le muraglie dei fortilizi nostrani, figuriamoci se mi cimento con quelle arabe.

Dell’Almudaina non so proprio niente: palazzo di governatori arabi, poi del re di Maiorca indipendente, infine dei Re spagnoli, palazzo dei Re da sempre, uno dei pochi edifici civili del medioevo insomma. Io, tuttavia ne ho in mente solo due immagini: un trono sotto un baldacchino rosso in un salone dalle basse volte di pietra e una facciata a logge, stretta tra due torricine e schiacciata dalla massa della cattedrale: praticamente due foto su una guida Bonechi, sepolta in uno scatolone sotto qualche letto.

Le logge da qui non si vedono e per il baldacchino bisogna entrare ma, incredibile, è proprio aperta. Entrare così appena arrivati, senza il minimo di preparazione, senza nemmeno un giro attorno, senza essersi fatto un’idea, è abbastanza sconcertante ma tant’è, ora è aperta e fra un’ora chissà!

Alcuni gradini, l’ingresso, un grande portico su un patio ombreggiato da alcune palme, di fronte una facciata gotica con un portale romanico aperta da alcune arcate e dal varco di uno scalone rinascimentale ma non si attraversa il patio, non si sale lo scalone: biglietto, rituale acquisto del libretto ( miracolo con piantina ) e si svolta a sinistra per infilarci in un budello che dopo un paio di svolte ci porta in una saletta di pietra con armature, arazzi e quadri scuri, poi in un’altra e in un’altra ancora… Giovanna, ma sulla piantina qui è segnato il salone del Tinell – avevo già detto nella prima sala, nella terza non mi tengo più e adocchiata una custode l’apostrofo nella lingua franca di questi giorni, fatta di spagnolo e di italiano che capiscono tutti.

Ma scusi qui non ci dovrebbe essere un salone grande al posto di queste stanzette? Sì –Mi risponde gentilissima – c’era il Tinell, ma nel 500 è stato diviso per sistemarvi alcune magistrature.

Esulto perché non è che ho disimparato a leggere le piantine e lei mi apostrofa metà in catalano, metà in spagnolo: - Ma Tinell è anche una parola italiana? Sì le rispondo, ma no ha proprio lo stesso significato, perché da noi è un comedor pequeno, una sala da pranzo piccola, mentre in questo caso, come nel caso del Palazzo Reale di Barcellona, è la stanza più grande usata per le cerimonie ed eventualmente per i banchetti, da cui il nome. Abituata ai “turisti”, mi guarda con stupore ed ammirazione ed i suoi occhi dicono sarà un docente universitario, un catedratico….Poveretta se sapesse!

Usciamo su un terrazzo che guarda su un giardino e poi sul mare, la musica sacra che dal giardino ci arriva sale d’intensità; alle nostre spalle ecco la facciata a logge, anche se dalle foto non me ne ero accorto e credevo che ce ne fosse uno solo. Giriamo sul fianco e i piani di logge sono addirittura tre; rientriamo per vedere i bagni arabi che sono una serie di arcate per nulla simili ad altri bagni che ho visto.

Sbuchiamo nel grande patio d’ingresso, saliamo lo scalone e siamo negli appartamenti ufficiali del Re quando risiede a Maiorca ( quelli veri sono in una villa fuori città ) . Non è il tradizionale stile spagnolo: bianche pareti intonacate e scuri mobili che arieggiano il 600, ma è altrettanto nobile. Alte e nude pareti di pietra grigia punteggiate qua e la da qualche quadro e da pochi arazzi meravigliosi.

Sul pavimento di pietra di eguale grigio, spenti tappeti disegnano isole dove stanno pochi mobili dalle eleganti linee Carlo IV o Ferdinandine.

Questi mobili, uguali a quelli che stanno in tutte le regge borboniche dove si amalgamano agli stucchi settecenteschi o affogano fra i parati dell’800, qui si stagliano con forza insospettata e disegnano ambienti di inimmaginabile modernità per definire i quali, il termine che meglio si addice appare quello, altrove sospetto ma qui senza retorica, di vera grandezza o di ariosa monumentalità.

Altrettanto grandioso e monumentale ma, nel contempo, vero e senza retorica è il salone più grande, l’ultimo in ordine di visita. Riconosco, con qualche difficoltà il salone del baldacchino della mia foto anche se il baldacchino non c’è più e le volte del mio ricordo non sono volte in pietra ma archi paralleli che sostengono un soffitto in legno, secondo un partito comune nell’arte catalana. Gli archi, troppo bassi dichiarano poi che il salone è lo spazio di risulta, in altezza, dell’antico tinell rimasto vuoto dopo la divisione di questo in stanzette, necessariamente più basse. Anche qui, sulla nuda pietra, arazzi, tappeti e pochi mobili, un’occhiata in giro poi, un’altra ed un’altra ancora ed infine bisogna uscire. Si ritorna per le stanze attraversate all’andata e rubo con gli occhi il verde bluastro degli arazzi, l’azzurro o il rosa delle stoffe, il bruno rossastro del mogano lucido e soprattutto la scabra muraglia di pietra che nella luce dell’addio non è più grigia ma d’oro.

D’oro è pure la pietra delle alte pareti, coperte di trine, della cappella di S. Ana in cui entriamo dal cortile ma, sia le trine che le pareti hanno un che di levigato che tradisce troppi restauri

La musica, fuori, è se possibile , ancora più alta, intensa penetrante e ipnotica; varchiamo in fretta il cortile e c’immergiamo nella folla che, in piedi sotto il sole, a mezzogiorno si assiepa attorno ad una scala che dal giardino sottostante giunge fino a qui.

Lentamente il Cristo fiancheggiato dai ladroni e accompagnato da guardie romane, sale fino a noi. I loro costumi lungi dall’essere un esempio tratto dal solito film storico, sono essenzialmente stracci che danno alla scena una espressionistica atemporalità.

I brani recitati non sono le solite frasi fuori contesto che spesso suscitano solo blasfema ilarità, sono invece letture in catalano che non comprendiamo perfettamente e che per questo, si stemperano in una fantasmagoria di suoni che parla più all’istinto e al sentimento che non alla logica e alla ragione.

Alla destra della croce, un soprano nero, lancia vocalizzi alla folla, al giardino basso, alle ombre scolpite e al blu violento del cielo con una voce che metterebbe i brividi anche se cantasse “ Fin che la barca va”.

Un Lale sgomento, non ha mai visto nulla di simile, s’abbranca alle vesti di sua madre che, nervosamente, scatta una foto dopo l’altra nell’illusione di portar via con sé le immagini di questo momento come se un rozzo supporto cartaceo potesse contenere e restituire a comando le emozioni che questo momento dà a noi, come quasi certamente alle centinaia di persone che ci circondano.

Storditi dal sole e inebriati dalla musica ci dirigiamo verso la cattedrale, rasentiamo la facciata sfacciatamente ottocentesca ed entriamo dal fianco Nord. Vista dopo la Sacra rappresentazione la cattedrale è un edificio profano: grande, con la tipica orizzontalità di tutti i gotici mediterranei, presenta alcuni rosoni curiosamente collocati sulla parete di fondo che l’esilità delle colonne consente di leggere come un elemento unitario.

Notiamo un curioso lampadario appeso prima dell’altare, il cui gotico ci appare almeno sospetto, ma solo dopo qualche giorno avremmo scoperto che si tratta di una corona inserita con mano bizzarra e felice dal grande Gaudì in occasione dei suoi restauri dei primi del novecento.

Vaghiamo per le navate che sembrano costruire un’unica immensa sala mondata dalla luce e ne apprezziamo la matematica precisione e la sostanziale semplicità anche se, come tutte le cattedrali del resto, in questo Venerdì Santo spagolo fa un effetto strano che non sappiamo spiegare.

Usciti, percorriamo vicoli e vicoletti dirigendoci verso il Can Fontirroig, una casa privata nel cui giardino si trovano i bagni arabi di cui ho notizia perché un mio librone sulle case spagnole ne riporta le foto.

Una porticina, biglietto, una scaletta e si sbuca in un lussureggiante giardino, a sinistra una porta immette in una stanza rettangolare voltata a botte, con l’intonaco scrostato che mostra ampli brani di pietra, da qui a destra si entra in una stanza quadrata dove dodici colonne reggono altrettanti archi a ferro di cavallo e individuano un quadrato centrale più piccolo coperto da una volta a tazza, cioè su base circolare, dove si aprono gli oculi tipici di ogni bagno d’oriente. Le colonne troppo grosse e i capitelli, tutti diversi, sono chiaramente di recupero e provengono da chissà quale edificio scomparso già mille anni fa. Le pareti ancor più scabre con pietre e mattoni a vista necessiterebbero di qualche sistemazione che se, tranquillizzerebbe per il futuro, toglierebbe però gran parte del fascino selvaggio e un po’ decadente di questo luogo.

Una signora mi chiede dove fossero le vasche, qualche bagno l’ho visto, all’Alhambra sono lungo le pareti, in Turchia spesso c’è una vasca centrale e se fosse stato un bagno a vapore? La mia ignoranza è grande e non le so rispondere.

Usciamo nel giardino dove Lale scorrazza per vialetti tra palme e filodendri, aranci e siepi di bosso, noi diamo un’occhiata al ponte che conduce alla casa attraversando la stradina per la quale siamo arrivati e poi, ci accasciamo su esili sedie di ferro verde, per riposarci un poco ma spostandoci di tanto in tanto per seguire, io l’ombra, Giovanna il sole.

La colazione di questa mattina è stata di una tale abbondanza che nessuno di noi accusa la minima fame, così dopo aver indugiato parecchio ed essere rientrati nel bagno, quando usciamo è solo per vedere qualcos’altro.

Compiamo il primo tentativo di vedere la chiesa di S. Francesco, ma è Venerdì Santo ed è chiusa, raggiungiamo il vicino Can Vivot di cui conosco, sempre grazie al librone nero i fastosi interni. Al di là di un cancello inesorabile, posso scorgere un esempio tipico della curiosa sintesi di esclusività e di ostentazione che costituisce il patio maiorchno. Questo del palazzo Vivot con lo scalone imperiale, le colonne imponenti e le aspidistre in vaso è meraviglioso, ma è chiuso per noi.

Chiedo ad una passante: mai stato aperto! Eppure la guida dei Touring parla chiaro: ”visita a pagamento ore 10-13 e 16-19, chiuso la domenica”, ma della guida del Touring il marchese di Vivot poco si cura e niente da fare!

Dobbiamo trovare un ufficio informazioni turistiche e invece troviamo un Mac Donald. Continuiamo a non aver fame, ma non è per fame che si va al Mac Donald e così dopo esserci rimpinzati di patatine e cibarie affini, usciamo con tre pupazzetti informi che per Lale sono la cosa più bella di Palma.

Sono ormai quasi le quattro e la stanchezza si fa sentire, senza fretta ci avviamo verso la piazza di Spagna da dove il “15” ci riporterà in albergo, prima però incontriamo la Plaza Mayor, vasto invaso rettangolare regolarizzato, con le facciate tutte uguali dipinte di giallo e vari piani di finestre dalle persiane verdi. Non siamo né a Madrid né a Salamanca e qui è monotona. L’attraversiamo e prendiamo la strada di fronte dove subito vediamo un negozio della Disney. Per fortuna è Venerdì Santo e possiamo proseguire indisturbati. La chiesa di San Miguel, nonostante sia Venerdì Santo, è aperta e al suo interno scopriamo un altare addobbato di bianco come i “Sepolcri” che troviamo ancora a Sezze. Un frate francescano entra, si avvicina e si mette a pregare in silenzio: sembra un tuffo nel passato, una scena d’altri tempi e noi usciamo in punta di piedi.

Le altre chiese sono chiuse e dopo quella di S. Catalina, svoltiamo a destra e siamo in Piazza di Spagna.

In uno degli angoli sta trionfalmente un Burger King dalle cui vetrine scritte e manifesti proclamano: - Pokemon in omaggio!- Qualcuno che al Mac Donald ha lasciato le patatine, sente una certa fame, una improvvisa necessità di far merenda. Con una certa fatica riusciamo a concincerlo che non è il caso, che abbiamo pranzato tardi, ma dobbiamo in ogni caso promettere che domani pranzeremo di certo lì.

Per la prima volta il “15” ci riporta in albergo e quasi subito scendiamo in piscina, quella coperta, perché quella all’aperto, di questa stagione, è riservata ai tedeschi. All’estremità scorgiamo un ridotto con l’idromassaggio: non lo lasciamo più fino all’ora di cena.

La cena, come la colazione era al buffet: giganteschi banconi offrivano meraviglie della gastronomia internazionale in declinazione germanica, sensuali vivande dai mille colori sorridevano alla folla che in processione continua andava e veniva tra i tavoli rosa e si assiepava loro attorno, ma quando si era loro ceduto e le si portava al proprio tavolo per consumare quello che era un vero e proprio ratto d’amore, rivelavano la loro vera essenza: avevano, sì, mille colori ma un unico e solo vero sapore. Non cattivo, non sgradevole ma sempre inesorabilmente lo stesso. E noi a cambiare: prendo questo, anche quello, proviamo anche quest’altro fino a riempirci i piatti di montagne inverosimili e a compiere i riti processionali più e più volte, per scoprire che qualsiasi arrosto aveva lo stesso sapore dei salumi o qualsiasi torta aveva lo stesso gusto dell’insalata di riso.

Abbuffati e insoddisfatti, con più nausea che appagamento, risalivamo per decidere come trascorrere la serata, scegliendo tra le due alternative che si offrono alle famiglie: o indugiare al bar dell’albergo o una breve passeggiata fuori di esso. Optiamo per la passeggiata perché Lale ha visto un parco giochi e la nostra passeggiata consiste in una seduta su una panchina mentre aspettiamo lui. Non va nemmeno male perché il lungo mare è impercorribile occupato com’è da fiumane che parlano italiano o tedesco, implacabilmente intente a divertirsi.











Sabato 22-4-2000


La colazione e il viaggio sono i soliti, solo che questa volta siamo partiti un po’ prima e a tavola ci siamo fatti tentare un po’ meno dalla policromia dei cibi. La meta è come ieri Palma e l’obiettivo un ufficio di informazioni turistiche per progettare le nostre visite ed escursioni con buona pace di Alessia e delle sue idee sulle vacanze e sul divertimento.

Non è facile trovare l’ufficio: dove è indicato sulla guida c’è un’agenzia di assicurazioni, ovviamente chiusa, altrimenti saremmo potuti entrare a chiedere. La gelataia accanto ci da un’indicazione: vicino al Correos, la Posta. La posta sulla guida c’è, ma sarà ancora lì? Non c’è che controllare: la posta è ancora lì ma dell’ufficio informazioni non c’è traccia.

Dopo vicoli e vicoletti lo troviamo, rannicchiato tra due negozi le cui mercanzie si protendono con decisione sulla strada nascondendo risolutamente muri e vetrine.

Buongiorno parla italiano?

No ma lo intendo!

Bene nemmeno noi parliamo spagnolo ma lo capiamo ( per modo di dire!).

In un attimo abbiamo chiesto alla ragazza che ci stava di fronte tutto quanto volevamo sapere: come si fa ad arrivare là… e per giungere dall’altra parte invece… a che ora apre il tal monumento…e il giorno di Pasqua sarà aperto?

Ringraziamenti, saluti, uscita.

Dopo un attimo, dentro di nuovo: e per vedere…. E come si fa a ….

Nuovi ringraziamenti, saluti, uscita.

Trenta metri in discesa, retromarcia.

Sorriso, siamo ancora noi… e il Can Vivot? Perché sa qui c’è scritto….

La ragazza guarda il libro, lo prende, lo gira tra le mani e lo apre – l’italiano lo sa bene- e legge: “stampato nel 1975”.

Venticinque anni fa! Lei probabilmente non era ancora nata.

Venticinque anni fa evidentemente i viaggiatori non si erano ancora trasformati in turisti ed emanavano ancora il profumo di Chopin, di George Sand o di Luigi Salvatore d’Austria ed un nobiluomo spagnolo poteva senza timore aprir loro la propria casa; oggi evidentemente è diverso, è inutile recriminare , ma come è triste!

Le piaghe del mondo ovviamente sono altre, ma è veramente triste, pensare a tutti quegli edifici, non importa a chi appartenessero, se pubblici o meno, che sono stati visitabili e non lo sono più

Dai bagni e dal mexuar dell’Alhambra, alla Pliniana di Como, allo Huis ten bosch dell’Aia alle stanze di Nerone nella Domus aurea, tutti luoghi che avevo visto o che avevo sperato prima o poi di vedere, luoghi perduti, luoghi che erano stati aperti e che ora non lo sono più.

Cittadino del mondo e signore delle sue bellezze – mito di un tempo passato- ridotto oggi ad illuso fruitore di una bellezza virtuale che esiste solo per spillare quattrini e ti concede al massimo uno sguardo fugace, quando non uno sdegnoso rifiuto.

E’ il terzo giorno di Maiorca per cui, rigettate queste inquietanti considerazioni, ci gettiamo sulla città con la bramosia di chi vuol tutto vedere, tutto capire e perché no, tutto prendere.

Prima il castello di Belver, poi un po’ di città, poi il pueblo espagnol, poi… e poi…

Quando scendiamo dal bus, un urlo dietro di noi, una ragazza ci agita la borsa di Giovanna- Lale aggrappato ai capelli, alle braccia a tutta sua madre, deve avergliela fatta scivolare dalle spalle, noi affetteremo lui, ma amiamo tutti gli spagnoli; Granada e le sue valigie sprofondano nel dimenticatoio.

Individuare una strada, se si dispone di una cartina, non costituisce, come è ovvio, alcun problema; farlo da un pullman, al contrario, non è per niente facile: dapprima ci sono monumenti riconoscibili, poi un torrente quindi una deviazione brusca ma infine c’è un rettilineo monotono e sempre uguale a se stesso. In una parola, quando siamo scesi dal bus, ci siamo accorti che la fermata per il castello di Belver sarebbe stata la successiva.

Con la benedizione di San Francesco o più laicamente abbandonandoci all’imperativo: - Chi non ha testa…- ci inerpichiamo per una salita fiancheggiata dall’insipiente banalità di alberghetti e piccoli condomini eretti nello scialbo stile “periferia cittadina di ogni latitudine”, ma non recriminiamo troppo: un uguale salita ci sarebbe toccata comunque, tra qualche centinaio di metri.

Quando sbuchiamo sulla traversa orizzontale che corre più in alto e che non avremmo dovuto percorrere, non abbiamo più dubbi, è stata la benedizione di San Francesco e null’altro! La strada è abbastanza stretta e davanti a noi si sgranano case, villotte e sedicenti palazzi che piccole, piccolissime o aspiranti borghesie hanno eretto in tutti gli stili conosciuti, immaginati o forse soltanto sognati.

Un’ improbabile Loira che echeggia il Gaudì di Astorga sta spalla a spalla con l’anglo iberico di San Sebastian, monumento al matrimonio di Alfonso XIII con Vittoria Eugenia e da la mano ad un disincantato neomoresco direttamente proveniente da un’Andalusia di cui si è forse solatanto sentito parlare il tutto fra una manciata di guglie e di archetti neocatalani e di ferri e di vetri modernisti.

Un orrore per puristi frigidi, una mostruosità per gran sacerdoti di una cultura che è soltanto potere; non sappiamo cosa sia per un Lale che ci sgambetta accanto paziente, ma per Giovanna e per me è una meraviglia, un incanto, una gioia per gli occhi e una festa per il cuore.

Non posso evitare di pensare ad uno sconosciuto relatore, di cui avrei in seguito continuato a trovare scritti e articoli da tutte le parti ,che ,durante una conferenza nella biblioteca del mio paese aveva sorpreso, sgomentato e per alcuni financo atterrito l’uditorio illustrando il quartiere di non so più quale città, dove, portichetti Tudor convivevano serenamente con cupole moresche, aveva proclamato: - è bello perché è libero!-.

Pazzo per alcuni, solo provocatorio per altri, ironico per i più benevoli, non è certo stato capito o apprezzato da nessuno e di lì ad una settimana precipitava, non sappiamo quando involontariamente. Pensando a lui non ho mai potuto fare a meno di ritenere che, quella sera fosse tanto disperato e tanto libero da dire semplicemente ciò che pensava.

Le poche centinaia di metri erano più di un chilometro ma noi lo abbiamo percorso con leggerezza, come chi volteggia per una festa dove è felice di essere andato.

Dopo una brusca svolta, una deviazione sale ad un portale, dietro al quale una scalinata si inerpica, fra ulivi che non danno ombra, fino al castello di Belver.

Restormel in Gran Bretagna, Budinghen in Germania, Belver in Spagna appunto e pochi altri sono castelli a pianta perfettamente circolare: gioielli di architettura civile del medioevo, geometrici, disegnati a tavolino, astrattamente algidi e intellettuali, in un’epoca di empirismo. Io li conosco solo dalle fotografie e non ne ho che un’idea vaga e sostanzialmente di seconda mano.

Varcata la porta modesta, ci si trova su di una spalto polilobato che racchiude un grande fossato al centro del quale sta il castello rotondo; vicino a questo, staccata ma collegata da un ponte, c’è una torre più alta, mentre altre tre sono attaccate secondo uno schema a croce. Entriamo: il cortile circolare di certo è splendido; viene da pensare a quello dell’Alhambra di tre secoli successivi.

E se quello anziché da modelli italiani derivasse da questo?

Chi lo sa!

Oppure se entrambi derivassero da sconosciuti modelli spagnoli?

Affascinante quesito….

Affascinante solo per me!

Giovanna mi riserva uno sguardo di menefreghismo cortese e non rivela il suo pensiero: - Questo è proprio matto e l’ho sposato io! –

Attraversiamo le stanze del pianterreno adibite a museo archeologico e dopo quello sel primo piano saliamo al terrazzo da cui la vista è ovviamente stupenda ma mi interessa assai meno del cortile che si apre a pozzo sotto di noi.

Due turiste italiane si incantano per un muricciolo grigio biancastro che si intravede lontano fra gli alberi: è la villa del Re.

Ripercorriamo la strada a ritroso verso il Pueblo Espagnol, un complesso degli anni sessanta, che riproduce in scala ridotta alcuni dei più significativi edifici della Spagna intera.

Quando nel varco fra due condomini, ne scorgiamo le mura di pietra rosata e le torri frastagliate, siamo ancora lontani e per raggiungerlo dobbiamo percorrere un largo giro. Una volta raggiunto si entra dall’altra parte. Un Lale moribondo si trascina accanto a noi verso l’ingresso fiancheggiandone un lato.

La porta si apre fra due torri circolari che devo aver visto a Toledo e dopo un salato biglietto, ci immette in un cortile quadrato a logge di ispirazione castigliana. In un angolo, Giovanna scopre il bagno e, subendo in massimo grado l’attrazione di questo luogo magnetico, ci si precipita. Io, tenendo d’occhio Lale, ho tutto il tempo di ammirare lo scalone a tre rampe che mi sembra copia di quello dell’Hospital Real di chissà dove. Potrebbe essere ma anche non essere, ma in ogni caso è bellissimo.

Lale non ce la fa più per la stanchezza e per la fame , data l’ora, ha ragione e una sosta s’impone.

Seduti ai tavolini di un bar-trattoria, tra un boccone el’altro sbirciamo attorno a noi la piazzetta, i portici, i negozietti che, a pranzo concluso, avrebbero chiuso per la siesta lasciando a bocca asciutta la nostra turistica smania di acquisti. Meglio così!

In fretta i turisti lasciano il campo e abbiamo vicoli e strade solo per noi.

Alcune facciate di chiese, con sontuosi portali, ci sono del tutto sconosciute; inconfondibile invece è il Patio dei Mirti dell'Alhambra con la sala degli Ambasciatori che in formato ridotto fa una strana impressione, un po’ da Gulliver a Lilliput.

Riconosciamo il Cristo de la Luz di Toledo, poi la facciata curva del palazzo Penaflor di Ecija i cui affreschi sono sostituiti da un economico rosso “casa cantoniera”, tanto non li conosce nessuno.

Entriamo finalmente in una casa di El Greco per nani ma, visto che a Toledo non l’abbiamo vista mai, va bene anche così. Dopo le mura di Avila, la Torre de Oro di Siviglia e un vicolo della Juderia di Cordova, ci accorgiamo che il percorso è veramente breve, lo giriamo in lungo e in largo per due o tre volte e usciamo. Lasciamo il Pueblo Espagnol sospesi tra la gioia di averlo visto e il rammarico di averlo perduto.

Non è un capolavoro, non un’opra d’arte, eppure, che bello, del reso non ho mai potuto unirmi al coro dei detrattori di Grazzano Visconti o del Valentino e, non posso non apprezzare questa che, in fondo, è solo un’attrazione turistica.

Santo cielo che decadenza!

La strada del ritorno è la solita, con la sosta in Piazza di Spagna per l’indispensabile merenda al Burger King e muniti del rituale pupazzetto, raggiungiamo l’albergo dove, attendere in piscina, l’abituale, pantagruelica cena.

Dopo cena, al bar, c’è uno spettacolo di danze maiorchine e noi ci andiamo con un congruo anticipo per occupare uno dei tavoli migliori, lentamente le famiglie o i gruppi prendono posto ai vari posti avendo cura di prendere quelli con una buona visibilità (nella sala ci sono alcuni pilastri), ma sufficientemente discosti dal palco per poter chiacchierare liberamente .

Non lontano da noi, un tavolo è rimasto libero perché troppo a ridosso del palco.

All’improvviso, in diretta da Cambridge, irrompono il cherubino e la sua tribù e vi si fiondano senza esitare, tanto loro parlerebbero liberamente anche sotto l’altare durante l’elevazione.

Con mediterrranea interpretazione dell’ora indicata, lo spettacolo finalmente inizia, una dozzina di signori e signore di tutte l’età, ci sfilano davanti portando un identico costume: larga camicia bianca e pantaloni alla zuava ancora più larghi e a righine grigie per gli uomini, camicia, ampia gonna sempre a righe, grembiule per le donne, le quali recano altresì un cappello di paglia curiosamente trattenuto da un foulard.

La musica, prodotta da un mangianastri non è molto dissimile dal saltarello di casa nostra e in salti a braccia alzate lungo diagonali parallele, consiste la Hotta: la danza tipica.

Forse sarà un banale spettacolo per intrattenere i turisti, qualcosa di simile ai giochi di società di in villaggio Valtour, ma la nostra voglia di differenze, di altro, di non omologato è tale che a noi sembra bellissimo ed in ogni caso e fuori dubbio che i danzatori siano bravi.

Il cherubino che con ogni probabilità non avrà niente da dire sui ciaf.tu.tum o sui tunza-tunza che imbrattano il silenzio di casa nostra, trova la musica maoirchina, ridicola in sommo grado e si sganascia dalle risate secondo ritmi che sono soltanto suoi.

Quando, una deliziosa vecchietta, con grazia inimitabile ed un’agilità che noi non sapremmo dove trovare, esegue i volteggi della sua gioventù il cherubino non si trattiene più e urla: Nonna Belarda!









































Mercoledì 27-4-2000 continua……



Il cherubino si alza di scatto, non sa che gridare, muoversi a scatti, roteare le braccia,e si precipita verso la saletta dove giacciono i bagagli. In effetti ha visto prima di tutti il pullman per l’aeroporto e vuole sali re subito. Non può più farsi “grandi mangiate e grandi dormite” quindi perché indugiare?

Noi, Lale compreso, cerchiamo di rubare con gli occhi gli ultimi atti di Maiorca, sia pur nella sua accezione alberghiera: - Ma se è il nostro albergo perché andiamo via?- chiede Lale.

Con il pullman facciamo il giro degli alberghi per raccogliere gli altri viaggiatori, ma con il volto incollato ai finestrini, cerchiamo bramosamente di cogliere gli ultimi sprazzi di paesaggio: ancora una volta il mare, la campagna, le pinete insabbiate, i mulini a vento e qua e la all’interno di porzioni di territorio irrealmente verdi, i mostodonti del nuovo corso.

Spiamo la soddisfazione o l’indifferenza sui volti degli altri che abbiamo intravisto all’arrivo e che ritroviamo alla partenza: compagni di viaggio incapsulati ciascuno nel proprio viaggio personale. Non sapremo mai se siano tutti come il cherubino o la ragazza preoccupata da quel troppo di cultura rappresentato da due note di violino nelle grotte del Drach. Saranno stati divorati da un’ansia bramosa di divertirsi, o si saranno abbandonati alla malia del luogo? Si saranno storditi ogni notte in discoteche identiche a quelle di casa loro, o avranno cercato di cogliere ciò che di diverso o di bello qui si può trovare?

Non lo sapremo mai. Quel che sappiamo è che qualcuno di loro non ha resistito ad avere notizie fresche da casa come se, avere notizie delle catastrofi dagli imbonitori nazionali in tempo reale, consentisse in qualche modo di porvi rimedio o di prevenire il loro ripetersi.

Dalla tasca di un giaccone spunta un giornale italiano, il viaggio è finito non resistiamo alla tentazione di sbirciare un po’: è caduto il governo D’Alema.

Ah sì!?

Uno strappo secco e via, l’aereo decolla e Lale ,tra me e Giovanna ,mi racconta la sua ultima avventura.

Quando si è aperta la porta, per essere trasportati sull’aereo, lui e la mamma sono finiti su un pulmino, io su di un altro. Ebbene ha fatto il diavolo a quattro, e nonostante le assicurazioni della hostess tra lacrime ed insulti si è rifiutato di salire sull’aereo e prendere posto fino a che non fosse giunto il suo papà.

Bravo Lale!

Le luci di Palma svaniscono nel buio sotto di noi e dopo un frugale spuntino, gradito per altro moltissimo, visto che l’albergo avendoci fornito un toast alle undici, la sera dell’arrivo, lo aveva considerato pasto e ci ha lasciati senza cena oggi; ci appisoliamo durante l’oretta che ci separa da casa, o meglio ad appisolarsi sono Lale e Giovanna perché io, che dormo ben poco anche nel mio letto, figuriamoci se lo faccio in un volo così breve: ne approfitto per rileggere le pagine di questo diario di bordo, il primo che scrivo dopo alcuni anni di viaggi muti.














Domenica 23-4-2000 continua….



Mi accorgo subito di aver saltato il racconto del giorno di Pasqua, il giorno in cui abbiamo stretto amicizia con il conducente dei pullman delle “Baleari Nord” il quale ci avrebbe fornito tutte le indicazioni per le escursioni dei giorni successivi delle quali ho comunque già parlato

Il ricordo va alle montagne aspre e verdi sui cui ampi tornanti il pullman sale annaspando. Pochi i turisti con i volti incollati ai finestrini che catturano picchi superbi e trepidano ad un cielo sdegnato che minaccia tregende. Ben di più i maiorchini che, perduti in conversazioni interminabili, sono indifferenti a noi, ai monti, al cielo.

D’improvviso il cammino si fa piano ed un cartello annuncia: Valldemosa.

Un breve percorso su una strada fiancheggiata da bancarelle e il pullman ci scarica sul bordo di una piazzetta: metà stecchito giardino, metà triste parco giochi espressione, qui come sotto tutte le latitudini, della paterna sollecitudine delle amministrazioni locali verso i cittadini amministrati.

Sulla destra, un po’ s’alza un po’ s’abbassa un borgo ocra e grigio fatto di vecchie case e di strette strade.

Il cielo che all’albergo era blu, a Palma era attraversato da saettanti nuvole bianche, qui è una tumultuosa scultura d’acciaio. Rade gocce cadono su di noi mentre un vento di ghiaccio ci frusta e scarnifica il viso e le mani. Le tende delle bancarelle sbattono come bandiere producendo un rumore sordo e frequente che s’accorda al tintinnio disordinato e continuo che viene da grappoli e grappoli di campane tubolari appese per ogni dove.

I pochi visitatori sanno dove andare ed inforcano senza esitare una di queste strade alle nostre spalle, noi li seguiamo e, dopo qualche svolta e una breve salita sbuchiamo di fronte alla Certosa.

Un immenso fabbricato ocra grigio o anche biancastro troneggia sulle case del borgo e sopra di questo s’alza un breve campanile con una curiosa balconata e col tetto capriccioso coperto da un tetto di piastrelle d’un blu spendente e incongruo.

Incongruo proprio del tutto , forse no: il vento non ha smesso di sferzare ma la pioggia è cessata e qualche squarcio di uguale blu compare qua e là

Il biglietto è presto fatto ma l’orario di apertura è interpretato con mediterranea elasticità per cui c’è tutto il tempo di dare un’occhiata attorno.

Ad esempio ci si rende subito conto che ad essere immensa o a parere tale è la chiesa perché gli edifici conventuali, semidistrutti o mai terminati, non lo sono affatto. Girandovi intorno alla ricerca di un bagno, prosaica irruzione della quotidianità nei rarefatti emisferi del sogno, Giovanna mi fulmina perché oso criticare la sua scelta di attendere dietro una lunga fila per usufruire del bagno delle signore, anziché usare un deserto bagno de los caballeros dove io ho già avuto tutto il tempo di soddisfare le mie necessità.

Così, mentre lei attende intransigente, io posso continuare il mio giro e finisco in un giardino dalle aiuole di bosso e dai cipressi altissimi, mi guardo un po’ attorno e m’accorgo d’essere dietro al presbiterio della chiesa in quello che è stato, o forse sarebbe dovuto diventare, il chiostro grande della certosa ma che, al presente, è costruito per un solo lato.

Gironzolo un po’ con Lale per viali e vialetti e mentre Giovanna, non sapremo mai se raggiunto il suo turno o cambiato segretamente bagno, ci raggiunge, arriva l’ora dell’apertura.

Arriva solo per noi perché i nostri orologi non sono regolati con quelli dei custodi e così mentre spiove e ripiove, i campanelli tintinnano all’impazzata, il vento sconquassa le nubi e fa sbattere le tende, raggi di sole si alternano a notti d’inferno, noi, con gli altri pellegrini, davanti all’alta muraglia grigia, muta e inesorabile, attendiamo…

Quando finalmente l’orologio del custode raggiunge il nostro entriamo.

Sbuchiamo a metà navata: alta, bianca, a croce latina senza cappelle, d’un neoclassico iniziale che dopo il tempo di fuori ci può sembrare anche cordiale. Nella cupola, in alcune lunette e qua e la affreschi che ci dicono essere di Bayeu il cognato di Goya. L’aver dato una sorella in moglie ad un genio, non trasforma necessariamente in un grande pittore e così i dipinti, di un rococò un pò frigidino, ci paiono cosa comune, quasi di casa. Che dire? Magari opera viggezzina, forse una via di mezzo fra Borgnis e Peretti, una sintesi fra la luminosa leggerezza dell’uno e il congelato nitore dell’altro.

Gli stalli del coro sono belli e li osserviamo per un po’, volgendo loro le spalle e guardando l’altare, vediamo sopra la scultura policroma di una pietà, una croce scura, che quasi non si vede sul fondo bordeaux della nicchia, drappeggiata con una stola bianca ripiegata a formare una M che invece, in violento contrasto si vede fin troppo e costituisce una nota di stridente modernità come una presepe di polistirolo sotto volte cistercensi o canti di C.L. davanti ad un altare del rinascimento.

Una porta conduce alla sacrestia: alta, bianca, quadrata, con gli angoli smussati, è un monumento alla Spagna di sempre, con i suoi mobili e quadri che paiono ancora più scuri, stagliati così, sul candore delle pareti immacolate, complice un raggio di sole che ora penetra dall’esterno.

In una nicchia un retablo barocco con colonne dorate e pale naif del XVII secolo; al centro un grande leggio ottagonale… Bello? Chi lo sa! Adeguato, di certo, si!

In una vetrina scorgiamo il capolavoro: un reliquiario gotico traforato dorato, formelle e pinnacoli. Bello? Questo decisamente si!

Per un corridoio si entra nella farmacia. Le vecchie farmacie, come le biblioteche conventuali, si sa, sono una delle nostre passioni e ne abbiamo viste tante: quella di Trisulti, quella di Parma, di Camaldoli, di Calci, persino quella di Nizza che non è in un vecchio convento ma è stata rimontata a Palazzo Lascaris, ai piedi dello scalone più bello del mondo, che se non è proprio il più bello, è di certo il più complesso e, in uno spazio così limitato, quello spazialmente più ricco.

Capriccioso, irregolare, asimmetrico, con una rampa che sale ad un pianerottolo, svolta, si ferma ad un terrazzino, scende d’un lato, risvolta e sale dall’altro…

Sono quasi le stesse parole con cui Lampedusa, nelle sue memorie, descive la scala che dal cortile scendeva al giardino d’una sua casa scomparsa, ma se pensava che la sua fosse la più bella di certo non aveva visto questa.

Lasciamo le scale e tutte le idi viaggi passati, di letture trascorse, di fantasticherie perenni che si fondono in un caleidoscopico presente e si sovrappongono alle immagini del viaggio d’oggi ed entriamo in farmacia.

Un tripudio di vasi di tutte le forme, luccichii di ceramiche bianche e blu, trasparenze diafane di vetri azzurro verdastri, opalescenze lattigginose di barattoli dipinti solo in parte, materialità bruno dorate d’anfore e di terraglie inframmezzate a quadri devozionali traboccano da alte scansie e risplendono per un attimo al raggio di sole, ormai immancabile, ma di certo effimero che entra dalle finestre oltre il corridoio, per cui godiamocelo, lui e questo splendore, fin che c’è. Cerchiamo con gli occhi il baluginio metallico di mortai e pestelli, il luccicare prezioso delle bilance e dei misurini…

Grande il nostro accompagnatore: Tace!

Non ci da spiegazioni su cose che forse neanche sa, come il novanta per cento degli accompagnatori, del resto. Rispetta il nostro incantato silenzio ma sorride ai nostri sguardi perduti in tanto incantato splendore. Quando ritiene che noi ci si sia appagati abbastanza, lentamente ma con fermezza gentile, ci accompagna fuori dove, nel corridoio c’è il banco dei ricordi.

Rapimento estatico o abilità suprema dell’accompagnatore, che sa evidentemente alla perfezione ciò che per un accompagnatore è necessario sapere, ci buttiamo famelici a comprare tutto quel che si può nel noto, vano ( e noto che è vano) tentativo di portare a casa emozioni, incanti, magie. Così prendiamo tutte le cartoline della farmacia, che non rimandano nemmeno una scintilla del fragoroso bagliore dell’originale e poi copie di vasi e albarelli che fuori di qui non diranno assolutamente più nulla e che la nostra casa pietosamente dissolverà fra le centinaia di altri oggetti, ricordi di viaggio e non, che conserviamo con vittoriano fervore, e poi libri e guide, una guida della Certosa ed una copia, in lingua originale, di “Un hiver à Maiorque”, memorie del soggiorno trascorso da George Sand e da Chopin proprio qui, poche stanze più in la.

Ancora qualche passo per i corridoi un po’ lugubri: intonaco bianco e pietra grigia. Il sole se n’è andato ancora una volta e la luce che penetra dalle alte finestre rettangolari, sormontate ciascuna da una circolare, ha un che di spettrale che l’incanto verde del chiostro piccolo, che si vede da esse, non riesce a dissipare.

Da una porta all’inizio del braccio lungo si accede alla cella del Priore che, trattandosi di Priore Certosino, è un vasto alloggio con altrettanto vasto giardino.

La prima stanza è la cappella divisa in due da una griglia dietro la quale c’è il solito altare barocco dorato e cordiale. Nella parte anteriore mobili scuri sulla parete bianca, una profusionre d’angeli in legno sempre dorato, alcune statue di cui una gotica pregevole, reliquie di Santa Catalina Thomas, nativa del luogo e due lapidi di cui una ricorda che Jovellanos, durante la sua prigionia, sentiva la messa qui.

Jovellanos….. chi è Jovellanos?

Mai sentito.

La guida appena acquistata e rapidamente consultata dice che era uno statista perseguitato da Godoy. Non saprò chi era Jovelanos, ma so chi è Godoy: un ministro di re Carlo IV, ministro perché amante della regina Maria Luisa, quella che Goya dipinge come una iena.

A ben guardare mi ricordo anche di un ritratto di Godoy che sempre Goya, dipinge in veste da condottiero ma sdraiato su un divano da salotto. Pensando a questi ritratti mi rendo conto che non ho mai capito se costoro: re con facce da imbecilli, regine con volti da avvoltoio, ministri con aspetto da cicisbei, fossero anche tanto fessi da non rendersi conto del ridicolo sotto cui li seppelliva il pittore, oppure se questi risultati, tenuto conto dell’originale, fossero già il massimo dell’adulazione possibile.

A ben pensare, se questo era l’ambiente e per tornare a Jovellanos, ora so quasi con certezza chi doveva essere: una persona per bene!

Attraverso una porta si passa alla Biblioteca: non è la gigantesca biblioteca monastica cui ci hanno abituati i monasteri del centroeuropa, niente dorature e svolazzi., è la biblioteca privata del priore anche se i libri sono quelli di tutta lacomunità.

Cromaticamente è divisa a metà : quella bassa interamente fasciata da scaffali scuri al punto che ci si potrebbe credere in Inghilterra, quella alta, più il soffitto a volta, interamente bianca invece di toscana purezza, anche se la collezione di piatti bianchi e blu appesi alle pareti non si saprebbe proprio dove collocarla.

Lale comincia a dar segni di stanchezza e Giovanna sbircia tra i titoli nella maligna speranza di trovare, che so, un Voltaire o magari anche un De Sade ma, niente da fare, solo vite di santi tomi devozionali e contabilità: che noia ‘sti frati!

Io mi divido fra un trittico cinquecentesco, di gustosa eleganza, con un’Adorazione dei Magi fra una dei Pastori ed una circoncisione dove il sacerdote tiene in mano un coltello più grande del Bambino e un altro trittico quattrocentesco in avorio che, al movimento del primo, contrappone una sua ieratica fissità di stampo ancora medievale.

I visitatori sono pochi e possiamo restare quanto vogliamo ma, quando la curiosità per quello che viene dopo supera la gioia per quanto abbiamo scoperto qui, entriamo nell’altra stanza.

Sala delle Udienze: solite pareti bianche e soffitto a volta, solite sedie e cassoni lungo le pareti soliti quadri scuri in cornice dorate in stile Isola Bella, e al centro di un alto breve un sobrio trono priorale.

In mezzo un’enorme tavolo-vetrina espone pergamene e documenti ma è ingombrante a tal punto che altera le proporzioni e en impedisce una reale percezione.

Sull’altro lato corto una grande vetrata da sul giardino; un’isolata visitatrice entra -

allora è aperto – usciamo a vedere. Un grande terrazzo piantato a cipressi con fontana centrale e due aiuole di bossi e di rose si protende verso la valle con una vista che giunge in basso alla campagna piatta oltre la quale, si indovina il mare. Ale sgambetta per viali e vialetti e noi dietro a lui, dopo una sosta su di una panchina provvidenziale ( per noi perché per lui no) rientriamo dove altre stanze ci aspettano.

Dall’altro lato della sala d’udienza incontriamo quella da pranzo un po’ più spoglia ma essenziale ed elegante, dietro a questa una piccola anticamera comunica con il corridoio esterno: è la cosiddetta Avemaria, ricca di ante e sportellini attraverso i quali i monaci comunicavano senza vedersi.

Accanto c’è la camera nella cui alcova, vicino ad un manichino con il saio, c’è il letto del priore costituito da una soffice tavola di legno coperta da un lenzuola rialzato in un angolo per non lasciare dubbi sulla comodità della sistemazione.

In giro tavolini, sgabelli, cassoni, statue, crocifissi e una vetrina dove, accanto alle solite statue, libri e crocifissi troviamo teschi, fruste e cilici: in una parola tutto l’armamentario necessario a rafforzare la fede!

Ecco il De Sade che cercava Giovanna, ma non il De sade libresco, virtuale e piccante che ci saremmo aspettati, che ci avrebbe fatto sorridere e che avrebbe suscitato simpatia, ma un De Sade in carne e sangue che non capiamo, che ci rattrista e che ci allontana da qui.

Nelle celle di Chopin e di George Sande, l’atmosfera cambia, non è più la ricostruzione d’ambiente con qualche spunto espositivo o di documentazione, come nella cella priorale, ma un’esposizione di documenti con qualche citazione d’ambiente.

Hanno entrambe pressoché la stessa pianta: una stanza centrale e due laterali più piccole una delle quali con un portico sul giardino che in epoca monastica serviva da cucina.

Quante volte avrò detto pareti bianche, mobili scuri e quadri con cornici dorate, eppure di ciò che si vede qui è questo che affascina non di certo gli spartiti o i manoscritti che fanno tanto archivio, o la maschera mortuaria e il calco della mano che sono conformi al gusto della cella del priore.

Vedo, accanto alla porta del giardino il seggiolone gotico e il pianoforte delle cui vicissitudini avrei letto di lì a qualche giorno su “ Un hiver à Maiuorque “

Curiosi i giardini di Chopin e della Sand, non incolti ma certamente più spontanei e liberi di quello del priore come si addice a due titani del romanticismo. Quello del priore invece è più classico e composto come si conviene ad un uomo di potere.

Del resto si sa il classico è il linguaggio del potere che vi cerca una fonte di legittimità mentre al massimo riesce a trovarvi un’illusione di durata una speranza di eternità: illusione e speranza tenaci e persistenti ma fallaci quant’altre mai altrimenti non si spiegherebbe perché il mondo pulluli di tanti classici palcoscenici vuoti di poteri scomparsi.

Le ultime celle sono un museo dedicato: ad una famiglia di stampatori, ad un principe viaggiatore a pittori che hanno lavorato qui e a pittori moderni tra cui Mirò e Picasso e se le prime sezioni sono più interessanti che belle, le seguenti, soprattutto l’ultima, ci riconsegnano alla bellezza.

Usciamo alla ricerca del palazzo di re Sancio, il cui ingresso, pur appartenendo al complesso della certosa, è dall’esterno. Del vecchio palazzo reale non si riconosce alcun chè e del vecchio convento che era diventato poi, rimane ben poco di più.

Le leggi di Mendizabal, il Siccardi spagnolo, hanno convertito gli ambienti in una sontuosa residenza privata, bella senza essere eccezionale. Un primo cortile, a destra del quale si intravede quello che doveva essere il vecchio chiostro, introduce a quella che è stata la cappella ma che ora fasciata di geliducci dipinti azzurrini di un tal Ankermann di cui non so nulla e che rimandano a quelli, d’un azzurro altrettanto frigidino che si trovano in chiesa, è trasformata in sala dei concerti, tempio del culto di Chopin nume tutelare del luogo.

Il rito si celebra da sempre a mezzogiorno per cui abbiamo venti minuti per vedere il Palazzo. Attraversiamo il corridoio a volta ricavato da portico del chiostro: a destra vetrate chiudono le arcate in pietra, ( archi ribassati gotico catalano ), a sinistra parete ovviamente bianca che fa risaltare mobili scuri tra i quali si notano vecchi stalli da coro, cassapanche e poi bracieri con aspidistre, documenti in cornice ( è un vizio ) e, nota di rusticità incolta, pentole in rame stile tavernetta di ragioniere milanese.

Sono le dodici meno cinque e bisogna tornare perché c’è il concerto.

Le dodici arrivano, arrivano e passano e noi, che non impareremo mai, qui ad aspettare ma, a parte gli spettatori che lentamente arrivano del concerto nessuna traccia. Abbiamo agio di osservare i nostri compagni di attesa, una varia e sparuta umanità disseminata tra le vuote file di sedie rosse. C’è il giovane vagamente hippie con il codino e lo zaino posato a terra, c’è la famiglia con bimbi che scalpitano quanto Lale, c’è la coppia di vecchine una delle quali racchiusa in un golfino rosso e pantaloncini a fiori rosa e gialli a fasciare le sue colte rotondità.

Chissà perché sono qui?

Perché amano Chopin o anche solo la musica oppure perché il concerto è compreso nel prezzo del biglietto e quindi….. noi, se non proprio Chopin, amiamo la musica , Lale compreso, e attendiamo di buon grado anche se per ora gli unici suoni sono il fischiare del vento, lo sbattere delle tende e il tintinnare delle campane che ci arriva dalla porta rimasta spalancata.

All’una, dopo un quarto d’ora di musica, il concerto finisce e noi che abbiamo riconosciuto solo “ l’eroica” una polacca resa famosa da film e pubblicità, apprezziamo tuttavia Chopin un poco di più.

La visita al palazzo è stata a rotta di collo ma nulla ci vieta di ripeterla e così fiancheggiamo il vano della scala che sa di fasullo, ripercorriamo la galleria-taverrnetta con le colonnette di pietra troppo chiara, entriamo nella sala da pranzo con le pareti coperte da un rosso motivo a zig zag cche deve proprio essere tipico di Maiorca, un’occhiata al camino d’un medioevo che non sa rinunciare al barocco con tanto di colonnette, fregi, foglie ricciolute e poi via.

Prima di giungere nella camera di Jovellanos, in un andito stretto e accanto ad una vetrina verde colma di porcellane bianche e rosa che fanno visibilmente deglutire Giovanna, vediamo un manichino, in saio da frate, seduto ad un rozzo scrittoio.

Un cartellino recita: “Ruben Dario in abito da certosino per ispirarsi”.

Chi sarà mai costui? Non lo sappiamo proprio! Giovanna ritorna ai suoi studi letterari…. Invano. Lale ne è incantato.

Indugiamo nel salone principale: rosso.

Parati rossi, arazzi rossi, sedie laccate di rosso, fregi, consolle, specchiere dorati brillano in questo rosso e per contrasto lo fanno apparire più rosso che mai.

Riconosco lo stile maiorchino del 18 secolo così, per come l’ho imparato dalle foto del mio librone nero sulle case spagnole giacchè gli interni del Can Vivot o del Can Fontirroig che vedo senza difficoltà appena chiudo gli occhi, sono serrati per noi.

Uno sguardo ad una camera da letto e poi le stanze a ritroso, paccottiglia e pezzi notevoli convivono serenamente, pentole in rame accanto a cassoni venereandi, quadri banali vicino a sculture pregevoli. Lentamente percorriamo stanze e stanzette di questo che sempre più cessa d’essere un museo per apparire d’incanto tra l’arcaico e il magico, tra il venerabile ed il poetico, semplicemente una casa.

Per quanto cerchiamo di trattenerla con noi e centelliniamo lo spazio, in un attimo siamo fuori e ci accingiamo ad una sosta in una taverna per un sobrio pranzo di Pasqua che è stato l’unico pasto del viaggio a non venir consumato al teutonico buffet dell’albergo o ad un globalizzato fast food che come è noto costituisce la gioia alimentare di Lale.

Cucina maiorchina che è uguale a tutte le cucine del mediterraneo e quindi sublime di suo, ad elevatezze sideree se paragonata a quella germanica e alla gloria dell’empireo se messa vicino a quella impacchettata che proviene d’oltre oceano.

L’ambiente, cui si giungeva superando un contorto ulivo centenario, era di recente costruzione, ma riempito di tavoli e sedie spaiate e di vecchi oggetti della civiltà contadina, costruiti appositamente per essere appesi era comunque meglio del ristorante con le tovaglie rosa e dei locali con la plastica a colori aggressivi. L’unica somiglianza era la folla: i turisti che erano pochi in certosa, pochissimi al concerto e nessuno nel palazzo s’erano dati appuntamento qui, per cui il pasto di Pasqua oltre che sobrio fu rapido e visto che nonostante il vento non fosse cessato, era uscito il sole, ci incamminammo per la città.

Così tra folate e tintinnii, su e giù per stradicciole strette, fra mura dorate punteggiate qua e la di gerani in vasi piatti appesi ai muri a tutte le altezze. Questi vasi da noi non si trovano come ben so, giacchè Giovanna se ne era innamorata in altri viaggi al Bario Santa Cruz di Siviglia o alla Juderia di Cordova, così, quando il riflesso di una signora scivola dietro una finestra bassa, non si trattiene più e bussa a i vetri. La signora, siamo nel cuore del mediterraneo e l’estraneo non è nemico, apre con un sorriso – che belli questi fiori…. - ma dove si comprano i vasi piatti…. – ma come si coltivano…. – e quanto si innaffiano…

Trascorre un quarto d’ora, alla fine del quale se non avessimo problemi di trasporto potremmo accettare il dono di qualche vaso piatto con relative pianta.

Le piante, Giovanna, come in ogni viaggio, le ha già comprate in semi, staccate da muriccioli abbandonati, raccolte da giardini troppo opulenti e se le porterà comunque a casa, dove, da insigne botanico qual è le pianterà, innesterà, acclimaterà andando incontro talvolta a delusioni cocenti, spesso a stupefacenti trionfi.

Continuiamo a vagare per vicoli e strade in questo pomeriggio di Pasqua che costituisce il clou del viaggio, con Lale meno incline del solito a chiedere il cos’è e il perché di ogni cosa e noi saturi di cibo, ubriachi di sole e sferzati dal vento tendiamo a filosofare.

Ci interroghiamo su Valldemosa, sul viaggio, su di noi, sul viaggio per noi, su noi in viaggio e la domanda è infine sempre la stessa:

Il viaggio perché

Anche le risposte sono poi quasi sempre le stesse, i fiori della più sontuosa banalità affiorano con regolarità stupefacente.

Perché bisogna, lo fanno tutti, se non si viaggia si è tagliati fuori, non è importante la meta, non è importante ciò che si vede, l’importante è dire d’essere stati via.

Forse no ! La meta è importante, altrimenti come spiegare la scelta di quel mio parente, andato fino a Bangkok per starsene tutto il tempo in albergo accanto alla piscina, senza uscirne mai. Cosa avrà avuto questa di diverso da una piscina di Rimini? Al massimo le palme!

Ora ci sono: uno degli scopi del viaggio sono le palme.

Ci sarebbe la filosofia del cherubino: per mangiare e per farsi delle grandi dormite, ma questa si commenta da sola.

Per divertirsi? Forse.

Noi non abbiamo mai capito fino in fondo cosa possa essere veramente, di certo qualcosa se non sempre di antitetico, comunque di diverso dalla felicità.

Al divertimento e alla sua ricerca abbiamo sempre guardato con malcelata diffidenza, sospettando che al massimo, possa essere un casuale stato di beatitudine, un rapimento improvviso dell’anima, ben lontano da ogni possibilità di progettazione.

Non è a questo punto il caso di lasciarsi andare ad analisi su cosa sia invece la felicità ma diventa adesso ovvio che la ricerca del divertimento sia l’indicatore di una sua assenza, la spia di una condizione di infelicità.

Viaggiare per imparare allora, per sapere: “ fatti no foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza “.

Ma come già il padre Dante sapeva così si finisce all’inferno!

E allora perché?

Come già Chatwin ci chiediamo “che ci facciamo qui?”

Tra i vicoli e le scalette di Valldemosa, sospesi tra vento e sole una risposta non la troviamo proprio. Lentamente tra i meandri della mete, una risposta affiora, comincia incerta ad apparire e con calma si definisce sempre più.

E’ la risposta di sempre, eppure con sempre una nuova luce ed una nuova forza: viaggiare come raccogliere piante, come collezionare libri, come dipingere, come cantare ( questo vale solo per Giovanna ) è un modo di essere.

Viaggio perché sono, viaggio dunque sono.

E con questo il cerchio delle banalità si è saldato, è meglio continuare a camminare.

Di passo in passo, per una strada bassa, giungiamo ai piedi del palazzo di re Sancio, lungo la facciata esterna che non abbiamo visto prima.

Interessante la sua muratura con grandi pietre separate da larghe fasce d’intonaco piane e regolari in cui sono affogate, con scopo puramente decorativo , alcune pietre più piccole. La casa de las conchas, le conchiglie, di Salamanca è pur sempre in Spagna.

Delle vere conchiglie disseminate su un muro dipinto d’azzurro erano invece a Gravellona, ma un nuovo proprietario le ha fatte sparire prima che potessi fotografarle e mandarle a raggiungere la casa-vagina di Gand o i merli bianchi e rossi di Caltignaga, nel mio personale museo degli orrori iniziato anni fa prendendo ispirazione da” Greenschav Folly “, una novella di Agatha Christie, dove il nipote di Miss Marple curava un’analoga collezione.

Tutt’altro che un orrore è questo edificio, anzi è con notturni e polacche che ci turbinano nella mente, più forti del vento che ci turbina attorno, che guardiamo il palazzo da questo luogo segreto.

E’ curioso questo suo continuo ritornare nel ricordo, nei passi, nei pensieri; forse è casuale, o forse, più delle celle romantiche o delle stanze del priore, questo suo essere contemporaneamente casa e tempio dell’arte, contenitore e produttore continuo, sintesi di domesticità e di cultura, luogo dove domesticità e cultura sconfinano l’una nell’altra fino ad essere una stessa cosa, parla alle nostre anime, appare come il simbolo di una meta possibile, come un modo di essere appunto.

Da qui qualcosa del vecchio palazzo reale ancora si vede, una torre, di certo precedente alla trasformazione in convento, svetta al di sopra di tutti i fabbricati, ben più imponente della torre vicina. In alto, al piano di ronda, curiose caditoie mozze; più in basso una finestra fiancheggiata da due bombardiere, che avevamo notato all’interno ci dice, d’essere il luogo dell’alloggio ( camera? cella? ) di Jovellanos; le tre finestre attigue sono quindi quelle della sala da pranzo dai motivi a zig zag e dal camino grottesco.

Davanti ad essa ma ortogonale alla facciata, si allunga una muraglia sovrastata da un terrazzo e aperta in basso da un’arcata, già porta nelle mura del borgo, attraverso la quale la strada in terra battuta, conduce alla campagna verde e silente.

Poco prima, nella scarpa ai piedi del palazzo, un’altra porta, forse seicentesca, rigida e iperdecorata, come la Spagna del tempo, è fiancheggiata da ben quattro lapidi sovrapposte.

La prima dice: “Palacio del Rei Sanxo “ con quella che deve essere la parlata catalana, che a sentirla ci è ormai quasi familiare “ al g’ha mia voia da lauraa “ ricordate, ma che scritta ci fa un curioso effetto.

La seconda ricorda che prima dei fabbricati settecenteschi, questo edificio era una certosa.

Tema analogo tratta la quarta che in ceramica a fiori smaltati, me ne ricorda una con la scritta “ a Firenze andai, a te pensai, e questo ricordo ti portai “, che rimaser in casa di mia madre finchè una mano pietosa e crudele tentò di pulirla…..

La terza lapide dice: “ In este mansion habitò en 1906 y 1913 el insigne Poeta Principe de las lenguas Hispanicas, Ruben Dario.

Ancora lui.

Questa volta ne sappiamo qualcosa di più, queste poche righe ci dicono che si tratta di un poeta che operò nei primi decenni del novecento, e che qui trascorse solo sette anni.

“ Insigne “ e “principe” devono essere dei barocchismi di consueta matrice iberica, tesi ad esprimere un affetto che consenta di paetecipare alla grandezza o di accrescere l’importanza del personaggio che per sette anni visse in questi luoghi, allo scopo di accrescere l’importanza dei luoghi stessi, ma l’espressione “de las lengua hispanicas” “delle lingue ispaniche”, ci incuriosisce e ci intriga.

Cielo come siamo ignoranti! Forse su, nelle sale, qualcuna delle pagine incorniciate ed esposte come fossero quadri, che noi abbiamo snobbato perché turbavano il nostro gusto estetico, riportavano opere sue oppure documenti in gradi di chiarire chi fosse.

Forse “delle lingue ispaniche” non è altro che un ulteriore barocchismo scelto solo per equilibrare “l’insigne poeta principe”.

Perché allora non “spagnolo?”

D’accordo troppo semplice e non “spagnolo” quindi!

“della lingua spagnola” allora, se avessero voluto dire castigliano e catalano, ma perché “ispaniche”, chiedo io.

Raffinati arcaismi? Forse…. Primi del novecento, l’impero era finito da tempo, e se volesse dire “ di lingua spagnola - Dice Giovanna -, Ma non uno spagnolo?”, un sudamericano, un peruviano, un messicano?

Centro!

Rubèn Darìo (con gli accenti sulla e e sulla i) pseudonimo di Fèlix Rubèn Garcia Sarmiento (Metapa 1867 – Leon 1916). Poeta nicaraguense… giornalista e diplomatico, venne varie volte in Europa… Inizialmente romantico e vittorughiano (bello vittorughiano!)… Ben presto, seguendo Baudelaire, Verlaine e Mallarmè divenne un rinnovatore simbolista sostenitore del dogma: “La musique avant toute chose”:

Passa poi ad opere che determinano il trionfo del modernismo nella poesia di qua e di là dell’oceano in cui, accanto ad espressioni di sensibilità decadente e raffinata di matrice storicista: barocca o paganeggiante, si incontrano temi di impegno civile – il modernismo in architettura è in fondo la stessa cosa - .

Il suo stile originale e innovativo caratterizza tutta la poesia spagnola fino a Machado, Jmenez, e gran parte della poesia sudamericana fino ad oggi.

Bravi vero!

Folgorati sulla via di Damasco?

Chiudo il pesante librone verde, Giovanna mi porta un caffè, il cielo si carica di pesanti nuvole grigie, guardo mio figlio che scorrazza giù in cortile.

Il vento impazza, sbatte le tende e fa tintinnare le campane di Valldemosa, dietro sulla trave del balcone di casa mia.

Il viaggio continua…..







FINE




















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