Mio padre studiava canto e mia madre lo accompagnava al piano. Io
soffrivo di mal d'orecchi non solo per colpa degli acuti, ma perché le
tonsille erano da togliere. Tolte quelle all'età di quattro anni, aprivo
le orecchie alla musica con nuova sensibilità, come se l'operazione avesse
spazzato via una zavorra di urla indistinte. Ora sentivo tutte le stecche,
che mi facevano l'effetto di un terribile mal di pancia.
Per fortuna c'era il grammofono. Ricordo un Trovatore con Aureliano
Pertile, tre dischi di vinile in un meraviglioso cofanetto duro con sopra
il disegno della Scala. Scoprivo l'esistenza di una lingua misteriosa,
fatta di suoni e priva di senso: il significante senza il significato. Non
sapevo di possedere la chiave del mondo dell'opera. Il segreto era
racchiuso in frasi quali "Ah,l'amor l'amore ond'ardo": cosa mai voleva
dire quell'"ondardo", mi domandavo ogni volta, e ogni volta mi suonava
come una formula magica. Un altro inquietante mistero si celava in "Mal
reggendo all'aspro assalto" che io traducevo in "mareggendo
allasprassato", o in simili stranezze. Ma la perla stava nel finale:
Manrico viene decapitato per volere del conte di Luna , e qui casca l'
asino: "Sia tratto il ceppo" alle orecchie di un bambino suona a dir
poco insolito, quasi esilarante, e l'effetto comico è proprio in quel
ceppo che pare una schioppettata ; ma il bello viene poi, ed è il grido
raccapricciante del conte quando scopre di avere ammazzato il fratello:
"Ei,quale orror". E giù un altro asino: avrei potuto sospettare che si
trattasse di un pronome personale, dal modo in cui lo sparava il baritono
in questione?Quello ti faceva sobbalzare, pareva che urlasse "Hey, che
fai lì, ti togli o no?", o roba del genere . Se ripenso poi al Ballo in
maschera., dal lato sinistro mi viene da piangere, dal destro rido.
Ricordo mio padre che cantava in continuazione quella benedetta romanza, e
ci scappava sempre la nota stonata, mai una volta che l'azzeccasse per
intero. L'aria di Riccardo dell'ultimo atto, "Ma se m'è forza perderti", a
cominciare dal titolo è già tutta un programma. Occorre aggiungere che non
ci capivo un'acca? Sfido un adulto in possesso di media scolarizzazione a
comprendere frasi come "Forse la soglia attinse, e posa alfin" , o "L'onor
ed il dover ne' nostri petti han rotto l'abisso". Io però adoravo quella
romanza, ne amavo le note sublimi , ma ancor più la meravigliosa
incomprensibilità. Me la ripetevo come una cantilena,
forselasogliattinse, eposalfin. Che voleva dire? Non mi piaceva fare
domande, né alcuno si premurava di fornirmi risposte, ma forse è stato
meglio così, perché gradualmente, con gli anni la mia mente si apriva a
nuova comprensione, decifrando la mappa che un giorno doveva condurmi al
tesoro. Eppure si può negare il fascino di quella felice ignoranza dovuta
all'età? Quando lo studio del latino mi ha dischiuso il significato della
parola " attinse" , accanto al grido di esultanza che ne è seguito, un
impercettibile senso di delusione l'accompagnava: ma come, era tutto lì,
la povera Amelia " forse toccò la soglia", nel senso che riuscì ad
arrivare a casa incolume dopo aver trascorso quel po' po' di notte
nell'"orrido campo" insieme a Riccardo-peraltro castamente- ed esser stata
sorpresa, al colmo della sfiga,dal proprio marito! Quasi quasi sarebbe
stato meglio continuare ad ignorarne il significato, perché accade
talvolta che il fascino di certi nomi risieda nel loro puro suono.
Ma torniamo ai fatidici libretti , nei quali il sublime e il ridicolo
trovano un mirabile accordo grazie alla musica. Risento la voce di mio
padre, così approssimativa e a tratti così bella , cantare incessantemente
"Donna non vidi mai simile a questa, a dirle io t'amo a nuova vita l'alma
mia si desta", e sono grata all'imprecisione del suo canto, alla banalità
del libretto, di avermi fatto intravedere al di là di un brutto involucro
le bellezze della poesia. Sì, gli sono riconoscente , a lui e al povero
piano di mia madre, con le sue stecche e la sua inespressività, come lo si
è nei confronti di certe scalcinate compagnie di coristi che ti propinano
d'estate i loro Trovatori e le loro Traviate da suicidio !
Quando ho ricevuto in dono per Natale i dischi della Bohème avevo sei
anni. C'erano la Callas e Di Stefano, non avevo mai udito niente di
simile.
Ho imparato a memoria il libretto, come si fa a scuola con la
"donzelletta" che poi non te la scordi più. E naturalmente non capivo
quasi nulla delle parole, ma la storia sì, perché era semplice come acqua
da bere . La ragazza muore alla fine e lui la chiama tre volte per nome ,
piangendo disperatamente, e la musica è tale da commuovere un serpente a
sonagli. Io piangevo, non mi capacitavo che Mimì dovesse morire. Perché
muore, perché? A questo mio padre sapeva rispondere, questo era un fatto,
non una parola, e in qualche modo aveva a che fare con la vita. E lui ci
teneva a rassicurarmi, Mimì non muore, alla fine si alza e va a
ringraziare il pubblico. Tutte le volte è così.
Io sapevo la Bohème a memoria , mi ripetevo cantando le magiche formule ,
estasiata di fronte a misteri del calibro di quel "mar Rosso che
ammollisce e assidera" , dei "cieli bigi", di " quel poltrone di un
vecchio caminetto che sta in ozio come un gran signor", e "le sue rendite
oneste da un pezzo non riceve". Ma a gonfiarmi il cuore, a farmi volare
in alto era il finale della " Manina " : "Talor del mio forziere ruban
tutti i gioielli, due ladri gli occhi belli ; v'entrar con voi pur ora,
ed i miei sogni usati, ed i bei sogni miei si dileguar" ; "ma il furto
non m'accora, poiché v'ha preso stanza la speranza" . A queste parole di
Rodolfo Mimì cade come una pera cotta. E questo può succedere solo
all'opera , perché di fronte a tali assurdità , a simili metafore una
ragazza normale si precipiterebbe fuori gridando aiuto. Ma lei no, lei
dolce e mansueta risponde " Sì, mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia"
. Poi alla fine, dopo avergli raccontato che il suo svago è "far finti
fior", spiega che "quando vien lo sgelo il primo sole mio, il primo bacio
dell'april è mio" ; ma ciò che veramente l'accomuna a Rodolfo è quel
"Germoglia in un vaso una rosa, foglia a foglia l'aspiro, così gentil è il
profumo di un fior". E aggiunge: "Ma i fior ch'io faccio,ahimè, i fior
ch'io faccio, ahimè non hanno odore" . Il che va perfettamente d'accordo
col forziere dei sogni di lui: siamo di fronte a due perfetti
squinternati, due tipi da rinchiudere insieme alle loro rose e ai loro
gioielli. Ma per fortuna i matti e i poeti sono di casa all'opera, e ciò
che pare strano è normale, e il normale esiste solo quando è profondamente
umano.