E’ possibile una metafisica come scienza?

Saggio sulla Critica della ragion pura di Immanuel Kant

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.      Premessa

Nella Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 e in un articolo sulla rivista di Königsberg, del 27 marzo del 1777, Kant espone il proprio punto di vista riguardo all’importanza che la cultura ha nella vita di ogni individuo, importanza evidente se e solo se ci si rende conto che la cultura non serve esclusivamente come mezzo che permette all’uomo di passare dallo stato animale allo stato civile, ma essa è innanzitutto uno strumento attraverso il quale viene data all’uomo la possibilità di scoprire e, quindi, anche realizzare e concretizzare nella vita di tutti i giorni, quei talenti che sono propri della sua natura.

«La cultura», egli scrive, «eleva sì la nostra natura animale all’umanità, ma occorre non lavorare in senso contrario alla natura, come avviene nelle scuole dei paesi civilizzati d’Europa, dove si seguono supinamente vecchie abitudini di epoche ignoranti e dove si è ben lontani dal far compiere all’uomo il bene cui la natura l’ha disposto»[1]. «… la conoscenza, nelle sue manifestazioni più sottili, è piuttosto un ornamento che un requisito necessario della vita. In una condizione civile assai raffinata essa diviene, però, un mezzo ineliminabile di progresso e quindi un bisogno. L’insegnamento pubblico dovrà dunque conformarsi alla natura»[2] umana e, nello stesso tempo, conformarsi alla società civile dell’ambiente esterno. «Occorrerà avviare i giovani alle forme più sistematiche del sapere muovendo dai giudizi intuitivi dell’esperienza [e], soprattutto in filosofia, l’unico metodo possibile da seguire è quello … [della] ricerca, quello cioè che insegna non [una serie infinita di] pensieri, ma solo a pensare»[3].

Il nucleo di tutta la filosofia kantiana e le risposte che egli dà all’interno della Critica, infatti, si basano tutte su quest’ultimo concetto, perché il suo unico scopo non è mai stato quello di insegnare filosofia o storia della filosofia, il vero fine kantiano è sempre e soltanto quello di insegnare a filosofare. Si tratta di porre in primo piano il metodo rispetto ai contenuti: esso deve precedere ogni scienza, non in quanto tende ad estendere la conoscenza, ma piuttosto come strumento in grado di delimitare la sfera di competenza di ogni scienza, poiché ha la forza di abbattere il più grande nemico dell’intelletto umano, l’errore: reprime la tendenza ad ampliare la conoscenza umana, senza che sia prima fondata. E proprio questo concetto lo troviamo esplicitamente nel suo scritto del 1784, Risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo»[4]. Per l’Illuminismo, come sappiamo, la ragione rende gli uomini eguali e li avvia verso stagioni felici di progresso e libertà, ma, nello stesso tempo, si presenta come la facoltà dominante dell’uomo, fondata sulla sua sola forza, senza il ricorso a valori o fondamenti ad essa estranei. Per Kant, invece, la filosofia non è altro che la realizzazione più coerente dello spirito dell’Illuminismo, che consiste nel pensare da se stessi, liberamente, usando in modo personale e intransigente la propria facoltà conoscitiva. La sua filosofia è interamente tesa ad adempiere lo spirito dell’Illuminismo come definitiva «maggiore età» dell’uomo, raggiunta tramite un uso libero e autonomo del proprio intelletto. Convinzione kantiana, più volte ripresa ed espressa all’interno della Critica, è che per rispondere ad ogni domanda che l’uomo, in quanto essere pensante, si pone, non bisogna occuparsi di filosofia, o metafisica (che è la filosofia suprema), né studiare la storia di tutto il pensiero metafisico dall’origine dei tempi ad oggi, né, tanto meno, fondare una nuova ontologia; bisogna, invece, che la ragione diventi giudice di se stessa e si autocritichi. In quanto Kant riflette in modo nuovo sulla filosofia dell’Illuminismo, egli studia la ragione umana da una diversa angolazione e pone, così, alcuni problemi di base: primario è quello della validità della ragione.

L’uomo non possiede strumenti più elevati della ragione dal punto di vista della conoscenza e della fondazione delle idee. L’unico strumento che l’uomo possiede per esaminare la validità della ragione è la ragione stessa. Per questo motivo Kant ritiene che compito della sua ricerca filosofica sia quello di condurre la ragione davanti al tribunale di se stessa per determinare la capacità e i limiti della sua azione.

Essa deve istituire un processo, analizzare i propri limiti e le proprie capacità, giustificare le proprie pretese di validità riguardo ad una conoscenza al di là dell’esperienza, addurre prove e alla fine pronunciare un verdetto.

E’ in questo modo, nuovo e imprevisto, che Kant tiene fede alla sua preoccupazione di sempre: alla preoccupazione di salvaguardare, contemporaneamente, le forme concettuali a priori dell’intelletto e la materia fenomenica oggetto d’esperienza. La conoscenza oggettiva, cioè valida per tutti, non è altro che una sintesi tra le funzioni puramente analitiche dell’intelletto umano e l’oggetto del tutto materiale dell’esperienza. Il solo modo, infatti, di accertare l’oggettività di un dato, è quello di formalizzarlo, cioè di trasformare i dati dell’esperienza in rapporti formali.

Ogni conoscenza umana non può sussistere senza l’apporto delle sue due fonti originarie: sensibilità e intelletto. Esse dipendono reciprocamente l’una dall’altra, ma nessuna delle due è da anteporre all’altra. «I pensieri senza contenuto», scrive Kant, «sono vuoti, e le intuizioni senza concetti sono cieche»[5]. Ciò vuol dire che senza la sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato e senza l’intelletto nessun oggetto verrebbe pensato, e che i pensieri, senza l’apporto della sensibilità, sono vuoti, e le intuizioni sensibili, senza l’apporto dei concetti intellettuali, sono cieche.

E’ necessario tanto rendersi i concetti sensibili, cioè aggiungervi l’oggetto dell’intuizione, quanto rendersi intelligibili le intuizioni, cioè ridurle sotto concetti.

Da ciò è evidente che nel riconoscimento della sensibilità Kant dà ragione alla ragione di fondo dell’empirismo, secondo la quale la conoscenza umana è ancorata a qualcosa di pre-dato, e rigetta un razionalismo puro; nell’idea della necessità dell’intelletto Kant dà invece ragione al punto di vista del razionalismo, secondo il quale non è possibile alcuna conoscenza senza il pensiero, e critica con ciò l’empirismo puro.

Dunque, per rivelare la struttura e l’intera costruzione, cioè l’impalcatura, di questa sintesi c’è necessariamente bisogno di una Critica della ragion pura, in cui soggetto e oggetto della critica, intesa come rifiuto di ogni dogmatismo e analisi dei limiti e delle possibilità del sapere umano, è la stessa ragione pura, cioè l’insieme delle facoltà conoscitive pure, assolutamente a priori perché ad esse non è mescolato nulla di empirico.

Bisogna che la ragione rifletta la sua luce: la ragione deve indagare se stessa per poi essere in grado di definire le modalità e i limiti delle conoscenze che può produrre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.      Il problema dei limiti del sapere umano

In realtà, il problema dei limiti della conoscenza umana, non è propriamente una novità introdotta da Kant, ma è piuttosto una tendenza largamente diffusa nel secolo XVIII. Secolo che è stato denominato come l’epoca della ragione, ma non ragione intesa come ente supremo, unico in grado di aumentare il sapere umano tramite i propri meccanismi e rapporti interni, bensì, in questo caso, il termine viene utilizzato per indicare una ragione largamente impegnata a determinare i propri limiti e, soprattutto, a evitare di oltrepassarli.

Prima ancora di parlare della filosofia kantiana, anzi, proprio per introdurre e rendere più comprensibile la nascita e gli sviluppi di tutto il pensiero kantiano, sembra lecito iniziare con un excursus che ci permette di vedere con chiarezza, come fossero state stese su un piano, le differenti soluzioni apportate circa questo problema da svariati filosofi; questo vuole essere proprio un elenco delle concezioni filosofiche riguardo alla possibilità o impossibilità da parte di ogni individuo di ottenere una conoscenza scientifica e dimostra quanto, in verità, Kant sia stato uno dei primi filosofi, se non il primo in assoluto, a tentare una conciliazione tra la conoscenza empirica e la conoscenza intelligibile.

Il filosofo inglese John Locke (1632-1704) sottolinea più volte la debolezza della nostra conoscenza e dunque l’inevitabile ignoranza dell’uomo dovuta alla limitatezza delle sue facoltà. L’unica vera conoscenza che l’uomo è in grado di possedere è esclusivamente una conoscenza sperimentale.

Isaac Newton (1642-1727) distingue nettamente le conoscenze basate sull’osservazione empirica e le conoscenze metafisiche non verificabili: «dei corpi materiali», scrive Ciafardone spiegando il pensiero newtoniano, «ci è possibile conoscere soltanto le qualità sensibili, mentre la loro intima natura ci rimane assolutamente sconosciuta»[6].

David Hume (1711-1776) parla chiaramente di una “filosofia scettica”, la quale è in grado di tracciare i limiti dell’intelletto umano in cui è circoscritta la sola esperienza sensibile, e attribuisce a istinti originari la nostra pretesa di affermare l’esistenza di una causa ultima, pretesa che ci offre il quadro di un sapere completo inteso soltanto come mera immaginazione. Una filosofia come scienza, ossia, una conoscenza scientifica è solo una chimera e l’unica vera soluzione per l’uomo è quella di accontentarsi di una conoscenza empirica e imprecisa, cioè una conoscenza apparente che può essere analizzata tramite il solo utilizzo dei sensi.

Pierre Bayle (1647-1706) considera la ragione umana in senso negativo, affermando che essa è adatta solamente a sollevare dubbi, capaci di rendere consapevole l’uomo della sua impotenza. Dunque essa è soltanto un princípio di distruzione anziché di edificazione che insegna all’uomo, come in Hume, ad accontentarsi di un sapere probabile e a rinunciare ad ogni conoscenza universale e necessaria.

Voltaire (1694-1778) afferma che la pretesa umana di voler sorpassare i limiti della propria natura conduce solo in spazi immaginari; egli sottolinea che la vera filosofia consiste proprio nel sapersi arrestare di fronte ai propri limiti. Ed anche in Voltaire ritroviamo la parola “accontentarsi”: bisogna accontentarsi del sapere che ci deriva dalla sola esperienza, perché non possediamo nessuno strumento adatto allo studio dei meccanismi interni al nostro intelletto, «i nostri sensi sono le porte per le quali entrano nel nostro intelletto tutte le nostre idee»[7], ma i suoi ingranaggi ci sono totalmente sconosciuti.

Étienne-Bonnot de Condillac (1715-1780) «giudica i metafisici “come bambini che immaginano di poter toccare il cielo con la mano all’estremo limite della pianura”»[8]; la nuova metafisica di cui egli parla deve scrupolosamente rimanere all’interno dei propri limiti cercando soltanto di vedere le cose come sono in realtà.

Christan Thomasius (1655-1728) esprime un criterio filosofico che spiega, senza bisogno di altri chiarimenti, tutta la sua concezione riguardo al problema dei limiti della conoscenza umana: per il filosofo di Halle, infatti, «ciò che l’intelletto umano conosce con i sensi è vero; ciò che è contrario ai sensi è falso»[9].

Andreas Rudiger (1673-1731) afferma che la filosofia, in quanto scienza empirica, deve rifiutare quella rigorosa scientificità che è propria della matematica e che, proprio per questo, le dà il titolo di scienza assoluta.

Christian August Crusius (1715-1775) osserva con naturalezza che l’intelletto umano è limitato, noi siamo finiti e di conseguenza non possiamo pretendere di estendere i nostri giudizi al di là della nostra natura; l’unico essere che davvero possiede una conoscenza illimitata è Dio.

Da questi brevi riassunti del pensiero del Secolo XVIII si evince chiaramente che il nucleo centrale ed irrisolvibile per questi filosofi è la netta distinzione tra la conoscenza sensibile, unica possibile per l’uomo, in quanto dotato di una ragione finita, e la conoscenza dell’essenza del sensibile o del sovrasensibile, intesa come conoscenza del tutto impossibile, cioè completamente fuori dai canoni della ragione umana.    

Kant, invece, inizia proprio un disegno del tutto nuovo, egli vuole determinare la possibilità, i princípi e l’ambito di tutte le conoscenze pure o a priori, cioè compie l’operazione decisiva per dimostrare la validità di gran parte del sapere metafisico ed apre così la strada alla metafisica come scienza, ovvero come una disciplina disposta a ricevere una stabilità tale da essere paragonata, o comunque equilibrata, posta cioè sullo stesso piano delle scienze matematiche e fisiche.

 

 

 

3.      Le due edizioni della Critica della ragion pura

La prima edizione della Critica della ragion pura, quella del 1781, fu scritta in pochi mesi, e lo stesso Kant, scrivendo a Mendelssohn nel 1783, riferisce: «Condussi a termine il prodotto di una riflessione di uno spazio di tempo di almeno dodici anni in quattro o cinque mesi, quasi di volo, sia pur ponendo una grande attenzione al contenuto, ma poco alla forma»[10].

Nella Prefazione egli scrive che la ragione umana è tormentata da problemi che oltrepassano ogni suo potere, e che tuttavia sono inevitabili, dal momento che sono posti dalla sua stessa natura. La ragione pretende di oltrepassare ogni possibile uso empirico: in tal modo, il campo di lotte e battaglie senza fine che si apre è la metafisica.

A questo punto Kant abbozza una cronistoria di questa disciplina. In princípio, sotto il regno della filosofia dogmatica, la filosofia esercitava un dominio assoluto. Poi però il regno passò in mano agli scettici. E con loro le cose cambiarono. Quando gli scettici si impossessarono del regno della metafisica lo trasformarono in una deprecabile anarchia.

Eppure, Kant sottolinea che invano si può fingere indifferenza nei confronti di essa: anche coloro che fingono un tale atteggiamento, ogni volta che pensano qualcosa per davvero, cadono irrimediabilmente in affermazioni che hanno a che fare con la metafisica.

Ecco che allora una nuova possibilità sorge per la filosofia: il coraggio di sapere; coraggio che può nascere solo con l’istituzione di quel tribunale in grado di garantire alla ragione le sue legittime pretese, condannando una volta per tutte, senza possibilità di inutili appelli, quelle prive di ogni fondamento. In tale tribunale la ragione è giudice di se stessa ed ha il compito di stabilire i territori sui quali le sue pretese di governo e di dominio sono davvero giustificate.

Se il tribunale è dunque la critica che la ragion pura opera su se stessa, ecco che la metafisica viene ad acquisire un significato nuovo, naturalmente ben lontano dalle speranze “iperfisiche” che in essa riponevano i dogmatici, per i quali tale scienza supera i limiti di ogni esperienza possibile, ma certo un significato non privo di legami con il proprio passato.

Il termine metafisica è quindi adoperato da Kant almeno in una triplice accezione:

1)      disciplina che studia i problemi che trascendono ogni esperienza possibile;

2)      disciplina che ricerca e indaga i limiti della ragione umana;

3)      disciplina che studia i princípi a priori che costituiscono il fondamento di ogni sapere e ogni scienza.

Secondo la Prefazione del 1781, la Critica si rivolge, nell’intento di Kant, a un pubblico di dotti e di specialisti: non era dunque la popolarità quanto stava a cuore a Kant, bensì l’inaugurazione di una “scienza effettivamente fondata” per il bene dell’umanità.

La seconda edizione, quella che si legge abitualmente, vide la luce nel 1787; in essa sono evidenti diverse variazioni al testo originario:

-         furono ampliate l’Introduzione e l’Esetica trascendentale;

-         furono rielaborate le pagine relative alla Deduzione trascendentale delle categorie;

-         venne in parte riscritto il capitolo sulla distinzione tra fenomeno e noumeno;

-         venne ridotto il capitolo dei paralogismi della Dialettica trascendentale.

Oltre a queste differenze concernenti la struttura architettonica dell’opera, in essa Kant si pone esplicitamente la domanda: esistono discipline che possono aspirare al nome di scienze? Kant è ben convinto di sì, e ne identifica tre: la logica tradizionale, la matematica e la fisica.

La logica aristotelica fin dai tempi antichi ha seguito la via della scienza, senza dover mai retrocedere. Oggetto della logica sono le regole formali di tutto il pensiero, nel suo uso a priori o empirico; in quanto tale, essa si presenta come una sorta di propedeutica alle altre scienze, ossia come un vero e proprio vestibolo dell’edificio del sapere.

I campi di pertinenza della ragion pura, invece, sono due: la conoscenza teoretica, cioè la matematica, che ha il compito di determinare il proprio oggetto, e la conoscenza pratica, ossia la fisica, o meglio ancora la filosofia della natura fondata su princípi empirici, con il compito di condurre a realizzazione il proprio concetto. In entrambe, la “grande luce” che ha consentito alle loro scoperte di trovare conferma e di progredire deriva dalla consapevolezza che è l’io ad aver costruito un qualcosa; la nostra ragione, infatti, può conoscere scientificamente solo ciò che essa stessa produce con i propri giudizi; e proprio per questo tale realtà ha validità universale.

In definitiva, Kant colloca la propria ricerca alla confluenza di due tradizioni di pensiero: quella razionalistica (dogmatismo), per la quale la ragione è in grado di edificare da sé, senza ricorso all’esperienza, un sapere ben fondato e inconcusso, e quella empiristica (scetticismo), per la quale la ragione si muove all’interno dei limiti imposti dall’esperienza, che le fornisce tanto i materiali della conoscenza quanto la forma o i criteri per connetterli.

Affinché la Critica faccia da baricentro tra la conoscenza pura e la conoscenza empirica, la filosofia necessita di una scienza delle conoscenze a priori, che stia ben al di sopra sia della conoscenza puramente razionale che della conoscenza strettamente empirica, e nello stesso tempo sia in grado di fonderle insieme in un tutt’uno, compatto e ben strutturato, e di conseguenza necessario ed universale.

 

 

 

 

         

4.      La definizione di “Metafisica” in Kant e la sua “Rivoluzione copernicana”

La metafisica, dunque, non è altro che il prototipo della conoscenza pura e la Critica è una propedeutica al sistema della ragione. E’ una scienza che giudica la ragione pura in quanto scaturiscono da essa certe conoscenze, e ricerca le fonti di queste conoscenze delimitandone i limiti; indaga cioè se le conoscenze empiriche possono essere applicate solo agli oggetti sensibili o anche a quelli sovrasensibili. Essa non è la dottrina della ragione pura, ma una critica di essa; ossia suo oggetto non è la scienza delle conoscenze razionali pure, ma soltanto l’esame della fonte da cui queste conoscenze scaturiscono. Per questa sua funzione restrittiva la critica è da Kant definita “la dottrina del metodo”: per il filosofo di Königsberg la Critica non è ontologia, fisiologia, cosmologia, teologia, non è cioè una metafisica, ma piuttosto un’opera di metodologia, anzi, più esattamente di metodologia della metafisica. Inoltre è da notare che l’indagine su come siano possibili una matematica pura e una fisica pura non è fine a se stessa, ossia non mira a una fondazione filosofica di queste due scienze, ma viene intrapresa da Kant soltanto perché essa è ritenuta indispensabile per la soluzione della questione che sta veramente a cuore a Kant: se la metafisica sia possibile come scienza.

Kant, insomma, effettua, in metafisica, una rivoluzione copernicana tramite la trasposizione del problema all’interno dell’indagine filosofica: «La situazione al riguardo è la stessa che si è presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché la spiegazione dei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a che egli sosteneva che tutto quanto l’ordinamento delle stelle ruotasse attorno allo spettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio, quando egli facesse ruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle. Nella metafisica, orbene, si può fare un analogo tentativo, per quanto riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione dovesse conformarsi alla struttura degli oggetti, io non riesco allora a vedere, come di essa si potrebbe sapere qualcosa a priori; ma se l’oggetto (in quanto oggetto dei sensi) si conforma alla struttura della nostra facoltà di intuizione, io posso allora rappresentarmi benissimo questa possibilità»[11]. Allo stesso modo di Copernico, che ha effettuato un rovesciamento di prospettiva scientifica, studiando il mondo non dal luogo dello spettatore (la terra), ma dal sole; così Kant respinge, in quanto inadeguata, la prospettiva realistica, secondo cui l’oggetto determina la rappresentazione, e formula l’ipotesi che questa preceda e renda possibile quello. Egli non intende mostrare “come noi conosciamo gli oggetti”, il fulcro del suo punto di vista  si sposta dall’oggetto al soggetto, ed indaga così “il nostro modo di conoscere gli oggetti sensibili”. In quanto, secondo Kant, non siamo noi che dobbiamo adeguarci agli oggetti dell’esperienza e dedurne concetti, sono invece gli oggetti stessi che devono regolarsi sulla nostra conoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.      Introduzione della Critica della ragion pura

L’opera ha inizio, nell’Introduzione, con una frase-chiave che serve a Kant per restare, inizialmente, ancora legato alle precedenti concezioni filosofiche circa la finitezza del sapere umano e il suo trarre “vera conoscenza” solo dall’esperienza, ma gli serve anche per costruire lentamente il suo distacco da esse e dimostrare la possibilità di una mediazione tra l’empirismo e il razionalismo.

Egli vuol dimostrare che pur accettando il limite imposto alla ragione dall’esperienza, da quest’ultima proviene essenzialmente la materia della conoscenza. Senza un “dato”, qualcosa di provato e proveniente dall’esterno, la ragione non può conoscere alcunché; ma le regole di connessione e strutturazione, che danno la forma a detto materiale, non possono venire dall’esperienza stessa, ma solo dalla ragione, la quale ha in sé la forma e il metodo della costruzione del sapere.

Kant esordisce dunque così: «Non c’è dubbio che ogni conoscenza incomincia con l’esperienza»[12]. Questa è ciò che stimola la nostra facoltà conoscitiva, in quanto, per un verso, sono gli oggetti che danno origine a rappresentazioni e muovono l’attività del nostro intelletto perché le elabori e giunga alla conoscenza degli oggetti, cioè all’esperienza. «Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza»[13]. Infatti la nostra conoscenza è un composto tra un elemento materiale (la realtà sensibile) e un elemento formale (ciò che la nostra facoltà di conoscere vi aggiunge da sé). Usando termini kantiani: la nostra conoscenza è un composto tra conoscenza a posteriori (ha origine dall’esperienza) e conoscenza a priori (prescinde o precorre l’esperienza).

Essa produce i suoi frutti tutte le volte che le sue affermazioni consistono in giudizi, e sapendo che un giudizio è l’attribuzione di un predicato a un soggetto, Kant ci specifica che tale rapporto può essere di due specie: analitico a priori e sintetico a posteriori.

«In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato, codesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B si trova interamente al di fuori del concetto A; sebbene stia in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico»[14]. Il giudizio analitico a priori è dunque quel giudizio in cui il predicato esprime qualcosa che viene già espressa nel concetto del soggetto (es. tutti i corpi sono estesi) ed è a priori perché «la connessione del predicato col soggetto viene pensata per identità»[15]. Esso non accresce la conoscenza, ma analizza il concetto “generale” nei suoi concetti “parziali”, e “si potrebbe anche chiamarli esplicativi”. Il giudizio sintetico a posteriori, invece, è un giudizio in cui il predicato esprime qualcosa che non è espresso nel concetto del soggetto, ma aggiunge “al concetto del soggetto un predicato che in quello non era punto pensato, e non era deducibile con nessuna analisi” (es. tutti i corpi sono pesanti), quindi aumenta la conoscenza, è “estensivo”, ed è a posteriori in quanto il predicato è legato al soggetto grazie all’esperienza, e non in base al princípio di identità.

I razionalisti (Leibniz) accettano il carattere analitico della conoscenza e considerano i giudizi analitici a priori gli unici giudizi certi, perché sono fondati su idee certe, in quanto a priori, cioè innate; ma nello stesso tempo sono giudizi sterili, perché la conoscenza dispiegata non aggiunge sostanzialmente nulla al contenuto dell’idea originaria.

Gli empiristi (Hume), invece, accettano il carattere sintetico della conoscenza, in quanto la ragione umana può avere una fertile conoscenza soltanto perché formula giudizi sintetici: cioè giudizi formulati dopo aver raccolto le informazioni necessarie dal mondo esterno, in un processo incessante di accrescimento del patrimonio della ragione. Allo stesso tempo, però, il giudizio sintetico a posteriori è incerto, perché i rapporti tra le idee non sono derivati da princípi certi (come accade per i giudizi analitici dei razionalisti), ma sono posti dal soggetto sulla base delle osservazioni empiriche.

Kant ritiene che la sterilità del giudizio analitico a priori e l’incertezza del giudizio sintetico a posteriori siano superabili attraverso un affiancamento dei concetti positivi di entrambi i giudizi. Infatti, egli ritiene con gli empiristi che il contenuto del pensiero possa derivare dall’oggetto reale della conoscenza, attraverso l’esperienza, completamente estraneo al soggetto; ma ritiene anche, con i razionalisti, che l’attività del pensare non possa che essere propria di un soggetto del tutto indipendente dalle cose. Ed egli definisce un simile giudizio sintetico a priori.

Ora, un esame della conoscenza razionale pura, e della metafisica che ne è per definizione e storicamente l’esempio più grande, non può essere dunque che un esame di tutta la nostra conoscenza possibile solo come conoscenza sintetica a priori; cioè come conoscenza che comprende gli elementi empirici dell’esperienza ma è, nello stesso tempo, fondata razionalmente, in cui cioè il predicato non è compreso nel concetto del soggetto ma è collegato ad esso in modo universale e necessario, dunque a priori, e si basa sull’esperienza, quindi è sintetica, perché è l’unica che accresce la nostra conoscenza.

C’è però un problema. Perché un giudizio sia sintetico deve essere costruito dal soggetto dopo l’esperienza, perché la sintesi è appunto sintesi di esperienze. Come può allora un giudizio sintetico essere allo stesso tempo a priori, cioè fondato su un criterio di validità del tutto indipendente dall’esperienza?

Ecco dunque il primo vero problema della ragion pura: come sono possibili i giudizi sintetici a priori?

L’esistenza di tali giudizi ci viene testimoniata dalla matematica e dalla fisica. I giudizi della matematica sembrano apparentemente analitici, infatti «a prima vista si dovrebbe pensare che la proposizione 7 + 5 = 12 sia una proposizione semplicemente analitica, […]. Ma se si considera la cosa più da vicino, si trova che il concetto della somma 7 e 5 non racchiude altro che l’unione dei due membri in uno solo, […]. Il concetto di dodici non è punto pensato già pel fatto che io penso semplicemente quella unione di sette e di cinque, io posso analizzare quanto voglio il mio concetto di una tal somma possibile, ma non vi troverò il dodici. […]. La proposizione aritmetica è, dunque, sempre sintetica»[16], perché il risultato della somma contiene qualcosa che non è presente nei singoli numeri della somma stessa. E sono a priori perché non si basano sull’esperienza. Invece, i giudizi della fisica sono sintetici perché l’idea di permanenza non è contenuta nel concetto di materia, infatti «il mio concetto di retta [che sia la più breve fra due punti] non contiene niente di quantità, ma solo qualità»[17], e sono a priori, cioè universali e necessari, perché nei giudizi sui cambiamenti del mondo la quantità della materia resta invariata.

Rispetto alla matematica e alla fisica, la loro esistenza di fatto, in quanto discipline scientifiche, non è da Kant posta in discussione; diverso è il caso della metafisica: la questione, in questo caso, è se essa sia possibile come scienza.

La metafisica, osserva Kant, di fatto esiste: esiste in quanto disposizione naturale, in quanto tendenza ineliminabile della ragione nel tentare la risposta a problemi fondamentali quali l’esistenza di Dio, la libertà, l’immortalità dell’anima. Nell’affrontare questi problemi la ragione tende a sbarazzarsi dei vincoli imposti dall’esperienza, bisogna dunque tracciare una nuova via, occorre che la metafisica giustifichi la sua pretesa a costituirsi come scienza e che la ragione si ponga come imputata e nello stesso tempo come giudice nel tribunale da lei stessa istituito al fine di tutelare le sue giuste pretese e mostrare la legittimità dei propri giudizi sintetici a priori.

 

 

 

6.      Estetica trascendentale

Questa “ricerca” comporta l’adozione di un nuovo sistema filosofico, definito da Kant “trascendentale”: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori»[18]. Trascendentale si oppone a empirico, perché si riferisce a ciò che non ha origine dall’esperienza sensibile; si oppone anche, però, a trascendente, perché indica una modalità di conoscere che, pur essendo a priori, si realizza solo in rapporto con l’esperienza. “Trascendentale”, in conclusione, indica non un contenuto, ma una forma del conoscere: l’insieme di elementi a priori che rende possibile una conoscenza oggettiva.

Con l’Estetica trascendentale Kant dà inizio alla sua ricerca critica: «Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i princípi a priori della sensibilità. Deve esserci una tale scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i princípi del pensiero puro, e vien denominata logica trascendentale»[19].

Noi conosciamo gli oggetti grazie alla sensibilità che si fonda sull’intuizione; poiché l’intuizione si riferisce all’oggetto, parliamo di intuizione empirica, che ha per oggetto il fenomeno. Quest’ultimo è il prodotto risultante dai dati della sensibilità e da certe “forme a priori” che ordinano tali dati in una unità oggettiva. I concetti dell’intelletto non esprimono mai la “cosa in sé”, essi non sono altro che forme unificatrici dei dati della sensibilità.

«Nel fenomeno, io chiamo materia ciò che corrisponde alla sensazione [che deriva a posteriori dall’esperienza], ciò invece, per cui il molteplice del fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti, chiamo forma del fenomeno»[20].

Ora, se dall’intuizione empirica astraiamo la materia, rimane la forma, che costituisce l’intuizione pura, cioè la forma a priori della sensibilità. Kant prosegue spiegando che «… vi sono due forme pure dell’intuizione sensibile, come princípi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo»[21].

Di queste forme pure Kant ne dà un’esposizione metafisica ed una trascendentale. Nell’esposizione metafisica egli dimostra che spazio e tempo, intese come forme a priori, cioè come condizioni trascendentali della conoscenza sensibile, non sono realtà in sé, ma rappresentazioni a priori, che si presentano come lo strumento dell’attività del conoscere che permette al soggetto di ordinare coerentemente le informazioni sparse che gli provengono, senza un ordine particolare, dal mondo esterno. E tutto questo è possibile solo in quanto spazio e tempo non hanno carattere di concetto, bensì di intuizione.

Più esattamente, «lo spazio abbraccia tutte le cose che possono apparirci esternamente»[22], il tempo invece «non appartiene agli oggetti stessi, ma semplicemente al soggetto che li intuisce»[23]. Non sono dunque concetti empirici, ma intuizioni pure, «forme pure di tutte le intuizioni sensibili, e così rendono possibili proposizioni sintetiche a priori»[24].

Lo spazio è la forma a priori del senso esterno. Esso fa sì che i dati del senso esterno si dispongano secondo l’ordine della vicinanza, lontananza e sovrapposizione. L’intuizione pura dello spazio non proviene dall’esperienza, ma condiziona l’esperienza sensibile esterna ed è ciò che rende possibile la scienza geometrica.

Il tempo, al contrario, è la forma a priori del senso interno. Esso fa sì che i dati del senso interno si dispongano secondo l’ordine della coesistenza e della successione. L’intuizione pura del tempo rende possibili i giudizi dell’aritmetica e della meccanica.

Nonostante queste due forme a priori sembrino avere funzioni ben distinte l’una dall’altra, tuttavia, nel caso del tempo, vi è un’ulteriore considerazione: ogni rappresentazione, ogni intuizione anche di oggetti esterni, costituisce una modificazione interna del soggetto, ed è quindi temporalmente ordinata; perciò Kant può dire che il tempo è condizione formale a priori non solo dei fenomeni interni, ma di tutti i fenomeni: solo attraverso il tempo possiamo arrivare al senso esterno e solo attraverso l’ausilio di entrambi possiamo conoscere la realtà sensibile.

Si noti dunque che ad una prima lettura circa l’esposizione kantiana dello spazio e del tempo sembra che una certa supremazia va riconosciuta al secondo: «Lo spazio», scrive Kant, «essendo la forma pura di tutte le intuizioni esterne, è limitato, come condizione a priori, ai soli fenomeni esterni. Invece, poiché tutte le rappresentazioni – [non importa che] abbiano o no oggetti esterni – pure in se stesse, quali modificazioni dello spirito, appartengono allo stato interno; e poiché questo stato interno rientra sotto la condizione formale dell’intuizione interna, e [quindi] del tempo; così il tempo è condizione a priori di ogni fenomeno in generale; [e più precisamente è la] condizione immediata dei fenomeni interni (dell’anima nostra) e mediatamente anche degli esterni»[25].

Tuttavia è sbagliato considerare il tempo più importante dello spazio. Giacché, se è vero che senza il tempo non avremmo affatto coscienza delle cose nello spazio, è altrettanto vero che senza lo spazio non ci sarebbe dato nulla di cui avere coscienza e quindi si eliminerebbe il senso interno, tempo compreso.

Nell’esposizione trascendentale Kant sottolinea che spazio e tempo sono validi oggettivamente: senza di essi non possono esserci oggetti né dell’intuizione esterna né di quella interna e, di conseguenza, neanche dell’intera conoscenza oggettiva. Nonostante tutte le apparenze, però, ciò non vuol dire che spazio e tempo sussistono di per sé, anzi, essi, in quanto forme a priori, non sono sostanze, ma le condizioni indispensabili perché gli oggetti ci possano apparire per quello che realmente sono. In definitiva, essi sono in grado di effettuare quella mediazione che Kant stesso cerca di operare all’interno di tutta la Critica: tra soggetto e oggetto, senso interno e senso esterno, razionalismo ed empirismo, e rendono così possibile una conoscenza sintetica a priori.

La tesi kantiana, come è evidente, contraddice palesemente l’esperienza comune: per quest’ultima lo spazio e il tempo esistono come realtà oggettive indipendenti dall’attività di conoscenza del soggetto. Il mondo ci appare costituito secondo coordinate spazio-temporali e dentro questo mondo la persona umana agisce e conosce: e così tutto permarrebbe costante e seguirebbe il suo oggettivo corso anche se non ci fosse alcun soggetto conoscente. L'analisi critica, invece, ci dice che noi non possiamo percepire nulla se non nello spazio e nel tempo, questi non sono dei fenomeni tra i fenomeni, ma ciò che permette ai fenomeni di essere per il soggetto secondo un certo ordine. Ordine posto dal soggetto all’oggetto; in quanto conoscere sensibilmente significa spazializzare e temporalizzare i fenomeni. Dunque, lo spazio e il tempo non sono forme delle cose, ma modi della recettività del nostro animo. La sensibilità, infatti, non riflette più o meno confusamente le cose che influenza; al contrario, essa esprime soltanto il modo in cui è influenzata. Di conseguenza, avendo spazio e tempo rapporto con la recettività delle nostre impressioni, essi «si riferiscono agli oggetti, solo in quanto questi sono considerati come fenomeni, ma non rappresentano cose in sé. Solo quelli sono il campo della loro validità, fuori della quale, ove se ne esca, non c’è più uso oggettivo di essi»[26].

Tuttavia, la nostra conoscenza non si ferma alla sensibilità, che è passività e recettività; essa è anche pensiero, cioè attività, spontaneità. Se noi chiamiamo sensibilità la capacità del nostro spirito a ricevere rappresentazioni, l’intelletto è invece la facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della conoscenza.

Dunque: «La nostra conoscenza scaturisce da due fonti principali dello spirito: … la facoltà di ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), … [e] quella di conoscere un oggetto mediante queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per la prima un oggetto ci è dato; per la seconda esso è pensato […]. Intuizioni e concetti costituiscono, dunque, gli elementi di ogni nostra conoscenza. […]. E’ quindi necessario tanto rendersi i concetti sensibili (cioè aggiungervi l’oggetto nell’intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti). […]. Per questo noi distinguiamo la scienza delle leggi della sensibilità in generale, l’estetica, dalla scienza delle leggi dell’intelletto in generale, la logica»[27].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7.      Logica trascendentale, Analitica dei concetti

La Logica trascendentale, come studio delle forme a priori del pensiero, si divide in due parti: Analitica trascendentale (a sua volta suddivisa in Analitica dei concetti e Analitica dei princípi) che ha il compito di analizzare le forme a priori dell’intelletto al fine di mostrare la possibilità di una conoscenza scientifica della natura ed è legata all’intelletto; e Dialettica trascendentale che esamina le contraddizioni in cui si avvolge la ragione nel momento in cui pretende di estendere le proprie conoscenze al di là del mondo dell’esperienza ed è legata alla ragione.

Dunque, la Logica trascendentale indaga come sia possibile che i concetti puri del pensiero non siano vuoti, ma si pongano in relazione con gli oggetti reali.

Fin dall’inizio dell’Analitica l’intento di Kant, così come all’inizio dell’Estetica trascendentale, è quello di spiegare il titolo e l’argomento di questa parte della Critica: «Intendo per analitica dei concetti non l’analisi di essi o il procedimento … di scomporre … i concetti che si presentano, e metterli in chiaro; ma la scomposizione … della stessa facoltà intellettiva, per ricercare la possibilità dei concetti a priori grazie al fatto di andarli a cercare solo nell’intelletto, come nel loro luogo di origine, e di analizzarne l’uso puro in generale»[28].

«Noi non possiamo avere nessuna intuizione indipendentemente dalla sensibilità»[29]. Poiché per Kant l’intelletto è inteso come facoltà del conoscere non sensitiva, egli spiega che «non c’è altra maniera di conoscere che per concetti. […]. Ora di questi concetti l’intelletto non può far altro uso se non in quanto per mezzo di essi giudica»[30].

Anche in questo caso, la domanda filosofica – sempre coerentemente con la rivoluzione copernicana – è posta sul soggetto e sulle sue capacità di conoscenza. Il problema è stabilire quali siano le forme a priori che permettano una valida conoscenza intellettiva. A questo punto Kant dimostra che anche la conoscenza intellettiva è sintesi tra le forme a priori, che egli chiama categorie, e la materia del conoscere.

La nostra mente opera a tutti i livelli ponendo un ordine universale e necessario alla materia della conoscenza. Così conoscere intellettivamente significa porre un ordine superiore alle intuizioni sensibili, nelle quali i fenomeni sono già strutturati in strutture spazio-temporali. E le categorie sono proprio lo strumento dell’intelletto per porre quest’ordine.

L’intelletto necessita di quest’ordine perché l’intuizione da sola ci trasmette una molteplicità di sensazioni non strutturate: ottiche, acustiche, ed altre impressioni dei sensi, le quali sono estese nello spazio e nel tempo. Affinché dalle sensazioni non strutturate emerga un vero e proprio oggetto, per esempio una sedia, la quale sia presente per tutti in egual maniera e sulla quale ci si possa intendere con altre persone, è necessaria una regola. Tale regola è costituita dal concetto di sedia (concetto puro dell’intelletto, ossia categoria), secondo il quale le sensazioni sono unificate in un’unità considerata come una forma e una struttura determinate. Il concetto di sedia indica in questo modo quale aspetto debba avere una cosa affinché sia se stessa, ossia una sedia e non un tavolo o un libro.

Tutto questo ci permette di affermare con Kant che le categorie sono le condizioni che si trovano originariamente nel soggetto, senza le quali non è possibile alcuna unità concettuale di una intuizione data. Però, per quanto esse derivino dalla mera spontaneità dell’intelletto e siano con ciò soggettive, tuttavia sono indispensabili alla costituzione di tutti gli oggetti e quindi valide oggettivamente. 

Il termine categorie per indicare gli Apriori dell’intelletto è aristotelico. Il significato filosofico di questo termine è però, come abbiamo appena visto, del tutto differente: in Kant le categorie sono le regole soggettive attraverso cui l’intelletto pone ordine alle intuizioni sensibili; in Aristotele sono i caratteri dell’essere – i modi d’essere delle cose – che la mente astrae nel processo della conoscenza. Dunque l’universalità delle categorie per Aristotele è un tratto oggettivo, appartiene all’essere stesso delle cose, mentre per Kant le categorie sono strutture del soggetto ed hanno la loro validità a priori, sono cioè del tutto indipendenti dalla materia su cui si applicano.

Dunque, scrive Kant, «noi non possiamo pensare alcun oggetto, se non per [mezzo di] categorie; né possiamo conoscere un oggetto pensato, se non per [mezzo di] intuizioni […]. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e questa conoscenza, in quanto l’oggetto suo è dato, è empirica. Ma la conoscenza empirica è l’esperienza. [Ne segue,] dunque, [che] per noi non è possibile nessuna conoscenza a priori, se non unicamente di oggetti di esperienza possibile»[31].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TAVOLA DEI GIUDIZI E DELLE CORRISPONDENTI CATEGORIE 

 

 

 

 


QUANTITA’

Singolare

(questo A è un  B)

 

Particolare

(alcuni A sono B)

 

Universale

(tutti gli A sono B)

 

Unità

 

 

Pluralità

 

 

Totalità

 

 

 

QUALITA’

Affermativo

(AèB)

 

Negativo

(A non è B)

 

Infinito

(A non è B)

 

Realtà

 

 

Negazione

 

 

Limitazione

 

 

 

RELAZIONE

Categorico

(A è B)

 

Ipotetico

(se A allora è B)

 

Disgiuntivo

(A è B oppure C)

 

della inerenza e sussistenza

(substantia et accidens)

 

della causalità e dipendenza

(causa ed effetto)

 

della comunanza (azione reciproca fra agente e paziente)

 

 

 

MODALITA’

Problematico

(A può essere B)

 

Assertorio

(è reale che A è B)

 

Apodittico

(è necessario che A sia B)

 

Possibilità-Impossibilità

 

 

Esistenza-inesistenza

 

 

Necessità-Contingenza

 

 

 

 

Sorge a questo punto un difficile problema, chiaramente formulato da Kant nel modo seguente: “in qual modo le condizioni soggettive del pensiero debbano avere una validità oggettiva, ossia ci diano le condizioni della possibilità di ogni conoscenza degli oggetti”. Che cosa ci garantisce, in altri termini, che i concetti puri dell’intelletto si riferiscano in modo universale e necessario agli oggetti dell’esperienza? Che cosa ci garantisce circa il fatto che il nostro soggettivo pensare non dia luogo a rappresentazioni diverse e irrelate fra i diversi soggetti?

E’ un problema che non si pone a livello dell’intuizione, perché qui l’oggetto intuito si dà, e non può non darsi, sotto le forme pure dello spazio e del tempo. Ma l’intelletto, come sappiamo, non si riferisce direttamente a oggetti, ma a rappresentazioni: in che modo si può quindi affermare che i nessi da esso posti fra le rappresentazioni mediante le categorie – per esempio il nesso di causa-effetto – abbiano validità oggettiva?

La risposta a questa domanda richiede una deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto. Kant afferma esplicitamente di assumere il termine Deduzione trascendentale nel significato giuridico, che indica la dimostrazione della legittimità della pretesa di validità della conoscenza. Non si tratta di dedurre (cioè di far derivare logicamente) qualcosa da un princípio primo, assoluto o incondizionato; ma di trovare il fondamento di una pretesa, cioè la condizione o l’insieme delle condizioni che rendono possibile qualcosa; ossia, la possibilità reale o trascendentale di qualcosa, in quanto distinta dalla sua semplice possibilità formale o logica. Insomma, la deduzione trascendentale viene intesa come determinazione del fondamento e della possibilità validificante; in quanto, non mette capo a un princípio assoluto e incondizionato, ma soltanto alla possibilità validificante della pretesa.

Ora, poiché ogni conoscenza possibile implica la sintesi fra sensibilità e intelletto ed è da escludersi che questa sintesi abbia origine dall’oggetto, bisogna cercarla nel soggetto trascendentale, nella spontaneità attiva dell’autocoscienza trascendentale, da Kant chiamata Io penso.

«L’Io penso deve poter accompagnare tutte le rappresentazioni; ché altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o, almeno per me, non sarebbe. Quella rappresentazione che può essere data prima di ogni pensiero, dicesi intuizione. Ogni molteplice, dunque, della intuizione ha una relazione necessaria con l’Io penso, nello stesso soggetto in cui questo molteplice s’incontra. […] questa rappresentazione […] io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, perché è appunto quella autocoscienza che, in quanto […] deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica, non può più essere accompagnata da nessun altra. […]. Giacché le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza; cioè in quanto mie rappresentazioni (sebbene io non sia consapevole di esse, come tali), debbono necessariamente sottostare alle condizioni in cui soltanto possono coesistere in una universale autocoscienza, poiché altrimenti non mi apparterrebbero in comune»[32]. Se così è, rivela Kant, «Il [seguente] pensiero: queste rappresentazioni date nell’intuizione mi appartengono tutte, – suona lo stesso che io le unisco in una autocoscienza, o almeno posso unirvele; […] cioè, io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie rappresentazioni, solo perché io posso comprendere la loro molteplicità in una coscienza; altrimenti io dovrei avere un Me stesso variopinto, diverso, al pari delle rappresentazioni delle quali ho coscienza»[33].

Riepilogando, dalle parole dello stesso Kant si evince che tutto il conoscere consiste nella congiunzione di una molteplicità di rappresentazioni (intuizioni o concetti) ad un’unità. Tale congiunzione, che Kant chiama sintesi, non può mai aver luogo ad opera dei sensi, poiché questi sono meramente recettivi; ma deriva dal soggetto e, precisamente, da una fonte conoscitiva diversa dalla sensibilità, la quale non è ricettiva, bensì attiva. E’ la spontaneità dell’azione intellettuale a compiere questa sintesi.

La fonte di ogni sintesi si trova a sua volta in una sintesi originaria, in una congiunzione unificante, cioè l’Io-penso, che ha luogo prima di ogni congiunzione determinata (empirica o categoriale), senza dipendere da una congiunzione superiore.

Così abbiamo la risposta ultimativa al problema: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Essi sono possibili, oltre che per il fatto che noi abbiamo le forme pure dell’intuizione dello spazio e del tempo a priori, anche perché il nostro pensiero è attività unificatrice e sintetizzante che si esplica attraverso le categorie culminante nell’appercezione originaria, che è il princípio dell’unità sintetica originaria, la forma stessa dell’intelletto.

Attraverso l’Io penso Kant riesce quindi a risolvere quel problema che a questo punto della Critica gli si pone dinanzi: in che modo le categorie rendano possibile l’esperienza. La chiave, come si legge dalle sue stesse parole, viene individuata da Kant nella nozione di appercezione pura: cioè la coscienza di esistere indipendentemente dalla percezione attuale dello stato del proprio animo. Essa è la prima conoscenza pura che l’intelletto umano possiede ed è il centro unificatore che fa sì che le mie rappresentazioni siano effettivamente mie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8.      Logica trascendentale, Analitica dei princípi

Con l’introduzione dell’Io penso e l’esplicazione delle sue funzioni termina, all’interno della Critica, l’Analitica dei concetti, alla quale segue l’Analitica dei princípi. In essa viene affrontato un problema preliminare. Kant cerca infatti di risolvere l’eterogeneità tra intuizioni e concetti: come è possibile collegare le categorie ai fenomeni, dal momento che i fenomeni sono le cose come a noi appaiono e le categorie sono invece concetti puri dell’intelletto? La questione non è qui se le categorie si applichino o meno al molteplice empirico; la questione è come questa applicazione può avvenire. Per risolvere questo problema Kant introduce un terzo elemento: la molteplicità data nell’intuizione, concettualmente indeterminata, ed il concetto dell’intelletto, che la determina, sono due elementi della conoscenza relativamente indipendenti, per la mediazione dei quali è necessario, appunto, un terzo elemento. Questo terzo elemento «da un lato è omogeneo colla categoria e dall’altro col fenomeno»[34], vale a dire: puro come le categorie ma intuitivo come le intuizioni empiriche. Questo elemento è lo Schema trascendentale.

L’intelletto, nella sua funzione di unificatore del molteplice opera attraverso schemi, “rappresentazioni intermedie” fra intuizione e concetto: ad ogni categoria corrisponde uno schema capace di costituire una specie di ponte fra essa e i dati sensibili. Il risultato che, secondo Kant, scaturirebbe dall’uso di questi schemi, è una continuità senza fratture tra intelletto e sensibilità, tra intuizioni e concetti, che rende possibile l’applicazione delle categorie al fenomeno, quindi la stessa esperienza.

Lo schema è un prodotto dell’immaginazione, definita da Kant come “la facoltà di rappresentare un oggetto nell’intuizione, anche senza la sua presenza”. L’immaginazione condivide con la sensibilità il fatto che le sue rappresentazioni sono intuizioni, con l’intelletto il fatto che tali rappresentazioni sono prodotte spontaneamente. Lo schema, tuttavia, non è un’immagine che riproduce un oggetto, ma l’insieme delle regole necessarie alla costruzione di un’immagine dell’oggetto: se per esempio disegno un triangolo, ne ho l’immagine; ma questa simboleggia solo quel determinato triangolo (poniamo isoscele) e non il concetto generale di triangolo. Al contrario, lo schema del concetto di triangolo contiene i rapporti formali che caratterizzano il triangolo, ed è quindi modello valido per tutti i tipi di triangolo; è lo schema, infine, che permette di applicare il concetto di triangolo agli oggetti dell’intuizione.

L’immaginazione produce schemi di concetto empirici (albero, cane), di concetti sensibili puri (come le figure geometriche), e “schemi trascendentali”, ovvero schemi di concetti puri, le categorie, ai quali spetta il compito di consentire l’applicazione delle categorie stesse ai fenomeni. Da che cosa lo schema deriva questa sua capacità di essere “ponte” fra intuizione e concetto? Dal fatto – risponde Kant – che esso è una “determinazione trascendentale del tempo secondo regole”. Sappiamo infatti che il tempo, in quanto forma del senso interno, è la condizione di possibilità a priori di tutti i fenomeni (anche di quelli esterni); è dunque l’elemento comune a tutti gli oggetti d’esperienza. Lo schema, come “determinazione trascendentale del tempo”, è da un lato omogeneo al fenomeno, dall’altro alle categorie, in quanto è generale, e poggia sopra una regola a priori. E’ attraverso il tempo che si opera la sintesi fra concetto e fenomeno intuito. La categoria senza lo schema, e dunque senza il tempo, non può applicarsi a nessun oggetto dell’intuizione: rimane, in sostanza, vuota.

Con lo schematismo si è chiarito che la costruzione, da parte del soggetto, del mondo dell’esperienza implica la stretta integrazione fra sensibilità e intelletto e un ineliminabile riferimento alla dimensione temporale. Vediamo ora come tale risultato emerga nella trattazione dei princípi.

Il secondo capitolo della Logica trascendentale è infatti dedicato al Sistema dei princípi dell’intelletto puro. Qui Kant si propone di esaminare sistematicamente i giudizi o le proposizioni fondamentali che l’intelletto contiene a priori, per regolare il retto uso delle categorie. In breve: si tratta delle regole più generali possibili, che costituiscono la condizione per la costituzione dell’esperienza.

Il capitolo sul sistema dei princípi è tripartito; e tale ripartizione è sostanzialmente ricalcante i tre princípi fondamentali della metafisica razionalistica tradizionale: il princípio di contraddizione; il princípio dell’io; e il princípio di ragione. Di qui la ricerca, nell’ordine, di un princípio supremo per i giudizi analitici, per quelli sintetici e infine la presentazione del sistema dei princípi.

Nella “sezione prima” viene trattato il princípio supremo di tutti i giudizi analitici: “Qualunque sia il contenuto della nostra conoscenza, la condizione universale dei nostri giudizi in generale è che essi non si contraddicano. Il princípio di contraddizione è dunque il criterio generale della verità.

Al princípio supremo di tutti i giudizi sintetici è dedicata la “sezione seconda”: “Qualsiasi oggetto sottostà alle condizioni necessarie dell’unità sintetica del molteplice dell’intuizione in un’esperienza possibile”. In altri termini, la nostra esperienza è possibile solo facendo riferimento alla sintesi delle categorie.

E’ nella “sezione terza” allora che Kant passa in rassegna sistematicamente i princípi sintetici a priori dell’intelletto puro, che fanno sì che tutto ciò che avviene sia subordinato necessariamente a regole.

 

TAVOLA DEI PRINCÍPI

1.             QUANTITA’. Assiomi dell’intuizione. Il princípio degli assiomi dell’intuizione (corrispondente alle categorie della quantità) è: “Tutte le intuizioni sono quantità estensive”. Gli oggetti vengono intuiti nello spazio e nel tempo come aggregazioni di parti, ovvero come “quantità”. La quantità, quindi, non è un proprietà dei fenomeni, ma il modo in cui i fenomeni stessi divengono oggetti di esperienza; detto altrimenti, noi conosciamo gli oggetti quantitativamente. Questo princípio è di notevole importanza, perché è quello che permette di applicare la matematica alle scienze della natura, come avviene nella fisica matematica.

2.             QUALITA’. Anticipazioni della percezione. Il princípio delle anticipazioni della percezione (corrispondente alle categorie della qualità) è: “In tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una qualità intensiva, cioè un grado”. Questo princípio stabilisce la regola per cui è possibile la misurazione delle variazioni qualitative (nell’intensità) di un fenomeno (per esempio della temperatura) dal momento che esiste una continuità del mutamento fisico, cioè nel passaggio da un grado all’altro di intensità. Perciò Kant parla qui di “anticipazioni” della percezione, nel senso che, in forza di questo princípio, è possibile prevedere le caratteristiche di percezioni future.

3.             RELAZIONE. Analogie dell’esperienza. Il princípio delle analogie dell’esperienza (corrispondenti alle categorie della relazione) è il seguente: “L’esperienza è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una connessione necessaria delle percezioni”. Con i due princípi precedenti si chiariva la possibilità di applicare la matematica ai fenomeni considerati separatamente; qui si tratta invece di fissare i princípi che rendono possibile la determinazione dei rapporti fra i diversi fenomeni, in una parola le leggi. Il termine “analogia” è desunto dalla matematica, dove esso significa “proporzione”, ovvero la possibilità, dati tre elementi noti in relazione tra loro, di trovarne un quarto non noto. Le “analogie dell’esperienza” non ci danno il termine ignoto, non ci dicono, per esempio, quale sia la causa di un determinato fenomeno; ci dicono però che, dato un evento, ne esiste un altro che ne è la causa e che si trova con esso in una determinata relazione temporale. Ossia, sono le regole che permettono di fissare rapporti oggettivi temporali fra i fenomeni e, in quanto tali, rendono possibile la conoscenza scientifica. Sono tre i rapporti oggettivi temporali istituibili tra i fenomeni: di permanenza, di successione e di simultaneità; da questi derivano tre analogie dell’esperienza:

                                                                      I.      Prima analogia (princípio della permanenza della sostanza): “In ogni cambiamento di fenomeni la sostanza permane e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce”. E’ un presupposto dell’intera scienza della natura, che risulterebbe impossibile se non riconoscessimo nelle nostre percezioni nel tempo elementi di mutamento ed altri di continuità.

                                                                    II.      Seconda analogia (princípio della legge temporale secondo la legge della causalità): “Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto”. Qui Kant tenta di mostrare che la legge di causa-effetto non è ricavata dall’esperienza di eventi in successione, ma è, al contrario, il presupposto della costruzione di qualsiasi serie temporale di eventi. Solo il princípio di causalità dà oggettività alla percezione soggettiva di eventi in successione: esso è dunque un requisito necessario non solo per l’esperienza scientifica, ma anche per quella ordinaria.

                                                                 III.      Terza analogia (princípio della simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o comunanza): “Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano fra loro in un’azione reciproca universale”. Questo princípio rende possibile la formulazione di leggi empiriche riguardo a fenomeni coesistenti: ciascun fenomeno condiziona gli altri e ne è al tempo stesso condizionato. Con questo princípio si fonda dunque la possibilità della conoscenza di un’insieme di fenomeni naturali.

Con le tre analogie, quindi, Kant giustifica la possibilità di una natura come oggetto d’esperienza, ovvero come connessione necessaria di fenomeni secondo leggi.

Giunto al termine dell’Analitica, Kant fa il punto su uno dei concetti cardinali della sua filosofia: la distinzione tra fenomeno e noumeno. Gli oggetti d’esperienza, come sappiamo, sono sempre fenomeni, ovvero oggetti che ci sono dati innanzitutto nell’intuizione spazio-temporale. La distinzione tra i due termini è che i fenomeni sono le cose come a noi appaiono, i noumeni invece sono le cose come sono in se stesse. Il concetto di noumeno, dice Kant, può essere inteso in due sensi: negativo e positivo. Nel primo senso, il noumeno qualifica l’oggetto di cui non abbiamo intuizione sensibile, la cosa come è in “se stessa”; in senso positivo, invece, il noumeno è l’oggetto di una intuizione non sensibile, intellettuale. Kant è esplicito nell’affermare che solo la prima accezione del termine, quella negativa, è accettabile; il nostro pensiero non ha la possibilità di conoscere oggetti se non in quanto questi si danno nell’intuizione sensibile: i concetti dell’intelletto non producono da sé gli oggetti, ma li sintetizzano; e l’intuizione sensibile, vale la pena di ripeterlo, ci dà fenomeni, non cose in sé. Detto questo, Kant sottolinea tuttavia l’utilità, anzi l’indispensabilità, del concetto di noumeno (inteso in senso negativo) perché esso ci permette di circoscrivere le pretese della sensibilità, ci impegna a non voler estendere il campo della conoscenza stessa. Quest’ultima resta così definitivamente ancorata al mondo dell’oggettività fenomenica costruito nell’intuizione spazio-temporale e nelle categorie “schematizzate”, ovvero al mondo dell’esperienza possibile. Il mondo delle cose in sé è dunque del tutto sottratto, in quanto privo di contenuto oggettivo, alla conoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

9.      Dialettica trascendentale

A conclusione dell’Analitica trascendentale Kant ritorna al problema posto in primo piano dalla Critica: si dà, di necessità, una metafisica, ma altrettanto necessariamente essa produce soltanto una parvenza di verità.

Con la Dialettica trascendentale, che costituisce la seconda parte della Logica trascendentale, raggiungiamo la sommità dell’edificio costruito da Kant. Siamo cioè all’esame dei fenomeni della metafisica e del suo diritto a proporsi come sapere scientifico; e qui Kant dimostrerà perché la metafisica è impossibile come scienza e che i tentativi della ragion pura di conoscere un mondo al di là dei fenomeni, ossia indipendentemente dalle condizioni stabilite dall’intelletto, sono inevitabilmente destinati a fallire.

Protagonista di questa parte della Critica è la ragione, da Kant intesa come facoltà del pensiero che si rivolge alla conoscenza di ciò che sta al di là dell’esperienza.

Secondo Kant la metafisica non nasce da una trovata arbitraria e tanto meno da un deliberato inganno. La metafisica si basa sull’interesse della ragione di indagare l’incondizionato ai fini del condizionato. La conoscenza deve all’intuizione un materiale ancora indeterminato; l’intelletto conferisce a questo materiale, con l’aiuto di concetti e princípi, l’unità determinata; la ragione, infine, cerca di portare la conoscenza concettuale a somma unità. L’unità assolutamente somma, però, la si raggiunge soltanto ad una condizione, la quale stessa non è più condizionata; questa è l’incondizionato. Attraverso l’incondizionato, l’intelletto perviene ad una perfetta coerenza con se stessa; l’incondizionato produce l’unità sistematica di ogni esperienza. Il ricercarlo appare quindi cosa ovvia, addirittura precauzione inevitabile di ogni conoscenza; una tale ricerca si basa sull’interesse naturale della ragione, al quale Kant permette di dispiegarsi per poi distruggerne la pretesa conoscitiva. La coerenza perfetta dell’intelletto con se stesso non è infatti indispensabile né per la costituzione dell’intelletto né per il suo compito conoscitivo. Alla base del progredire della conoscenza verso l’incondizionato non sta alcuna necessità oggettiva, bensì soltanto una soggettiva. L’intelletto cerca di ridurre, per mezzo di un paragone fra i suoi concetti, l’uso universale dei medesimi al loro minor numero possibile.  

Come già detto in precedenza, protagonista di questa parte della Critica è la ragione, da Kant intesa come facoltà dl pensiero che si rivolge alla conoscenza di ciò che sta al di là dell’esperienza. Egli infatti indaga la funzione della ragione e delle sue idee che non conducono a un sapere costitutivo dell’oggetto, come l’attività dell’intelletto, pur tuttavia dirigono quest’ultima e l’orientano nell’orizzonte della totalità, senza la cui guida, in ultima istanza, neppure l’opera unificatrice dell’intelletto sarebbe possibile o avrebbe un senso.

Se l’intelletto possiede princípi immanenti, cioè di uso meramente empirico; la ragione, invece, si fonda su princípi trascendenti, princípi che non aboliscono soltanto i limiti dell’esperienza, ma impongono di oltrepassarli. I concetti puri dell’intelletto, le categorie, sono semplici chiavi per intendere le cose; i concetti puri della ragione, al contrario, sono gli archetipi delle cose stesse, cioè qualcosa che oltrepassa sia i sensi sia i concetti dell’intelletto.

La ragione non può pensare, ma solo conoscere, l’incondizionato.

Mentre l’intelletto realizza quest’unità primaria, senza la quale dalla molteplicità indeterminata dell’intuizione non emerge alcun vero e proprio oggetto, la ragione produce un unità secondaria. Quest’ultima però non è necessaria alla costituzione dell’oggetto; essa non può ampliare la conoscenza.

Nella ricerca di un’unità somma la ragione ha il massimo successo; essa la trova nell’Idea, ossia nel concetto puro della ragione totalmente privo di un oggetto corrispondente nella realtà e del quale si può avere solo un uso regolativo, cioè di guida e stimolo nell’estensione della conoscenza, e mai costitutivo, poiché non determina la costruzione di un oggetto dal suo concetto.

«Intendo per idea un concetto necessario per la ragione, al quale non è dato trovare un oggetto adeguato nei sensi. I nostri concetti puri razionali ora esaminati son dunque idee trascendentali. Essi son concetti della ragion pura; considerano infatti ogni conoscenza sperimentale come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Non sono escogitati ad arbitrio, ma dati dalla natura della stessa ragione, e si riferiscono quindi necessariamente all’uso intero dell’intelletto»[35].

Se l’intelletto è la facoltà di giudicare, la ragione è la facoltà di “sillogizzare”. Mentre il giudizio contiene sempre un elemento fornito dall’intuizione, perché viene inteso come giudizio sintetico; il sillogismo, al contrario, non opera su intuizioni, ma su concetti puri che, da princípi supremi e incondizionati, deducono conclusioni particolari. E Kant deduce i concetti puri della ragione proprio dalla tavola dei sillogismi; poiché la logica indica tre tipi di sillogismo (categorico, ipotetico e disgiuntivo) tre saranno le idee pure della ragione: 1) Idea psicologica (anima): l’incondizionato come l’unità assoluta del soggetto pensante; 2) Idea cosmologica (mondo): l’incondizionato come la totalità delle cose e delle condizioni nello spazio e nel tempo; 3) Idea teologica (Dio): l’incondizionato come l’unità assoluta della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in genere.

Pertanto, la sensibilità ha due forme o strutture a priori, lo “spazio” e il “tempo”; l’intelletto ne ha dodici, cioè le “categorie”; la ragione ne ha tre, e sono appunto le “idee”.

Dunque sono tre i modi secondo cui potrà essere illusoriamente varcato il confine che separa il condizionato dall’incondizionato: affermazione di un soggetto assoluto che non possa più essere a sua volta predicato; affermazione di una totalità di fenomeni dipendenti gli uni dagli altri; affermazione di un fondamento unico di tutte le sostanze.

Tuttavia la ragione paga il proprio successo simulando conoscenze là dove non ve ne sono. Pensando il soggetto assoluto, la ragione soccombe a deduzioni errate (paralogismi); nella totalità delle cose e condizioni si avviluppa in contraddizioni (antinomie); ed in relazione a Dio parla di dimostrazioni, le quali sono tutte confutabili. In tal modo la conoscenza dell’incondizionato si svela una conoscenza presunta e non vera: essa non è nient’altro che parvenza.

Analogamente, il filosofo non può sopprimere la parvenza trascendentale, perché rimarrebbe in ogni caso il bisogno metafisico, che la ragione nutre nei confronti dell’incondizionato. Egli può però impedire che si consideri la parvenza verità e che ci si lasci ingannare da essa. Solo la critica trascendentale permette di svelare con evidente arroganza la pretesa metafisica di conoscere l’incondizionato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10.  Anima, Mondo e Dio

Anima, mondo e Dio non sono però pure finzioni dell’intelletto: non costituiscono oggetti, non fanno un uso costitutivo della ragione, ma indicano all’intelletto una direzione di ricerca, fanno un uso regolativo della ragione e, nello stesso tempo, sono schemi per ordinare l’esperienza, per darle maggiore unità; ecco che si può parlare anche di un uso schematico della ragione, di un “come se”: «Anzitutto», scrive Kant, «in conseguenza di queste idee come princípi, dobbiamo connettere (nella psicologia) tutti i fenomeni, operazioni e recettività della nostra anima al filo conduttore dell’esperienza interna, “come se” essa fosse una sostanza semplice, che esistesse (almeno nella vita) costantemente con l’identità personale, mentre i suoi stati, ai quali quelli del corpo si riferiscono solo come condizioni esterne, cangiano continuamente. In secondo luogo (nella cosmologia) in una ricerca che non potrà compiersi mai, noi dobbiamo perseguire la serie delle condizioni così degli interni come degli esterni fenomeni naturali, “come se” essa fosse in sé infinita e senza un termine primo e supremo, quantunque non perciò noi neghiamo fuori di tutti i fenomeni i primi princípi, puramente intelligibili, di essi, ma non pertanto non possiamo mai metterli nella catena delle spiegazioni naturali, poiché non li conosciamo punto. Finalmente, e in terzo luogo, noi dobbiamo (rispetto alla teologia) considerare tutto ciò che può comunque entrare nella catena dell’esperienza possibile, “come se” questa costituisse un’unità assoluta, ma sempre affatto dipendente, e sempre anche condizionata dentro il mondo sensibile, e pur nondimeno “come se” il complesso di tutti i fenomeni (lo stesso mondo sensibile) avesse fuori dal suo àmbito un unico sommo e onnisufficiente fondamento, ossia una ragione in qualche modo per sé stante, originaria e creatrice, in relazione alla quale noi stabiliamo ogni uso empirico della nostra ragione nella sua massima estensione, “come se” gli oggetti fossero derivati da quel prototipo di ragione. Ciò vuol dire: dovete derivare i fenomeni interni dell’anima non da una sostanza semplice pensante, ma gli uni dagli altri, secondo l’idea di un essere semplice; non da una suprema Intelligenza dovete ricavare l’ordine e l’unità sistematica del mondo, ma, dall’idea di una causa supremamente sapiente, trarre la regola, alla quale la ragione deve attenersi nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, per sua propria soddisfazione»[36]. La idee, quindi, valgono come princípi euristici: non ampliano la nostra conoscenza, ma la unificano.

 

10. I. CRITICA ALLA PSICOLOGIA RAZIONALE

La prima illusione in cui cade la ragione, è l’opinione di poter ottenere tramite semplice riflessione, quindi in un modo puramente razionale e senza la benché minima esperienza, una conoscenza oggettiva del sé, dell’anima.

La disciplina metafisica che si basa su questa illusione è la dottrina razionale dell’anima, chiamata anche psicologia speculativa. Il suo obiettivo principale consiste nella dimostrazione dell’immortalità dell’anima; essa pretende di trasformare l’Io-penso, da pura proposizione semplice, in un concetto determinato, cioè, di una pura funzione logica ne fa una sostanza.

E’ corretto asserire che l’Io pensante sia un soggetto, ma questo non significa potersi spingere aggiungendo dati e farne un essere sussistente per sé o una sostanza.

E’ fuor di dubbio che l’analisi della mia coscienza di essere pensante comporti una distinzione nei confronti delle cose esterne, ma è illegittimo passare  da questa semplice considerazione ad affermare qualcosa intorno ad una mia supposta esistenza separata come sostanza pensante.

In altri termini, la psicologia razionale afferma che l’anima è una sostanza, non ulteriormente scomponibile, e quindi incorruttibile, che permane identica a se stessa nel tempo, che è distinta da ogni altro oggetto.

Questa dottrina – secondo Kant – è fallace, poiché si fonda su paralogismi, cioè su ragionamenti errati. La radice di tali errori consiste in questo: la psicologia razionale parte dal fatto che esiste il soggetto, l’ “Io-penso”, come momento di unificazione delle rappresentazioni, e lo trasforma arbitrariamente in una sostanza sussistente di per sé, in un’anima.

L’arbitrarietà consiste nel fatto che questa trasformazione avviene applicando la categoria di sostanza all’ “Io-penso”, che non è un oggetto, ma l’unità della coscienza, ovvero proprio la condizione di applicabilità delle categorie. Quella che è una condizione logico-trascendentale della conoscenza viene così trasformata in una realtà, nell’oggetto di una conoscenza inevitabilmente illusoria.

 

10. II. CRITICA ALLA COSMOLOGIA RAZIONALE    

La Cosmologia razionale ha per oggetto l’idea della totalità incondizionata dei fenomeni esterni e procede sostenendo che se è dato anche un solo fenomeno, deve essere data anche tutta la serie delle sue condizioni, la quale costituisce un tutto incondizionato. Si tratta dunque di un muovere per sintesi regressiva, risalendo dalle condizioni più vicine al fenomeno dato sino a quelle più remote. L’equivoco è di considerare tale totalità conoscibile al modo di un oggetto, laddove invece si dovrà mostrare che la totalità dell’esperienza non può essere oggetto d’esperienza.

Si tratta, d’altra parte, di un’antitetica del tutto naturale in cui la ragione cade da se stessa, né può non cadervi. Nell’abbaglio di voler risalire regressivamente dal condizionato, dal fenomeno di cui si occupa l’intelletto, all’intera serie delle sue condizioni, dimenticando che il tutto assoluto della serie delle condizioni di un dato condizionato è sempre incondizionato e che pertanto non è che un’idea e quindi solo un concetto problematico e non conoscitivo.

Nell’illusorietà del tentativo della ragione di conoscere il mondo come totalità, essa procede secondo quelle categorie di unità, realtà, causalità ed esistenza, da cui ne risultano quattro idee cosmologiche, o meglio quattro antinomie, cioè coppie di proposizioni in contraddizione tra loro e tuttavia egualmente dimostrabili:

 

 

 

PRIMA ANTINOMIA

TESI

ANTITESI

 

Il mondo ha un suo inizio nel tempo e, rispetto allo spazio, è delimitato entro precisi confini.

 

Il mondo  non ha né inizio né confini nello spazio, ma è infinito, così rispetto al tempo come rispetto allo spazio.

 

SECONDA ANTINOMIA

TESI

ANTITESI

 

Nel mondo ogni sostanza composta consta di parti semplici, e in nessun luogo esiste qualcosa che non sia o il semplice o ciò che ne risulta composto.

 

 

Nessuna cosa composta, nel mondo, consta di parti semplici; e in nessuna parte del mondo esiste alcunché di semplice.

TERZA ANTINOMIA

TESI

ANTITESI

 

La causalità delle leggi della natura non è l’unica da cui sia possibile far derivare tutti i fenomeni del mondo. Per la loro spiegazione si rende necessaria l’ammissione anche di una causalità per libertà.

 

 

Non c’è libertà alcuna, ma nel mondo tutto accade esclusivamente in base a leggi di natura.

QUARTA ANTINOMIA

TESI

ANTITESI

 

Del mondo fa parte qualcosa che, o come suo elemento o come sua causa, costituisce un essere assolutamente necessario.

 

 

In nessun luogo, né nel mondo, né fuori del mondo, esiste un essere assolutamente necessario che ne sia la causa.

  

 

 

 

La radice dell’antinomia sta proprio nell’illegittimità dell’idea di mondo come totalità esistente in sé, cioè nell’applicazione delle categorie al di là dell’esperienza. Il fatto che la ragione, così operando, entri in contraddizione con se stessa è un ulteriore conferma del punto di vista critico, cioè che non è possibile conoscere la cosa in sé. Tuttavia, queste affermazioni antitetiche sono tentativi di risolvere quattro naturali e inevitabili problemi della ragione: ha il mondo un inizio e un limite nel tempo e nello spazio?; esiste qualcosa di assolutamente semplice, non ulteriormente divisibile, e perciò indistruttibile?; è possibile la libertà, o tutto ciò che avviene è casualmente determinato?; esiste una causa ultima, necessaria dei fenomeni?

Il punto di vista del criticismo nega che si possa dar risposta a queste domande, che non hanno un riscontro possibile nell’esperienza, ma non può sottrarsi al compito di tentare una soluzione delle questioni razionali che la metafisica ha aperto al riguardo.

 

10. III. CRITICA ALLA TEOLOGIA RAZIONALE

La più grande impresa della ragione, il suo supremo ideale e modello “in individuo”, è stata sempre quella di fare suo “oggetto” l’essere originario, l’essere supremo, l’essere degli esseri, attribuendogli coi suoi concetti realtà oggettiva, tentando di realizzarlo nel fenomeno. Di tale ideale la ragione ha bisogno, in quanto, in questo modo, le viene così offerto un criterio per apprezzare, sulla base del concetto di ciò che nel suo genere è perfetto, il grado e il difetto dell’imperfetto. Essa cerca di ipotizzare l’esistenza di un essere supremo. E’ un cammino naturale in cui la ragione si convince dapprima dell’esistenza di un qualche essere necessario, riconoscendo in esso un’esistenza incondizionata; elaborandone il concetto giunge a fare di ciò che è indipendente da ogni condizione la condizione sufficiente di ogni altra realtà; e, spingendosi ancora avanti nel pensiero che il tutto senza limiti è assoluta unità, perviene al concetto di un essere unico, di un essere supremo, primo fondamento di tutte le cose che deve pertanto esistere in modo assolutamente necessario.

E’ ciò che ha sempre tentato di fare la teologia razionale: fare dell’ideale un oggetto e determinarne speculativamente l’esistenza.

Tutti gli argomenti che la ragione umana, nel suo “cammino naturale”, escogita per pervenire alla dimostrazione speculativa dell’esistenza di un essere supremo, rispondono nel loro insieme al suo pressante bisogno di risalire dal condizionato, che è dato, a quell’incondizionato che, per essere fondamento dell’esistente, deve essere esso pure esistente e, per essere fondamento universale dell’esistenza contingente, non può essere a sua volta contingente ma del tutto non-contingente, cioè assolutamente necessario. Questo è infatti il movimento di pensiero che la guida: il contingente non esiste se non ha come causa un altro contingente e, risalendo di causa in causa, si deve pur giungere a una causa non contingente e tale quindi da esistere in modo assolutamente necessario.

Ogni ragionamento in proposito vacillerebbe, se non poggiasse su tale “roccia saldissima”, che altro non è che il presupporre nel pensiero quel concetto dell’assolutamente necessario, che è ciò che guida tutte le prove possibili. Ma quante e quali sono di fatto le prove possibili?

Kant sostiene che non vi possono essere se non tre argomenti, tre prove della ragione speculativa per dimostrare l’esistenza di Dio. Si può partire dall’esperienza (prove a posteriori o empiriche), e risalire, in base al princípio che ogni contingente ha la sua causa, all’esistenza di un essere necessario, cioè non causato (prova cosmologica); oppure, partendo dall’ordine, dall’armonia e dalla bellezza presenti nella natura, si giunge per analogia al rapporto che lega un’opera al suo artista, ossia all’idea dell’esistenza di un essere supremo che di quest’ordine sia l’autore (prova fisico-teologica). Al contrario, si può partire prescindendo del tutto l’esperienza, si muove dal concetto di un essere perfettissimo e sommamente reale e si determina l’esistenza sulla base di questo solo concetto (prova a priori, ontologica).

Il procedimento scelto dal filosofo è quello di delegittimare nelle sue pretese quest’ultima, per poi mostrare che le altre due, che si ritengono basate sull’esperienza, in realtà presuppongono quella a priori e non si sosterrebbero senza di essa. Decisivo è quindi, per mostrare le pretese trascendentali della teologia razionale, procedere a mostrare l’impossibilità della prova ontologica dell’esistenza di Dio. Essa muove dall’idea di Dio come essere perfettissimo, sommamente reale, assolutamente necessario, e mostra che, come tale, non può non essere esistente poiché, se la proprietà dell’esistenza non si trovasse necessariamente compresa nel suo stesso concetto, ne verrebbe l’assurdo di pensare appunto l’essere perfettissimo privo della perfezione dell’esistenza. Ma l’esistenza, non è un predicato che possa seguire dal concetto di qualcosa per via semplicemente analitica, poiché i giudizi di esistenza devono essere sintetici e pertanto richiedono che qualcosa si aggiunga al concetto dall’esterno (cioè tramite l’esperienza) e non sia da esso semplicemente ricavato. Il fatto è che l’esistenza è un dato reale, non una mera nota concettuale: il che significa che tutta l’architettura della pretesa prova si basa sulla confusione fra un predicato logico e uno reale, mentre per determinare l’esistenza effettuale di una cosa è necessario uscire dal concetto e compiere un’operazione sintetica, altrimenti la pretesa reale non contiene nulla di più del semplice possibile. E questo è precisamente ciò che la prova ontologica non compie, pretendendosi interamente a priori.

Quella detta da Kant cosmologica muove dall’esperienza di fatto degli enti contingenti (che noi vediamo, sentiamo, constatiamo: che sono dunque oggetto di esperienza) per risalire a una loro Causa ultima, alla quale assegna il nome di Dio. Il concetto di esperienza invocato è indeterminato, perché concerne il mondo nel suo insieme come oggetto di ogni esperienza possibile senza tener conto della particolare struttura e costituzione del mondo stesso. La prova cosmologica vuole bruciare le tappe: prima risale dal contingente al necessario, poi però afferma che il concetto di quest’ultimo può essere completamente determinato solo ricorrendo a quello dell’ente realissimo, l’unico che ci consenta davvero di pensarlo. Il che significa che tale prova ritiene di basarsi sull’esperienza e, muovendo da questa, fa solo il primo passo che consiste nel pervenire all’esistenza di un essere necessario in generale. Se però poi si tratta di dirci qualcosa su tale essere necessario, questa prova non può far altro se non rimandare implicitamente all’argomento ontologico in alternativa al quale era stata elaborata. Perché questo? Perché di fronte all’essere necessario l’esperienza è muta e impotente non avendo alcun uso al di fuori dell’esperienza sensibile; sicché, pervenuta al suo limite, lascia andare a briglie sciolte la ragione da sola e questa, ricercando le condizioni richieste dal concetto della necessità assoluta, presuppone che il concetto dell’essere fornito della suprema realtà sia tale da soddisfare completamente al concetto della necessità assoluta dell’esistenza, cioè che sia possibile conchiudere da quella a questa.

Anche questa volta, allora, la dimostrazione non riesce; ma ciò non significa che non si possa ammettere l’esistenza di un essere supremo come causa di tutti i possibili effetti, per favorire la ragione nella sua ricerca dell’unità; quello che non si può, e che non si deve fare, è giungere al punto di proclamare con certezza apodittica che tale essere esiste necessariamente.

Quell’ammissione è legittima e giusta, e risponde a quel bisogno di una necessità incondizionata che la ragione sente come indispensabile quale ultimo sostegno di tutte le cose. Ma tale necessità incondizionata non può essere oggetto di dimostrazione, ed è piuttosto il baratro su cui la ragione si affaccia, il pensiero vertiginoso e insostenibile, benché inevitabile, del fondamento assoluto e originario, dell’essere che chiede a se stesso: “Donde provengo io allora?”.

La terza prova dell’esistenza di Dio è quella fisico-teologica. In questa terza prova si tratta, una volta abbandonata una ricerca che si basa prima sul concetto di cose in generale e poi sull’esperienza di un’esistenza in generale, di tentare ancora di vedere se un’esperienza determinata, quale quella dell’ordine e dell’armonia del mondo e della natura, non fornisca un argomento che possa con sicurezza condurci all’esistenza di un essere supremo. Il mondo presente ci spalanca innanzi un così sconfinato panorama di molteplicità, di ordine, di finalità e di bellezza, tanto rispetto alla infinità dello spazio quanto alla illimitata sua divisibilità, che, nonostante le conoscenze forniteci dal nostro debole intelletto, ogni linguaggio, in cospetto a tanti e tali meraviglie, smarrisce la sua forza, ogni numero la sua idoneità a misurare, e i nostri stessi pensieri ogni determinazione, sicché il nostro giudizio sul tutto deve concludersi in uno stupore muto, e, proprio per questo, eloquente. Da ogni parte scorgiamo una catena di effetti e di cause, di fini e di mezzi, di regolarità nel nascere e nel perire; e poiché nulla si è immesso da sé nello stato in cui si trova, si ha un costante rimando a un’altra cosa quale causa ulteriore, la quale, da parte sua, rende necessaria la ripetizione dell’operazione. L’intero universo dovrebbe allora precipitare nell’abisso del nulla, se non si ammettesse qualcosa che, sussistendo per sé originariamente e indipendentemente, al di fuori di questa distesa infinita di contingenza, sorregga il tutto, assicurandone nel contempo la durata, come causa della sua origine. Questa prova riconosce dapprima nell’insieme del mondo i segni di un ordinamento conforme a scopi e attuato con grande sapienza; ritiene che un tale ordine sia conferito solo dall’esterno, e quindi in modo contingente, alle cose del mondo che la natura non avrebbe potuto certamente disporre da sola; passa allora a supporre l’azione di una causa superiore e saggia non solo del mondo nella sua esistenza materiale, ma soprattutto di quell’ordine in esso posto secondo intelligenza e libertà; dice infine unica questa causa in ragione dell’unità della relazione reciproca delle parti del mondo, come parti di un edificio artistico. Ma fa un passo di troppo. La prova, infatti, che sulla base della finalità e dell’armonia della natura può al più concludere, secondo un princípio di analogia, a un architetto del mondo ma non certo a un creatore, pretende di passare dall’ordine e dalla finalità osservabili nel mondo all’esperienza di una causa a quelli proporzionata, cioè di un essere assolutamente perfetto e autosufficiente, al di là di ogni rappresentazione meramente relativa; ma proprio questo messaggio è, evidentemente, del tutto impossibile per via empirica, sicché l’argomentazione è costretta a proseguire per concetti trascendentali saltando, attraverso la prova cosmologica, a quella ontologica di cui la prima non è che un mascheramento e mostrando così, su questo terreno, tutta la propria debolezza.

A fondamento della prova fisico-teologica sta dunque quella cosmologica, la quale, a sua volta, poggia sulla prova ontologica.

Dunque, alla domanda se esista qualcosa fuori dal mondo che contenga il fondamento del suo ordine e delle sue leggi universali, è lecito dare una risposta positiva; ma non ha assolutamente alcun significato pretendere di dire, di tale qualcosa, ch’esso sia reale, sostanziale, necessario e così via, quasi che si trattasse dell’oggetto di un’esperienza possibile cui siano applicabili le corrispondenti categorie. Se la domanda viene poi formulata chiedendo se si possa concepire tale essere diverso dal mondo per analogia con gli oggetti dell’esperienza, la risposta sarà ancora positiva, ma con un preciso distinguo, ovvero soltanto come oggetto nell’idea, e non nella realtà; cioè solo in quanto sia inteso come un sostrato, a noi ignoto, dell’unità sistematica, dell’ordine e della finalità della costituzione del mondo, sostrato che la ragione deve accogliere come princípio regolativo dell’indagine naturale. Il che riconferma non solo la possibilità ma anche il dovere di ammettere un creatore del mondo: senza che ciò comporti in alcun modo un’estensione della nostra conoscenza al di là del campo dell’esperienza possibile.

Togliere di mezzo il sapere per sostituirvi la fede, ma una fede razionale, nucleo autentico di ogni altra fede possibile (anche rivelata) e compatibile coi limiti sin qui tracciati alle pretese speculative e trascendentali della ragione.

 

 

 

 

 

11.  Conclusione

La Critica della ragion pura si conclude, dunque, alla fine della Dottrina trascendentale degli elementi, formulando un verdetto chiaramente negativo rispetto alle pretese conoscitive della metafisica dogmatica: le domande, pur naturali ed inevitabili, circa l’immortalità dell’anima, la libertà e l’esistenza di Dio non possono avere una risposta scientificamente fondata. Non è data la possibilità di alcuna conoscenza se non nel perimetro dell’esperienza.

La metafisica come scienza non può essere valida, perché, come abbiamo visto in tutta la trattazione della Critica effettuata finora, è impossibile costruire giudizi sintetici a priori in questo campo. La “sintesi a priori metafisica” presuppone un intelletto intuitivo che noi non possediamo: dal punto di vista scientifico, dunque, l’uomo non può andare oltre i limiti dell’esperienza, e una metafisica come scienza potrà aversi solo come critica dei limiti della conoscenza e come indagine sulle modalità di costituzione del mondo dell’esperienza.

E’ infatti del tutto impossibile avere dati dell’esperienza per gli oggetti studiati dalla metafisica: essa si occupa della cosa in sé, che, per l’essere umano, è inconoscibile, in quanto è completamente estranea a quel rapporto soggetto-oggetto a cui, invece, partecipa il fenomeno.

Tuttavia, la conclusione della Dialettica non è puramente negativa; in primo luogo, come abbiamo già accennato, il ridimensionamento delle pretese della ragione speculativa apre in un certo senso la strada a un diverso approccio ai medesimi problemi: sul tronco della dialettica della ragion pura si innesta dunque la problematica morale della Critica della ragion pratica.

In secondo luogo, Kant precisa, concludendo la sua analisi, che le illusioni e le fallacie messe a nudo dalla Dialettica trascendentale derivano dall’uso scorretto delle idee della ragione: un uso trascendentale, o costitutivo, che porta a ipostatizzare l’esistenza di oggetti in corrispondenza di puri concetti. Al contrario, è possibile e anzi necessario un uso corretto delle idee di ragione, un uso regolativo: qui la ragione opera, attraverso le idee, per estendere il più possibile il campo dell’esperienza – pur nella consapevolezza di non poter mai attingere la totalità – e per conferire al sistema delle conoscenze il massimo di unità e di coerenza. Sotto questa luce, le idee della ragione si rivelano uno stimolo e una componente essenziale della conoscenza scientifica.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

 

A. Guerra, Introduzione a Kant, Ed. Laterza, 2000.

F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, Il testo filosofico, vol.II, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 1991.

G. Giannantoni, La ricerca filosofica – La razionalità moderna, vol.II, Loescher Editore, 2001.

G. Reale, D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol.II, Editrice La Scuola, 1983.

G. Saponaro, Introduzione a Kant, Dispense, 1992.

I. Kant, Critica della ragion pura, Ed. Laterza, 1995.

I. Kant, a cura di G. Saponaro, Dizionario delle idee, Editori riuniti, 1996.

M. Ravera – G. Garelli, Lettura della Critica della ragion pura di Kant, Utet Libreria, 2001.

N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Tea, 1993.

R. Ciafardone, Critica della ragion pura – Introduzione alla lettura, Carocci editore, 2000.

S. Marcucci, Guida alla lettura della Critica della ragion pura di Kant, Ed. Laterza, 1999.

U. Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Edizione Il Sapere, 1999.

U. Nicola, Antologia di filosofia – Atlante illustrato del pensiero, 2000.

Enciclopedia della filosofia e delle scienze umane, DeAgostini, 1996.

Enciclopedia di filosofia, Garzanti, 1993.

 

 

 

 

 

 



[1] A. Guerra, Introduzione a Kant, Ed. Laterza, 2000, pag. 48.

[2] Ivi, pag. 28.

3 Ibidem.

[4] Enciclopedia della Filosofia e delle Scienze Umane, DeAgostini, 1996, voce Illuminismo, pag. 436, da I. Kant, Risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo, in I. Kant, Antologia degli scritti politici, a cura di G. Sasso, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 51-53.

[5] I. Kant, Critica della Ragion Pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte seconda: Logica trascendentale, Introduzione I, Ed. Laterza, 1995, pag. 78.

[6] R. Ciafardone, Critica della Ragion Pura. Introduzione alla lettura, Carocci Editore, 2000, pag.15.

[7] Ivi, pag. 20.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, pag. 22.

[10] F. Ciuffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, Il Testo Filosofico, Vol. II, Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori, 1992, pag. 1204, Scheda Le due edizioni della Critica della ragion pura e i Prolegomeni.

[11] G. Giannantoni, La razionalità moderna, vol. II, Loescher editore, 2001, pag. 386, da I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di G. Colli, Torino 1957, pp. 22-24.

[12] I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, Sezione I, Laterza, 1995, pag. 33.

[13] Ivi, pag. 34.

[14] I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, Sezione IV, Laterza, 1995, pag. 39.

[15] Ibidem.

[16] I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, Sezione V, Laterza, 1995, pp. 42-43.

[17] Ivi, pag. 43.

[18] I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, Sezione VII, Laterza, 1995, pag. 48.

[19] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte I: Estetica trascendentale,  Laterza, 1995, pp. 54-55.

[20] Ivi, pp. 53-54.

[21] Ivi, pag. 55.

[22] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte I: Estetica trascendentale, Sezione I, Corollari, Laterza, 1995, pag. 59.

[23] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte I: Estetica trascendentale, Sezione II, Laterza, 1995, pag. 65.

[24] Ivi, pag. 66.

[25] Ivi, pag. 63.

[26] Ivi, pag. 66.

[27] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Introduzione I, Laterza, 1995, pp. 77-78.

[28] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Analitica trascendentale, Libro I. Analitica dei concetti, Capitolo I, Laterza, 1995, pag. 88.

[29] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Analitica trascendentale, Libro I. Analitica dei concetti, Capitolo I, Sezione I, Laterza, 1995, pag. 89.

[30] Ibidem

[31] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Analitica trascendentale, Libro I. Analitica dei concetti, Capitolo II, Sezione II, Laterza, 1995, pag. 128.

[32] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Analitica trascendentale, Libro I. Analitica dei concetti, Capitolo II, Sezione I, Laterza, 1995, pp. 110-111.

[33] Ivi, pp. 111-112.

[34] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Analitica trascendentale, Libro II. Analitica dei princípi, Capitolo I, Laterza, 1995, pag. 136.

[35] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Dialettica trascendentale, Libro I, Sezione II, Laterza, 1995, pag. 254.

 

[36] I. Kant, Critica della ragion pura, Dottrina trascendentale degli elementi, Parte II: Logica trascendentale, Dialettica trascendentale, Appendice, Laterza, 1995, pp. 423-424.