FILOSOFIA:
la
linfa vitale!
«Non era questione di credere o non credere
a ciò che
leggevo
ma
di provare qualcosa di nuovo,
d’esser influenzato
da qualcosa che rendeva
differente la visione del mondo»
R.
Wright, Ragazzo negro, Einaudi, pag.
294.
PREMESSA
Che cos’è la
filosofia?
«Domandandoci: che cos’è la filosofia, noi parliamo sulla filosofia. Ponendo infatti la
domanda in questi termini, ci collochiamo in una zona che si trova al di sopra
e quindi al di fuori della filosofia. Ma lo scopo della nostra domanda è
piuttosto quello di penetrare nella
filosofia, di prendervi dimora e di comportarci nel modo che le è proprio, vale
a dire di filosofare. Il cammino del nostro colloquio non deve perciò avere
soltanto una direzione chiara, ma deve al tempo stesso far sì che tale
direzione ci dia la certezza di muoverci all’interno della filosofia e non di
rigirarvi intorno restandone fuori.
Il cammino che dobbiamo percorrere deve perciò
essere di tal natura e muoversi in una direzione siffatta che ciò di cui la
filosofia tratta ci riguarda direttamente, ci tocchi e in verità ci tocchi
nella nostra essenza.
[…]
Per prima cosa dobbiamo cercare di porre la
questione su un cammino chiaramente orientato, per non vagabondare fra
rappresentazioni della filosofia arbitrarie ed occasionali.
[…]
Questo cammino, per un verso, ci sta di fronte
perché la parola [filosofia] da lungo tempo si è rivolta a noi precedendoci; ma
si trova, per altro verso, già alle nostre spalle poiché da sempre abbiamo
associato e pronunciato tale parola. […] Eppure conosciamo molto confusamente
questo cammino, anche se sulla filosofia greca possediamo e possiamo divulgare
innumerevoli conoscenze storiografiche.
[…]
La domanda: che cos’è la filosofia, non è una
domanda che conduca ad una specie particolare di conoscenza orientata su se
stessa (filosofia della filosofia). Non è neppure una questione storiografica
il cui interesse consisterebbe nel far vedere come ha avuto inizio e come si è
sviluppato ciò che chiamiamo filosofia. E’ una domanda storica in cui è in
gioco il nostro destino. Ancor più: non è una “domanda”, è la domanda storica del nostro esserci europeo occidentale.
Se ci affidiamo al senso globale ed originario della
domanda: che cos’è la filosofia, allora il nostro domandare, mediante la sua
origine storica, ha trovato una direzione in un futuro storico. Abbiamo trovato
un cammino. La domanda stessa è un cammino.
[…]
La filosofia è alla ricerca di ciò che l’essente è
in quanto è. La filosofia è un cammino verso l’essere dell’essente, cioè
dell’essente rispetto all’essere.
[…]
Ma a ben altro dobbiamo rivolgere ora la nostra
attenzione. La proposizione di Aristotele or ora citata [protai arcai cai aitiai: “i principi primi e le cause prime” –
chiaramente dell’essente] ci indica la direzione verso cui è in cammino ciò
che, da Platone in poi, si chiama “filosofia”. Ci dà un’indicazione su ciò che
la filosofia è. La filosofia è una competenza particolare che ci rende capaci
di accogliere nello sguardo l’essente ed esattamente in vista di ciò che esso è, in quanto è essente.
[…]
Si può obiettare che l’affermazione di Aristotele su
ciò che la filosofia è, non può essere in nessun modo l’unica risposta alla
nostra domanda. Nella migliore delle ipotesi, è una risposta tra le altre.
Rifacendosi alla definizione aristotelica della filosofia è possibile
presentare e interpretare tanto il pensiero che precede Aristotele e Platone
quanto la filosofia dei tempi successivi. Tuttavia si potrà facilmente far
notare come la filosofia stessa e il modo in cui essa ha rappresentato la
propria essenza, abbiano subìto molteplici mutamenti nei due millenni che hanno
seguito Aristotele. Chi potrebbe negarlo? Ma non dobbiamo neppure ignorare il
fatto che la filosofia, da Aristotele a Nietzsche, proprio sulla base di tali
mutamenti e attraverso essi è rimasta la stessa. Infatti i mutamenti sono la
garanzia della parentela nel Medesimo.
[…]
Che cosa risulta da quanto si è detto per il nostro
tentativo di affrontare in un colloquio la domanda: che cos’è la filosofia?
Innanzitutto un primo punto: non possiamo attenerci soltanto alla definizione
di Aristotele. Di qui un secondo punto: dobbiamo richiamare alla memoria le
definizioni anteriori e posteriori di filosofia. E poi? Poi, mettendole
astrattamente a confronto, porremo in evidenza ciò che è comune in ogni
definizione. E poi? Poi ne risulterà una vuota formula, buona per ogni sorta di
filosofia. E poi? Poi ci ritroveremo il più lontano possibile da una risposta
alla nostra domanda. Perché ci si ritrova a questo punto? Perché, procedendo in
tal modo, ci siamo limitati a riunire, alla maniera degli storiografi, le
definizioni esistenti e a dissolverle in forma generale. Tutto ciò può essere
in realtà portato a termine a suon di erudizione e con l’ausilio di prove
inappuntabili. Così facendo, non abbiamo affatto bisogno di dedicarci alla
filosofia al punto di meditarne l’essenza. Così facendo otteniamo conoscenze
varie, approfondite e persino utili, sul modo in cui ci si è rappresentati la
filosofia nel corso della sua storia, ma, su questa via, non giungeremo mai a
una risposta genuina, cioè legittima, alla domanda: che cos'è la filosofia? La
risposta può essere soltanto una risposta che filosofa, una risposta che, in
quanto parola-che-fronteggia (la domanda), filosofa in sé. Ma come intendere
questa affermazione? Come può una risposta filosofare, e proprio in quanto
parola che fronteggia (la domanda)?
[…]
Quando la risposta alla domanda: che cos’è la
filosofia? – è una risposta che filosofa? Quando filosofiamo? Evidentemente,
dal momento in cui dialoghiamo con i filosofi. Questo implica che discutiamo
gli uni con gli altri intorno a ciò che sempre e di nuovo, in quanto è
Medesimo, riguarda propriamente i filosofi, è il parlare, […], il parlare come
dialogo. […].
Una cosa è fissare e descrivere le opinioni dei
filosofi. Ben altra cosa è discutere con loro intorno a ciò che essi dicono e
cioè di ciò di cui parlano.
Posto dunque che i filosofi sono interpellati
dall’essere dell’essente e chiamati a dire che cosa è l’essente in quanto è,
allora anche il nostro colloquio con i filosofi deve essere interpellato
dall’essere dell’essente. Noi stessi dobbiamo, mediante il nostro pensare,
andare incontro a ciò verso cui la filosofia è in cammino. Il nostro dire deve
corrispondere a ciò da cui i filosofi sono interpellati. Quando questa
corrispondenza ci riesce, allora rispondiamo in senso genuino alla domanda: che
cos’è la filosofia? […]. La risposta alla nostra domanda non si esaurisce in
un’asserzione che replica alla domanda constatando e stabilendo a quali
rappresentazioni ricorrere per rendere il concetto di “filosofia”. La risposta
non è una mera asserzione che replica alla domanda, ma è piuttosto la
corrispondenza che corrisponde, fronteggiandola, all’essere dell’essente.
Tuttavia vorremmo subito sapere che cosa costituisce l’elemento caratteristico
della risposta intesa come corrispondenza. Ma tutto sta nel giungere
innanzitutto a un corrispondere, prima di fare una teoria della corrispondenza.
La risposta alla domanda: che cos’è la filosofia? –
consiste nel nostro corrispondere a ciò verso cui è in cammino la filosofia. E
questo è l’essere dell’essente. In tale corrispondere noi prestiamo ascolto,
dall’inizio, a ciò che la filosofia ci ha già detto chiamandoci in causa, […].
Perciò giungiamo alla corrispondenza, cioè alla risposta alla nostra domanda,
solo a condizione di prendere dimora nel dialogo con ciò cui la tradizione
della filosofia ci consegna, vale a dire rende libero per noi. Troveremo la
risposta alla nostra domanda non già ricorrendo ad asserzioni storiografiche
sulle definizioni di filosofia, bensì mediante il dialogo con ciò che si è
tramandato a noi come essere dell’essente.
Questo cammino in direzione di una risposta alla
nostra domanda non è una rottura con la storia, non è una negazione della
storia ma, al contrario, un’appropriazione e una trasfigurazione di ciò che ci
è stato tramandato.
[…]
Ma nel dire queste cose, un dubbio si affaccia al
nostro pensiero. Lo si può formulare in questi termini: dobbiamo innanzitutto
noi darci da fare per giungere ad una corrispondenza con l’essere dell’essente?
Non siamo noi, gli uomini, già da sempre in una tale corrispondenza e, in verità,
non solo di fatto ma a partire dalla nostra essenza? Non costituisce questa
corrispondenza il tratto fondamentale della nostra essenza?
In verità, le cose stanno così. Ma se così è, allora
non possiamo più affermare di dover innanzitutto giungere a tale corrispondenza.
E cionondimeno lo affermiamo a buon diritto. Infatti, benché sempre e ovunque
soggiorniamo nella corrispondenza con l’essere dell’essente tuttavia solo di
rado prestiamo attenzione all’appello dell’Essere. La corrispondenza con
l’essere dell’essente è costantemente la nostra dimora. Tuttavia solo di tanto
in tanto essa diviene un comportamento che noi stessi assumiamo facendolo
nostro e che quindi diviene suscettibile di ulteriori sviluppi. Solo se questo
accade corrispondiamo autenticamente a ciò che riguarda la filosofia, la quale
è in cammino verso l’essere dell’essente. La filosofia è il corrispondere
all’essere dell’essente ma lo è innanzitutto allorché e solo allorché il
corrispondere si realizza espressamente, dispiegandosi e portando a compimento
il suo dispiegarsi. Tale corrispondere accade in modi diversi, a seconda che
l’appello dell’Essere ci rivolga la parola, a seconda che questa venga udita o
resti inascoltata, a seconda che ciò che è stato ascoltato venga detto oppure
taciuto. Il nostro colloquio può offrire occasioni per meditare su tutto ciò.
[…]
Il corrispondere assunto in proprio e dispiegantesi,
che corrisponde all’appello dell’essere dell’essente, è la filosofia. Solo
sperimentando il modo in cui la filosofia è, impariamo a conoscere e a sapere
che cos’è la filosofia. Essa è nel modo del corrispondere che si accorda con la
voce dell’essere dell’essente.
Questo corrispondere è un parlare. Esso è al
servizio del linguaggio. Oggi per noi
è ben difficile capire che cosa significa ciò. Infatti il modo in cui
abitualmente ci rappresentiamo il linguaggio ha subìto strane metamorfosi. In
virtù di queste metamorfosi il linguaggio appare come uno strumento
dell’espressione. Conseguentemente si ritiene più giusto dire che il linguaggio
è al servizio del pensiero, anziché dire che il pensiero, in quanto
corrispondere, è al servizio del linguaggio. Ma, soprattutto, il modo attuale
di rappresentare il linguaggio è quanto c’è di più lontano dall’esperienza
greca del linguaggio. L’essenza del linguaggio si manifesta ai greci come logos. Ma che cosa significano logos e leghein? Solo oggi, lentamente e a stento, cominciamo a penetrare
con lo sguardo, attraverso le più diverse interpretazioni, nell’iniziale
essenza greca del logos. Tuttavia né
possiamo ritornare ogni volta di nuovo all’essenza greca del linguaggio, né
possiamo semplicemente farla nostra. Ma, in compenso, dobbiamo inaugurare un
dialogo con l’esperienza greca del linguaggio in quanto logos. Perché? Perché, in assenza di un’adeguata meditazione sul
linguaggio, non sapremo mai veramente che cos’è la filosofia come il
corrispondere che abbiamo precedentemente caratterizzato, che cos’è la
filosofia come modo privilegiato del dire originario.
Ora, poiché la poesia, se la confrontiamo col pensiero,
è al servizio del linguaggio in un modo totalmente diverso ma altrettanto
privilegiato, il nostro colloquio che riflette sulla filosofia è
necessariamente portato a cercare il luogo del rapporto che intercorre tra
pensiero e poesia. Fra l’uno e l’altra regna una parentela nascosta poiché
entrambi si dedicano al servizio del linguaggio per il linguaggio e si
prodigano per esso. Ma fra l’uno e l’altra sussiste pur sempre un abisso,
poiché «abitano sui monti più separati».
Si potrebbe ora esigere, a buon diritto, che il
nostro colloquio si limiti al problema della filosofia. Una simile restrizione
sarebbe unicamente possibile, e persino necessaria, se dovesse emergere nel
colloquio che la filosofia è altra cosa da come l’abbiamo presentata finora: un
corrispondere che porta al linguaggio l’appello dell’essere dell’essente.
In altri termini il nostro colloquio non si propone
il compito di realizzare un programma stabilito. Esso vorrebbe darsi cura di
preparare tutti coloro che vi partecipano a un raccoglimento meditativo nel
quale possiamo venir interpellati da ciò che chiamiamo l’essere dell’essente.»
Martin Heidegger, Che
cos’è la filosofia?, Il Melangolo, 1997.
PRIMO CAPITOLO
Filosofia: cos’è?
Ogni manuale di storia della filosofia che si
rispetti, dà inizio alla sua ricerca con una traduzione dal greco all’italiano
del termine «filosofia», proseguendo col significato etimologico della parola e
poi, dopo poche righe del primo paragrafo, ricco di riferimenti storici e
sociali, circa la nascita e lo sviluppo della filosofia nella polis greca, ecco comparire
all’improvviso Talete e, via via, cronologicamente, tutti i filosofi più noti
della «Storia della Filosofia».
Eppure, se chiediamo ad un
liceale: “Cos’è la filosofia?”, rimarrà senza parole, senza idee manualistiche
a cui aggrapparsi; solo nominando un “noto filosofo”, Talete Platone Kant
Hegel, riuscirà a fare un lungo sproloquio, omettendo, caso mai solo per
rispetto, di elencare le virgole, i punti e virgola e tutta la punteggiatura
del testo riportata nel capitolo del filosofo su cui è stato interrogato.
Oramai, sta lentamente
morendo la cultura del pensiero!
Lo studio della filosofia,
nella maggior parte delle scuole (superiori, università), è solo uno studio
catatonico suddiviso per settori: c’è il settore delle date cronologiche, ove è
presente la data di nascita e quella della morte; ad esso si collega il settore
del nome del filosofo e, in ultimo, c’è il settore del concetto principale da
esso enunciato. E’ talmente settoriale oggi lo studio della filosofia che gli
studenti sono abituati ad associare il
principio di identità ad Aristotele, ma se un docente gliene parla fuori
dal contesto aristotelico, perché ne mette in luce il significato logico
generale, i ragazzi cascano dalle nuvole. Presentando la filosofia
prevalentemente tramite gli autori, cioè abituando gli studenti a pensare la
filosofia identificandola con Platone, Descartes, Parmenide, etc., lo studente
è spinto, magari inconsapevolmente, ad identificare la natura concettuale di
una tesi con la sua genesi e la sua paternità, cosa tutt’altro che ovvia;
quando invece, nella vita di tutti i giorni, si imbatte costantemente in un
interrogativo etico, in un problema gnoseologico, in un quesito di filosofia
politica e così via, ma, troppo spesso, non è assolutamente in grado di
metterlo a fuoco anche e soprattutto perché le sue conoscenze di filosofia sono
tutte racchiuse nelle cartelle dei filosofi
e non nelle cartelle dei problemi; ma
nella vita, si dà il caso, non si imbatto nei filosofi bensì nei problemi. Bisognerebbe quindi addestrare gli
studenti a fare esempi tratti dall’esperienza ordinaria, quando devono
illustrare cosa significa, supponiamo, concepire le scelte morali in termini
kantiani o epicurei. Attraverso simili esercizi comincerebbero a comprendere
come le ricerche filosofiche riguardano la loro esistenza, individuale e
sociale, e non esclusivamente le elucubrazioni astratte dei filosofi antichi.
L’insegnamento della filosofia dovrebbe piuttosto
trasmettere quell’atteggiamento lucido e disincantato in grado di mettere in
guardia da un uso distorto del ragionare che abbia come obiettivo finale la
dissoluzione della coerenza del pensare. Con qualunque metodologia la si
insegni – storica o teoretica o, meglio ancora, l’una e l’altra insieme – la
filosofia non dovrebbe smarrire alcuni dei suoi principali obiettivi:
innanzitutto il riconoscimento della funzione primaria della razionalità; poi
una conoscenza adeguata del modello antropologico classico e rinascimentale, a
partire dal quale ricostruire un uomo universale nella cui attività riescano a
fondersi immaginazione, competenza e rigore; infine una prassi che superi la
netta distinzione fra gratuità della fantasia e asservimento dell’agire agli
scopi.
A questo punto, però, rimane
sempre e comunque un quesito in sospeso: cos’è la filosofia e, soprattutto,
perché essa, a differenza di tutte le altre materie, fa sorgere, nel cuore
dello studioso e ricercatore, il bisogno di domandarsi “Cos’è?” e la necessità
di dare una risposta a questa domanda?
Nessuno mai, infatti, si è
posto il problema di “Cos’è la letteratura?”, “Cos’è la fisica?”, e “Cos’è la
matematica?”; il primo giorno di scuola si spiega agli studenti cosa queste
materie studiano, qual è il campo da esse preso in considerazione, ma non cosa
esse siano e quel è la loro essenza. Per la filosofia, invece, la questione è
diversa: ogni studioso, o studente che sia, ha sempre sentito dentro di sé che
la filosofia è una materia particolare, diversa dalle altre.
Si dice che “la filosofia
apre la mente”, ma perché le altre materie non hanno questa facoltà?
Si tratta di uno scambio: è
un problema che riguarda il Dare e il
Ricevere.
Le singole materie, la
letteratura, la matematica, ecc., hanno il compito di trasmettere nozioni, dal
testo al cervello umano; la filosofia, invece, prima ancora di trasmettere
nozioni, vuole far nascere emozioni, dalle parole al cuore, e svegliare così la
curiosità di sapere, dalla vita, piena di filosofia e di segnali che ci
rimandano alle sue nozioni, all’anima umana che si alimenta solo col desiderio
di conoscenza e la sensazione di non sentirsi mai sazia, mai appagata, ma
sempre alla ricerca di qualcosa in più da sapere, da conoscere e farlo proprio.
Non a caso, ritornando al
discorso etimologico (giusto se fatto adesso ma errato se svolto all’inizio del
testo), il termine «filosofia» significa «Amore per la Sapienza» e il suo
compito è proprio quello di sviluppare, in ogni essere umano, l’amore per il
sapere e il desiderio di sapere sempre di più, senza alcuna sosta, pausa o
alcun tipo di ostacolo di percorso. Ma questo si raggiunge solo mediante
un’attività dell’anima secondo ragione. Attività che comporta un movimento
sussultorio delle nostre membra, l’agitarsi del nostro spirito ed un’eterna
sete di sapere.
La filosofia, dunque, è una
materia nobile, ma che appartiene a tutti; la letteratura, la matematica, la
fisica, ecc., al contrario, sono materie quotidiane che appartengono ai pochi
che sono in grado di afferrare con la mente certe nozioni mnemoniche.
Anche per Platone la
filosofia non è una scienza come le altre, essa è misteriosa e un po’ magica,
la sua acquisizione è quanto mai incerta e a volte affidata al caso,
all’incontro, alla «vita vissuta in comune», tra amici, e, infine, all’imprevedibile accendersi di un «fuoco»
nell’anima. Così si esprime nella VII Lettera: “Non è questa mia una scienza
come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma
s’accende dal fuoco che balza: nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo
periodo di discussioni sull’argomento, e una vita vissuta in comune, e poi si
nutre di sé medesima”.
Soffermandoci
sull’espressione «essa non si può in alcun modo comunicare», possiamo ben
vedere che ancora oggi, dopo circa 2400 anni, la situazione non sembra molto
cambiata: «Non si sa ancora con certezza se davvero sia possibile comunicare o
insegnare la filosofia entro le normali forme della didattica e della
comunicazione; non si sa se esista o meno un misterioso “incontro” che
garantisca l’acquisizione di una competenza filosofica, e se tutto dipenda o no
da una certa “fiamma” che si accende all’improvviso nell’anima. Né si sa ancora
con certezza cosa sia o debba essere “la filosofia”, se abbia ancora un senso
usare questo termine, se la cosa da esso designata in qualche modo e senso
tuttora esista. E – posto che queste domande abbiano avuto esito positivo – non
si sa se la filosofia debba essere collocata tra le discipline umanistiche o
tra quelle scientifiche, o in una terra di nessuno specificatamente filosofica.
Né si sa se abbia davvero senso parlare di filosofia “applicata”, o se sia
utile una specie di vaga e preliminare preparazione filosofica nella pratica di
ogni sapere»[1].
Sembra che improvvisamente
non si sappia nulla su questo termine; infatti, «il discorso comune ne parla,
incessantemente, con i significati più disparati: dal filosofo che sta con la
testa tra le nuvole sino all’idea, completamente opposta, che chi prende la
vita con filosofia si adatta (o magari si rassegna) alle cose spiacevoli che
gli accadono perché avrebbe capito (facendo dunque un’operazione razionale
senz’altro non da acchiappanuvole) che esse sono al di fuori della sua
possibilità di cambiarle»[2].
La filosofia ci lascia senza
parole e, nello stesso tempo, ci lascia liberi di esprimere infinite
interpretazioni su di essa, sul suo significato come sul suo utilizzo. Essa, al
contrario delle altre materie, è priva di vincoli, non è legata ad un unico
argomento, ma è in grado di toccarli tutti (quello medico, politico,
umanistico, scientifico, artistico, matematico, ecc.). Essa fa parte della vita
e la vita è piena di segnali filosofici. La filosofia è insita nello spirito
umano fin dall’inizio dei tempi, e la sua scoperta, per ogni singolo individuo,
non è altro che un discorso socratico: un eterno domandarsi il “Perché?” di
tutto ciò che ci circonda e di ciascun evento tocca la nostra esistenza; è
un’infinita ricerca delle risposte e delle verità che sono in noi.
Il filo conduttore che
attraversa e lega tutta la storia della filosofia riguarda proprio il bisogno,
anzi la necessità, di interrogarsi. E l’uomo, come essere pensante (cogito), è l’origine e lo scopo ultimo
del domandare. Egli si interroga intorno a se stesso e la filosofia è quel
metodo razionale con cui egli cerca delle risposte.
Tutto questo “domandarsi e
rispondersi” è fonte di emozioni che sussultano nel nostro essere, emozioni che
ci conducono alla meravigliosa sensazione della razionale curiosità in grado di
stupirsi di fronte all’eterno divenire e ci permettono di cogliere l’essere
sempre unico e soggettivo nella sua esistenza. Curiosità infinita per un sapere
infinito, perché senza la conoscenza l’uomo non è nulla. La conoscenza ci rende
liberi. Conoscenza infinita, conoscenza enciclopedica. Desiderio infinito di
sapere.
Questa è la filosofia!
In breve, tutti i filosofi,
dalle origini agli ultimi tempi, considerano la filosofia come un tentativo di
dar senso a tutte le cose, e quindi come il tentativo di misurarsi con l’intero.
«La totalità delle cose e
tutto il reale non significano l’insieme
di tutte le singole cose e realtà particolari, nel senso che l’intero non è
mera somma di parti. [La parola] intero non implica un approccio quantitativo
alla realtà, bensì una particolare ottica che ha uno specifico carattere qualitativo, ossia una peculiare
angolazione mediante la quale si cerca di vedere tutte le cose in funzione di
un principio o di principi primi da cui derivano, e quindi in senso globale che
ne fa appunto un insieme significativo»[3].
La domanda sul significato
della vita, variante esistenziale della domanda sul tutto, non è banale; anzi,
essa caratterizza l’essere umano, al punto che nulla di ciò che l’uomo ha fatto
di più nobile nella storia è comprensibile al di fuori di quella domanda. La
filosofia, in fondo, è un entrare in contatto con la domanda sul tutto che si
ha in sé. Essa è, infatti, un sapere integrale il cui primo scopo sta nel
chiarire agli uomini il significato stesso della loro esistenza, nell’aprirli a
una verità che non è mai separata dalla percezione del corpo e dalla
riflessione della mente. L’orizzonte della verità, in altri termini, che
costituisce la meta all’interno del tutto, è il senso che essa assume per
l’essere umano.
Il filosofo fa filosofia solo se sa guardare il
tutto, l’intero dell’essere, per tendere alla contemplazione della verità da
raggiungere come fine ultimo, e non per fini pratici e pragmatici. Guardare
l’intero, pensare l’intero, favorisce l’acquisizione di una duttilità mentale
tipica di chi sa ripensare la parte, perché mosso da un’ipotesi di significato
sull’intero, e sa reinterrogarsi sull’intero, perché abituato a non
accontentarsi delle spiegazioni già conosciute. Non si tratta solo di
criticità, ma di un amore per il vero, che la filosofia insegna a vivere con
consapevolezza.
Questo “intero” non è altro che un tendersi
nell’eternità del tempo attraverso il confronto con il vecchio e il nuovo,
l’antico e il moderno, il passato e il futuro. La filosofia non è altro che un
proiettarsi in avanti come indietro, al fine di essere presente in ogni tempo.
Il tempo della filosofia, infatti, è il presente eterno del dialogo fra gli
uomini. Un dialogo nato in un tempo senza tempo, perché non ha data, in quanto
è nato con l’uomo; un dialogo che comprende, oltre alla voce umana, anche
l’armoniosa poesia della Natura; e che, ancora oggi, vive nel mondo.
Ancora una volta, parliamo
del dialogo socratico: un dialogo che non ha alcuna pretesa di pronunciare
sentenze eterne, universali o assolute come dogmi, ma, piuttosto, verità
soggettive, e per questo uniche, faticosamente partorite da quella piccola
“materia grigia” presente nella mente umana, e chiamata razionalità. Questo è
un dialogo svolto fra dialoganti sordi
e ciechi: non vedono il colore della
pelle, non odono ideologie di partito o religiose; essi non sono rivali, ma
amici; perché la razionalità non combatte le differenze, ma si nutre di esse.
«L’elogio della differenza
si chiama infatti modernità»[4],
così ha scritto Flores D’Arcais in un suo testo del 1992, intendendo il termine
«differenza» come valore: differenza delle comunità, dei popoli, delle culture,
delle loro radici religiose: identità
radicate, anziché differenze radicali.
La tutela della differenza
equivale ad accettare il singolo quale
che sia: elogiare il diritto dell’individuo alla libera scelta della sua differenza, premiare quella
differenza omologante della comunità ed accogliere le infinite radici delle
culture altre.
«L’uomo – ha scritto il
filosofo Pietro Pini – va verso la verità con tutto il proprio essere, e dunque
con tutte le differenze che ne fanno un essere determinato reale»[5].
Il dialogo non trasmette un
sapere già preconfezionato, una informazione, ma l’interlocutore conquista il
proprio sapere con uno sforzo personale, lo scopre per conto proprio, pensa per
conto proprio.
Non si tratta, dunque, di
una lotta tra due individui, nel corso della quale il più abile potrà imporre
il suo punto di vista, ma piuttosto di uno sforzo condotto insieme da due (o
più) interlocutori che vogliono giungere ad un accordo tramite le esigenze
razionali del discorso sensato, del logos.
Grazie a questo accordo tra interlocutori, non sarà uno degli interlocutori ad
imporre la sua tesi all’altro; al contrario, il dialogo insegna loro a mettersi
uno al posto dell’altro superando i propri punti di vista. Con il loro sforzo
sincero, gli interlocutori scoprono, grazie a se stessi e in se stessi, una
verità indipendente da se stessi: il logos.
Questo logos, non rappresenta una
sorta di sapere assoluto; di fatto si tratta di un’intesa che si stabilisce tra
gli interlocutori e li conduce ad ammettere, di comune accordo, alcune tesi,
superando i propri punti di vista individuali; insomma, questo logos è il discorso, uno scambio di idee, che implica un’esigenza di razionalità
e di universalità.
La filosofia, dunque, è
quella linfa che permette al nostro intelletto di trasmettere più vitalità al
cuore: infatti il nesso, il legame che deve esistere affinché la filosofia si
faccia vita e la vita sia la fonte della filosofia è un legame che tiene uniti,
sullo stesso livello, la nostra mente ed il nostro cuore, la razionalità e le
emozioni. Perché in fondo, questa unione, quando esiste, è l’unica davvero in
grado di coinvolgere tutto il nostro essere e di far crescere nello stesso
tempo la nostra “materia grigia” e le nostre esperienze di vita.
L’incessante studio del ricercatore diventa, a
questo punto, interessante e problematico: egli si trova, non tanto dinanzi a
un bivio che richiede una scelta istintiva, quanto dinanzi a un’ennesima
domanda, che non richiede una risposta casuale, ma, piuttosto, pretende
un’intuizione razionalmente ponderata, ponderata e riflettuta in ogni sua parte
e soprattutto rispetto alle conseguenze che ne determinano nel nostro percorso
di pensiero.
Una volta compreso che
l’essenza delle filosofia è un’emozione in grado di agitare fino all’euforia le
nostre membra e che il sapere, anzi, il desiderio infinito di conoscenza, è
l’unica fonte della nostra esistenza; dopo aver razionalmente intuito questa
passione, allora, e solo allora, è possibile, per me, continuare a scrivere,
per voi, continuare a leggere, e per tutti, continuare a pensare.
Quando si pronuncia la
parola «Filosofia», spesso nella mente si crea uno scompiglio tale per cui
questa disciplina non trova collocazione, vaga come impazzita senza trovare
sosta, un posto suo, o, peggio, il suo compito rispetto alle altre. Poiché
tutte le discipline sono fonte di conoscenza e generano vitalità e passione
nell’intelletto umano; allora, che differenza c’è (se c’è!) tra la filosofia e
le altre discipline?
Abbiamo sentito
“sentenziare”, più di una volta, che “le altre discipline” prendono in
considerazione un solo aspetto della scienza infinita, e per questo vengono
catalogate come discipline in grado di trasmettere soltanto un sapere
Individuale; la filosofia, invece, è l’unica disciplina in grado di trasmettere
una conoscenza assoluta ed enciclopedica, cioè Universale. Eppure nessuno di
questi termini (Individuale – Universale) ci rimanda ad alcun sussulto
dell’anima né sembrano generare sete di sapere; anzi, sono così aride e prive
di senso che troppo spesso la spengono.
La filosofia, infatti, “diluita” nelle varie
discipline corre spesso il rischio di ridursi a una serie di nozioni, che
possono forse avere un certo interesse storico, ma debbono semplicemente essere
apprese e ricordate, senza essere capite. Una “diluizione” della materia
impedirebbe di usare i testi, di proporre attività di rielaborazione
concettuale, cioè di fare didattica della filosofia ed esperienza filosofica,
riducendo i contenuti eventualmente recuperati a una mera trasmissione di
nozioni.
Il compito della filosofia
va invece ricercato in quell’euforia che essa stessa genera. Esso consiste
soprattutto nell’educare al pensare, al “pensare in proprio”, all’esercizio di
una riflessione consapevole e possibilmente critica, che sola può consentire a
chi vi ci si dedica di raggiungere una piena dignità personale, al fine di non
subire passivamente comportamenti, mode o stati di soggezione culturali, indipendentemente dalle proprie o altrui
opinioni. Esso, insieme al desiderio incessante di conoscere, si rivela come
generatore di pensiero proprio, un
camminare con le proprie gambe: ci troviamo qui dinanzi alla trasformazione del
pensiero in potenza che si fa atto, che non usa parole altrui, ma che in ogni
sua parola è unico e irripetibile, e che, autoaffermandosi, lentamente impara
ad essere un tutt’uno con la vita.
Educazione alla ricerca, dunque, come educazione
alla maturazione autonoma delle idee, alla libertà creativa, alla comprensione
del passato e del nostro tempo.
In questo senso, la
filosofia ci rende capaci di filosofare, perché essa, a differenza di ogni
altra materia, è l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti. Ma il
concetto non è dato o già fatto, non sta ad aspettarci come fosse un corpo
celeste. Non c’è un cielo per i concetti: il concetto è da creare. Ciò vuol
dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o
fabbricare concetti, poiché i concetti non sono necessariamente delle forme,
dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina
che consiste nel creare concetti. Le scienze, le arti, sono ugualmente
creatrici, ma solo alla filosofia spetta il compito di creare concetti in senso
stretto. Il concetto della filosofia non è formato, esso pone se stesso in se
stesso, è autoposizione. Quanto più il concetto è creato, tanto più esso si
pone, indipendentemente e necessariamente: il più soggettivo sarà il più
oggettivo.
Nietzsche ha determinato
così il compito della filosofia: “I filosofi non devono limitarsi a ricevere i
concetti, a purificarli e a rischiararli, ma devono cominciare col farli, col crearli, col porli, e cercare di inculcarli”. Secondo la sentenza
nietzschiana, non conosceremo niente attraverso i concetti se non li avremo
prima creati, cioè costruiti con un’intuizione che è nostra, partorita da noi.
Soltanto così ogni creazione sarà davvero singolare, perché il concetto, come
creazione puramente filosofica, è sempre una singolarità.
Dunque, creare concetti sempre nuovi è il compito della filosofia.
Il concetto, quindi, non è già fatto e, per quanto
creato, ha sempre bisogno di una base che dia valore alla sua espressione e che
riveli il senso di ciò che si vuole studiare. Esso ha bisogno di un problema,
il che significa delimitare un campo, ritagliare spazi all’interno della
gerarchia dei saperi, saper definire che cosa nel problema propriamente fa
problema.
“Si tratta, per parlare con
le immagini, di scalare una montagna. L’impresa riesce se noi, anziché restare
nella pianura del modo corrente di pensare per tenere dei discorsi sulla
montagna, cominciamo subito la salita verso la vetta con lo scopo di farne
«esperienza diretta»”. (Heidegger): l’ascesa a quella montagna, che è il
problema che ci sta di fronte, implica un’esperienza che ci muta e insieme a
noi muterà il problema. Ecco dunque che problematizzare è innanzitutto un atto
profondamente etico. Si tratta infatti di problemi non solo teoretici (i
cosiddetti “eterni problemi”), ma anche politici ed etici (i problemi della
bioetica, del modello di sviluppo, della pace e della guerra, ecc.), che si
presentano nella dimensione individuale, collettiva e planetaria: sono temi
etici importantissimi e fecondi, di estrema rilevanza, sia all’interno della
vita individuale quanto per una pacifica convivenza tra la collettività.
Nessun concetto dunque
esiste senza un problema, ma, allo stesso tempo, nessun problema può essere
analizzato e risolto senza la presenza di un Io pensante. Di una mente, cioè,
in grado di creare la storia del suo concetto e dunque in grado di dargli la
vita, in quanto gli trasmette il divenire dell’esistenza infinita.
Quest’Io pensante è il
filosofo, l’unico in grado di cogliere la molteplicità come unicità, insieme di
parti che formano un tutto mai completamente definito, sempre in
trasformazione, in movimento. E solo il filosofo può creare concetti. La filosofia, nella sua essenza, si rivolge anche
ai non-filosofi; ma il filosofo è l’unico che ha davvero il carisma, la
passione, l’enfasi per comprendere la filosofia, per filosofare e soprattutto
per creare concetti. Ed in questo creare egli non genera stereotipi universali,
come dogmi infallibili a cui si rinviano verità intoccabili; il concetto non
deve essere inteso come la creazione di una generalità o di una particolarità,
ma piuttosto come una pura e semplice singolarità che si autoafferma senza
pretese, ma con la sola richiesta di vivere; perché, in quanto creato, vuol
dire che è stato pensato.
L’opera del filosofo si
rivela dunque coma la creazione di sensazionali novità, in grado di sfidare (e
vincere) ogni opinione, ogni luogo comune. La sensazione che egli crea è l’eccitazione
stessa, in grado di conservarsi perché conserva le sue vibrazioni. Le stesse
vibrazioni che hanno distrutto il mausoleo delle opinioni e sono state in grado
di illuminare, anche solo per un istante, il caos della mondanità.
Al momento della creazione,
il filosofo ha inoltre bisogno, oltre alla sua mente raziocinante, di un
problema, astratto o reale, in cui creare concetti o rimaneggiare e sostituire
quelli esistenti, ma, in entrambi i casi (creazione del nuovo o sostituzione
del vecchio), egli deve essere in grado di creare ponti che lo colleghino ad
altri problemi che, a loro volta, lo conducono alla creazione di sempre nuovi
concetti, fino ad avere davanti a sé una rete
concettuale fatta di ponti-incroci che si accavallano, si legano, si intersecano,
e creano i loro contorni.
Sembra un recinto definito
dai suoi componenti. Una storia con un inizio e una fine. Quasi lo si può
definire un tutto, ma rimane sempre un tutto
frammentario, perché ogni concetto rinvia ad altri concetti, non soltanto
nella sua storia ma anche nel suo divenire o nelle sue connessioni presenti. I
concetti vanno dunque all’infinito.
La filosofia si presenta
quindi come un costruttivismo che ha due aspetti complementari: creare dei
concetti e tracciare un piano.
Gelles Deleuze e Félix
Guattari hanno definito così questi due aspetti:
«I concetti sono
l’arcipelago o l’ossatura, una colonna vertebrale piuttosto che un cranio,
mentre il piano è la respirazione che bagna queste isole. I concetti sono
superfici o volumi assoluti, difformi e frammentari, mentre il piano è
l’assoluto illimitato, informe, né superficie né volume ma sempre frattale. I
concetti sono concatenamenti concreti in quanto configurazioni di una macchina,
ma il piano è la macchina astratta i cui pezzi sono i concatenamenti. I
concetti sono eventi, ma il piano è l’orizzonte degli eventi, il serbatoio o la
riserva degli eventi puramente concettuali: non è l’orizzonte relativo che
funziona come limite, cambia a seconda dell’osservatore e ingloba stati di cose
osservabili, bensì l’orizzonte assoluto, indipendente da ogni osservatore, e
tale da rendere l’evento come concetto indipendente da uno stato di cose
visibili in cui si effettuerebbe. I concetti lastricano, occupano, o popolano
il piano, pezzo per pezzo, mentre il piano è a sua volta l’ambito indivisibile
in cui i concetti si distribuiscono senza romperne l’integrità, la continuità:
essi occupano senza contare (la cifra del concetto non è un numero) oppure si
distribuiscono senza dividere. Il piano è come un deserto che i concetti
popolano senza dividere. I concetti sono le sole regioni del piano, ma fuori
del piano non ci sono concetti. Le sole regioni del piano sono le tribù che lo
popolano e lo percorrono. Il piano assicura il raccordo dei concetti con delle
connessioni in perenne aumento e i concetti assicurano il popolamento del piano
su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile.
Il piano di immanenza non è
un metodo; non è neanche un insieme di conoscenze sul cervello e sul suo
funzionamento; e non si tratta neanche dell’opinione che si ha del pensiero,
delle sue forme, dei suoi scopi o dei suoi mezzi in questo o in quel momento.
Il piano di immanenza non può neanche essere un concetto, in quanto non è
pensato né pensabile; esso è l’immagine del pensiero.
L’immagine del pensiero
implica ciò che il pensiero può rivendicare di diritto: ciò che il pensiero rivendica di diritto è il movimento
che può andare all’infinito, movimento infinito o movimento dell’infinito.
Movimento che non rinvia a coordinate spazio-temporali. Orientarsi nel pensiero
non implica un punto di riferimento o un obiettivo. In movimento è l’orizzonte
stesso. Il movimento infinito è definito da una andata e ritorno, perché esso
non va verso una destinazione senza fare già ritorno su se stesso, essendo
contemporaneamente l’ago e il polo. Si tratta di una reversibilità, di uno
scambio immediato, perpetuo, istantaneo, un lampo. Il movimento istantaneo è
doppio, tra l’uno e l’altro non c’è una piega. In questo senso si dice che
pensare ed essere sono una sola e stessa cosa. Anzi, il movimento non è
immagine del pensiero senza essere anche materia dell’essere»[6].
In filosofia, tra il “creare
concetti” e il “tracciare un piano” non c’è un prima e un dopo: «il concetto è
l’inizio della filosofia, ma il piano ne è l’instaurazione. La filosofia è al
tempo stesso creazione di concetti e instaurazione del piano»[7].
Insieme, concetti e piano, sono, per la filosofia, strumenti che gli permettono
di acquisire una consistenza effettuale.
A questo punto, ad una mente
poco esperta potrebbe sembrare che gli elementi del piano siano semplici
definizioni nominali in rapporto ai concetti; invece lo scopo del concetto, e,
attraverso una visione più ampia, lo scopo della filosofia, è quello di trovare
la sua attualizzazione nell’essere. Essa, ed in essa il concetto posto su un
piano infinito, ricercano incessantemente di acquisire il connotato di tratto intensivo.
Si tratta della capacità di
costruire superfici con contorni irregolari, frammentari, ove ogni singolo
elemento è in grado di proliferare sempre nuovi concetti, estesi su un
orizzonte infinito, e di renderli attivi.
E’ il termine «infinito» che
più di tutti determina l’essenza della filosofia, dei concetti, come della vita
stessa. E nello stesso tempo spiega l’incapacità di ogni tentativo di
determinare l’essenza di ciò a cui esso è qualità.
Per Anassimandro
l’«infinito», l’àpeiron, è principio,
fondamento e termine di tutte le cose; per i cristiani «infinito» è Dio e la
sua bontà; per Giordano Bruno e Niccolò Copernico «infinito» è l’universo che
comprende una molteplicità inesauribile di cose e di mondi; infine, per
Cartesio non è possibile pensare l’«infinito» come un’idea, bensì solo come
negazione del finito, in quanto l’«infinito» (ciò che non ha limiti nello
spazio e nel tempo) precede la percezione del finito e costituisce un argomento
per dimostrare l’esistenza di Dio: “perché vedo con chiarezza che si trova
maggior realtà nella sostanza infinita che in quella finita e che pertanto in
me, prima di tutto, c’è in qualche modo la nozione dell’infinito anziché quella
del finito, ossia quella di Dio prima di quella di me stesso” (Cartesio, Meditazioni metafisiche).
Al contrario per i
metafisici l’infinito è l’assenza di compiutezza: «per Aristotele l’infinito
non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un tutto; esso è parte, cioè incompiutezza e inesauribilità. […] Per
Platone l’infinito è ciò che è privo di numero o di misura, che è suscettibile
del più e del meno e perciò esclude l’ordine e la determinazione»[8].
Vastità infinita priva di
contorni o assenza di compiutezza: l’infinito delinea comunque e sempre
un’entità che si trova ai margini del mondo, solo perché è in grado di
esprimere concetti che lo comprendino, non tanto nelle parole o nelle nude
azioni, ma nella consistenza del suo essere. In quanto è stato creato, egli si
pone in se stesso e negli altri, non reclama relatività o assolutezza, bensì
essenza. Non importa se vive in un mondo ideale o reale, reale ma non attuale,
ideale senza essere astratto; ciò che importa è la sua capacità di esistere
come centro di vibrazione, sia al proprio interno che in rapporto ad altri,
così da distruggere e creare contemporaneamente, dando senso all’eterno
divenire della storia.
In sintesi il piano, i
concetti, i loro ponti-incroci che li collegano a nuovi problemi fino a creare
una struttura stratificata, multiforme, e la rete concettuale che ne evidenzia
i contorni, non sono altro che gli elementi del nostro pensiero. Non si può
dunque intendere un filosofo come colui che ha sostituito il “piano di
immanenza” del suo predecessore allestendo una nuova immagine del pensiero. Né
è possibile immaginarlo come colui che ha cambiato ciò che significa pensare.
«In compenso, non sono filosofi quei funzionari che non solo non rinnovano
l’immagine del pensiero ma non hanno neanche coscienza di questo problema,
beati all’interno di un pensiero bell’è pronto e ignari persino del travaglio
di coloro che pretendono di prendere a modello»[9].
Questa ambiguità tra colui
che crea e che si sente il ristrutturatore e “salvatore” del pensiero, si
spiega nel fatto che tutti noi siamo in realtà gli elementi del piano. E questo
piano altri non è che la razionalità, ove ogni pedone è unico nella sua storia
e dove, a sua volta, la trama della sua esistenza è capace di generare sempre
nuovi problemi espressi concettualmente.
«La filosofia [infatti] è
divenire, non storia; è coesistenza di piani, non successione di sistemi»[10].
Così ogni filosofo è come il
tassello di un puzzle: egli è necessario quanto gli altri; serve in quanto è se
stesso e serve per creare diramazioni e ponti mobili che lo colleghino ad
infiniti altri elementi.
Tuttavia, il puzzle (per
fortuna!) non sarà mai completo, è in continua evoluzione e trasformazione. Non
diverrà mai una “bella foto” da incorniciare e apprendere al muro come un
quadro, in balia del tempo e della polvere; piuttosto è esistenza che si fa
attuale e, nello stesso tempo, si tramuta in viva attualità quando è alimentata
dal pensiero. Perché nell’enunciazione filosofica non si fa qualcosa dicendolo, bensì pensandolo. «Pensare consiste nel
tendere un piano di immanenza capace di assorbire la terra»[11].
Affinché il pensiero si
faccia essere c’è bisogno però che
esista un rapporto: il puro pensiero pensa l’oggetto come pura astrazione,
vuota universalità; esso pensa, ma non pensa l’essere. Il Pensiero-Essere,
invece, instaura al suo interno, e rispetto al mondo esterno, un rapporto col
soggetto come universalità concreta e, nello stesso tempo, come individualità
universale. Il filosofo, per farsi essere, abita una struttura dell’Essere ed
in questo modo la filosofia si confonde necessariamente con la propria storia.
Solo così il pensiero, col
suo creare concetti e generare, incessantemente, nell’animo umano la necessità
continua di allargare i propri orizzonti, dunque, soltanto il Pensiero-Essere,
in cui la razionalità vive e partecipa della vita, rende il Soggetto-Uomo
davvero immortale, come Io-Pensante che vive nel passato, nel presente e nel
futuro, quindi al di fuori del tempo perché infinitamente esistente nel tempo
stesso, eternamente immortale.
Il discorso è comunemente inteso come un’operazione
seriale di affermazioni che si susseguono fra loro; è un concatenamento
intellettuale di enunciati in cui ognuno trae il proprio valore dal precedente
e ne costituisce la conclusione, in modo tale da cogliere la realtà.
L’uso comune che se ne fa è
soprattutto quello di uno strumento a fiato: costituisce il suono della mente,
le corde vocali dei nostri pensieri; e, a sua volta, spesso contro la volontà
decisionale del soggetto, esprime il suo stesso stato d’animo: collera, rabbia,
tristezza, o gioia, infatti, vengono espressi dalla tonalità e dagli intervalli
del suono della voce, accompagnati dalle espressioni del viso, dal gesticolare
o restare impassibile di fronte alle emozioni che il soggetto stesso esprime.
Dunque, il discorso è
costituito da parole che si susseguono una dopo l’altra, con un ordine seriale
o, a volte, anche casuale; si accavallano come una pila di mattoni e danno
origine a infinite costruzioni: case, castelli, torri, produzioni artistiche o
di semplice arredo urbano, perché in fondo, si tratta sempre di colloquiali
pettegolezzi o altezzose conferenze in smoking.
Il discorso può avere
infinite connotazioni e qualità; ma al termine «discorso filosofico», che dà in
parte il titolo a questo capitolo, non attribuisco assolutamente il senso di un
modo di parlare che rivela un atteggiamento, bensì il senso filosofico di un
«pensiero discorsivo» espresso in un linguaggio scritto o orale. Non si tratta
degli antichi dibattiti pubblici nel corso dei quali i sofisti rivaleggiavano
per mostrare il loro talento, contrapponendo l’uno all’altro le rispettive
argomentazioni riguardo a tematiche che non erano legate a un problema
specifico, giuridico o politico che fosse, ma alla cultura in generale.
Intendo piuttosto parlare di
un modo di essere, perché tale è la filosofia: un modo di vivere strettamente
connesso al discorso filosofico. La conoscenza, infatti, non è solo, come si
pensava un tempo, un fatto mentale: è molto di più. Essa consiste
nell’assunzione di uno stile, di un modo di essere che coinvolge l’individuo anche
nell’agire. Il possesso del lessico e delle strutture logiche non basta: è
necessario saper creare una prassi che trovi negli elementi filosofici le
regole di base, ma che poi si serva di una sintassi operativa che consenta al
singolo di formulare e ripensare in proprio i problemi della filosofia.
Affinché il grande imperativo, che chiunque si avvicina alla filosofia “impone”
a se stesso, diventi: fare filosofia.
Questo vuol dire che non si
possono considerare i discorsi filosofici come realtà che esisterebbero in sé e
per sé e studiarne quindi la struttura indipendentemente dal filosofo che li ha
elaborati. Sarebbe come scindere la testa da un corpo, o valorizzare il
prodotto di un falegname senza dar credito al suo costruttore, o, ancora,
sarebbe come innamorarsi di parole senza conoscerne la fonte, quando invece, è
proprio la storia del soggetto e l’ambiente che lo ha circondato, a
permettergli di pronunciarle.
Per comprendere infatti
un’opera filosofica bisogna tener conto delle condizioni particolari della vita
filosofica in quel periodo, scoprirvi l’intenzione profonda del filosofo, che è
quella non già di sviluppare un discorso fine a se stesso, ma di agire sulle
anime. Qualsiasi asserzione deve essere intesa in base all’effetto che mira a
produrre nell’anima dell’uditorio o del lettore.
Si tratta, sempre e
soprattutto, come vedremo meglio in seguito, non di comunicare un sapere già
pronto, ma di «formare», cioè di insegnare un saper fare, una capacità nuova di
giudicare e di criticare, e di trasformare; ossia, come ciò che è scritto
scaturisce da una scelta di vita, così lo scopo di chi pensa ed espone il
proprio pensiero attraverso le parole, su carta o a voce, è di cambiare il modo
di vivere e di vedere il mondo di chi ascolta o legge.
Il discorso filosofico ha
dunque origine da una scelta di vita e da un’opzione esistenziale, e non
viceversa. La scelta di un modo di vivere non si colloca mai alla fine di un
processo di attività filosofica, come una sorta di appendice accessoria, ma, al
contrario, si colloca proprio all’origine di tale processo, all’interno di una
complessa interazione tra la visione globale di un certo modo di vivere e di
vedere il mondo, e la decisione volontaria di per sé.
Questa decisione e questa
scelta poi non avvengono mai in solitudine: filosofia o filosofi non si trovano
mai se non all’interno di un gruppo, di una comunità, di una «scuola»
filosofica che corrisponde, prima di tutto, alla scelta di un certo modo di
vivere, a una certa scelta di vita, a una certa opzione esistenziale che esige
dall’individuo un totale cambiamento di vita, una conversione di tutto
l’essere; insomma un certo desiderio di essere e di vivere in un certo modo.
Tutto questo perché non c’è
vero sapere che nel dialogo vivente.
Si tratta di una vera e propria
esistenza filosofica, all’interno
della quale si instaura una comunione nella vita e nel dialogo tra maestri e
discepoli. Parliamo di un’esistenza completamente disinteressata, al di fuori
della politica partitica, del tutto aliena alla pratica religiosa e ignara
degli esperimenti tecnologici del progresso. Contemporaneamente, però,
l’esistenza filosofica è un’elevazione del pensiero: un dialogare ininterrotto
su ogni genere di argomento, senza schierarsi da una parte o dall’altra, senza
riserve su chi è vicino, perché l’importante è solo e unicamente il pensiero.
Il pensiero inteso come attività razionale che lavora senza pausa e che, se
stimolato da altri pensieri, è in grado di crescere all’infinito. Il pensiero
non è il nostro cervello, né può essere visto come un semplice contenitore
senza fondo; il pensiero, in grado di creare concetti, di inventare e produrre,
di dialogare, di difendere le proprie idee e viverle nella quotidianità
dell’esistenza, questo pensiero è la nostra anima, quel soffio vitale che
determina la vita e che non muore con la fine del corpo.
L’esistenza filosofica è
dunque un’esistenza totalmente dedicata allo studio e alle pratiche spirituali,
alla meditazione e alla riflessione, all’interno di una cerchia di amici, come
una comunità ove tutto è condiviso. Esistenza in cui alcuni possono, caso mai,
trovarsi in disaccordo su determinati punti della dottrina, ma, ciò non toglie
che tutti, a livelli diversi, si trovano d’accordo sulla scelta di un modo di
vivere. E’ il genere di vita praticato dagli interlocutori, che consiste
nell’aderire all’etica del dialogo, nella misura in cui, nell’atto di
dialogare, essi fanno l’esperienza del logos,
che li trascende. In una simile prospettiva, l’oggetto della discussione e il
contenuto dottrinale assumono un’importanza secondaria. Ciò che conta è la
pratica del dialogo insieme alla trasformazione che comporta. Perché, citando
Hadot, «vivere in modo filosofico significa volgersi alla vita intellettuale e
spirituale, realizzare una conversione che mette in gioco «tutta l’anima»,
ovvero tutta la vita morale»[12].
Questa esistenza, dunque,
corrisponde a un genere di vita interamente consacrato alle attività dello
spirito: essa non viene sottomessa alle intermittenze dell’azione, non produce
fatica; essa apporta piaceri meravigliosi, stabili e solidi, che non si
mescolano al dolore e alle impurità. Essa assicura l’indipendenza intellettuale
nei confronti degli altri, nella misura in cui ci si sia assicurati,
innanzitutto, l’indipendenza nei confronti delle cose materiali.
La filosofia è, dunque,
contemporaneamente e indissolubilmente discorso e modo di vivere. Non si
dovrebbero infatti contrapporre queste due entità come se corrispondessero
rispettivamente alla pratica e alla teoria. Il discorso può avere un aspetto
pratico, nella misura in cui tende a produrre un effetto su colui che ascolta o
che legge. Quanto al modo di vivere, esso potrà essere non già teorico,
evidentemente, bensì teoretico, ossia contemplativo.
Quando gli antichi (Platone, Aristotele) tenevano un
corso, non si trattava di un “corso” nel senso moderno del termine: non si
trattava di «informare», di travasare nello spirito di coloro che ascoltavano
un certo contenuto teorico, ma piuttosto di «formare» e di sviluppare una
ricerca in comune: questa è la vita teoretica.
Non si è infatti filosofi in
funzione dell’originalità o dell’abbondanza del discorso filosofico creato o
sviluppato, ma in funzione del modo in cui si vive. E il discorso è filosofico
solo se si trasforma in modo di vita. Insomma, non esiste discorso che meriti
di essere chiamato filosofico se è separato dalla vita filosofica, e non esiste
vita filosofica se non è strettamente legata al discorso filosofico.
E’ infatti la scelta di vita
del filosofo che ne determina il discorso; e non viceversa.
In altre parole, l’esistenza filosofica non può fare a meno
del discorso filosofico, a condizione
che questo discorso sia ispirato e animato da essa.
Il discorso filosofico
teoretico nasce da un’opzione esistenziale e ad essa ritorna, nella misura in
cui incita a vivere realmente in conformità alla scelta iniziale, ovvero si
costituisce come appendice effettiva di un certo ideale di vita.
Il termine «teoretico»
indica da una parte il modo di conoscenza che ha come scopo il sapere per il
sapere, e non un fine esterno a se stesso; e, dall’altra parte, il modo di vita
che consiste nel consacrare la vita in questo modo di conoscenza. In altre
parole, «teoretico» può essere applicato solo ad un’esistenza filosofica, cioè
ad una filosofia praticata, vissuta, attiva, portatrice di felicità.
Dunque, possiamo ben dire
che la filosofia teoretica, ovvero lo
stretto legame che, nel filosofo, deve esistere tra discorso filosofico ed esistenza
filosofica, ha innanzitutto una connotazione etica: consiste nel non
scegliere altro fine che la conoscenza, a volere la conoscenza di per se
stessa, senza perseguire altro interesse particolare ed egoistico che
risulterebbe estraneo alla conoscenza. Si tratta di un’etica del
disinteressamento e dell’obiettività.
Il discorso filosofico
teoretico, dunque, è parte integrante dell’esistenza filosofica in tre diversi
modi: il discorso determina la scelta di vita giustificandola teoreticamente e
la scelta di vita determina il discorso; inoltre, il discorso filosofico, se è
veramente espressione di una scelta esistenziale, è, in questa prospettiva, un
mezzo indispensabile e necessario per esercitare un’azione su se stessi e sugli
altri; infine, il discorso filosofico è una delle forme stesse di esercizio del
modo di vita filosofico, sotto forma di dialogo con un altro o con se
stessi.
La connessione che c’è tra
discorso filosofico e scelta di vita è paragonabile a una malattia inguaribile:
si tratta, in un certo senso, della perdita di senno, la pazzia, l’unica “scelta
di vita” che ci rende liberi e che fa dell’individuo ciò che realmente è, un
essere razionale alla ricerca della verità in grado di costituire un’unità tra
la sua mente e le sue mani, il dire e il fare, il pensare e l’essere.
Il discorso filosofico, se è
espressione di una scelta esistenziale di colui che lo detiene, costituisce un
mezzo grazie al quale il filosofo può agire su se stesso e sugli altri poiché
ha sempre, direttamente o indirettamente, una funzione formativa, educativa,
terapeutica. Esso è sempre destinato a produrre un effetto, a provocare,
nell’anima, una trasformazione dell’io. Da questo punto di vista, lo si può
definire come una pratica destinata ad operare un cambiamento radicale
dell’essere.
A questo proposito, è
opportuno ricordare due grandi esempi che hanno davvero incarnato, nelle parole
e nella pratica quotidiana del loro vivere, l’unione e la coerenza del discorso
filosofico e dell’esistenza filosofica: parliamo di Socrate e Cristo.
Se Socrate non fosse stato
un vero filosofo di sicuro avrebbe
accettato il consiglio di evasione del suo amico Critone dimostrando, al
contrario di quanto aveva sempre detto, che la legge a volte può essere
ingiusta e che l’importante è vivere, salvarsi la pelle, e non vivere
coerentemente ad una scelta di vita, ad una scelta che parte dall’anima. Allo
stesso modo, Cristo avrebbe potuto evitare la croce, il tradimento di Giuda ed
il sentirsi rinnegato da Pietro. Ma anche lui ha voluto portare avanti il
disegno della sua vita fino in fondo, perché anche il suo disegno, come quello
di Socrate, era stato scritto con inchiostro magico, inchiostro contenente un
modo di essere, una scelta, ma, soprattutto, un senso, in grado di valorizzare
sempre, ed in qualunque situazione, se stessi e il mondo.
Aveva ragione Kierkegard[13]
quando affermava che i grandi maestri della comunicazione sono Socrate e
Cristo: «il merito infinito di Socrate è precisamente di essere stato un
pensatore esistente, non uno
speculante che dimentica ciò che è l’esistere», mentre in Cristo egli ha
trovato la Verità stessa che si fa esistenza, mostrando quel paradosso che
costituisce l’essenza del cristianesimo.
Mi trovo d’accordo con
Kierkegard quando fa della comunicazione
d’esistenza lo scopo fondamentale della sua filosofia, o meglio, della sua
vita: non si tratta di trasmettere una dottrina compiuta ma di realizzare una comunicazione d’esistenza, che ha di
mira l’attivazione, nell’interlocutore, di una trasformazione, di un poter fare.
Per realizzare questa trasformazione Kierkegard utilizza mezzi
e strumenti ancora tutt’oggi validi. Infatti, per attuare una comunicazione
d’esistenza in un tempo, egli dice, che ha dimenticato che cos’è esistere e che cosa significhi l’interiorità, non si può usare la forma
diretta, occorre servirsi della forma indiretta, bisogna cioè utilizzare il
metodo dell’educatore, il quale – come concordava anche Nietzsche – non dice
mai quello che pensa lui stesso, ma sempre e solo quello che pensa su una cosa
in rapporto all’utilità di colui che egli educa. Occorre ridurre l’estensione
(il caos) a favore dell’intensità della comunicazione: lo scrivere è e deve
essere un’azione e perciò un esistere personale, non astratto, che si rivolge
non a un pubblico, ma al singolo, da esistente a esistente . Non si rivolge alla
massa, bensì ad ogni singola soggettività che, tutta insieme, forma il
pubblico. Solo così la comunicazione d’esistenza si rivela come un processo di
ricerca della verità ed in grado di risvegliare l’attenzione di chi ascolta.
Solo la comunicazione autentica
rende liberi, tanto chi parla, perché fa delle sue parole la sua stessa vita,
quanto chi ascolta, perché si innesta in lui un processo a catena di
trasformazione che lo rende, a sua volta, capace di esprimersi fattivamente; e
non all’interno di quattro mura, ma, bensì, nell’infinito spazio del mondo,
ove, se attua una scelta esistenziale, se vivrà del suo «discorso filosofico»,
diverrà anch’egli immortale.
«Il mio mestiere – recitava
l’epitaffio di Trasimco – è la sophia»[14].
Per gli antichi la parola sophia significa in primo luogo un saper
fare, indica l’abilità con la quale ci si sa comportare con gli altri, è
simbolo di attività, esprime la capacità di pratiche sottomesse a misure e
regole, che presuppongono l’esistenza di un insegnamento e di un apprendimento.
E’ una specie di téchne, un insieme di regole dettate
dall’esperienza e dallo studio atte a guidare ogni attività umana. Si tratta,
in sostanza, di una ricerca infinita, volta all’acquisizione di un’ampia
esperienza della realtà e degli uomini, al fine di scoprire costumi diversi e
menti sconosciute.
Per i contemporanei la
parola sophia indica la più alta
conoscenza delle cose più eccellenti: costituisce il grado di conoscenza più
alto, cioè più certo e più completo ed ha per oggetto le cose più sublimi, cioè
le cose divine.
Socrate, nella sua epoca,
ma, allo stesso tempo, anche nella concezione moderna del termine sophia, rivoluziona completamente il
concetto di sapere.
Il sapere non è un insieme di proposizioni e di formule che si possono scrivere, comunicare o vendere già confezionate; non è un oggetto fabbricato, un contenuto finito, direttamente trasmissibile con la scrittura o con un qualsiasi discorso. Non è un libro di testo e neanche bastano una serie di date e nozioni a costruire il sapere. Esso, come il concetto, non è già fatto: è da creare, da inventare dal nulla; è una passione che parte dall’intimo, un flash che ti esplode dentro e che ha sempre infinito bisogno di nuove emozioni, nuove scosse d’energia per restare in vita.
Socrate dunque rifiuta
completamente l’idea tradizionale di sapere.
Egli rifiuta di essere
considerato un maestro e, coerentemente a questo rifiuto, rifiuta di insegnare,
perché non ha niente da dire, niente da comunicare, per la buona e semplice
ragione che, come spesso dichiara, non sa nulla. Non avendo nulla da dire, non
avendo alcuna tesi da difendere, Socrate non può che interrogare, rifiutandosi
nel contempo di rispondere alle domande.
Il suo metodo non consiste
affatto nel trasmettere un sapere, nel dare risposte certe ai suoi
interlocutori; bensì, il suo messaggio è quello di una condotta razionale della
vita umana.
Egli, come abbiamo detto,
non sa niente e non insegna niente, e, cosciente del suo non sapere non parla
mai in prima persona, fa piuttosto parlare gli altri, e con questo suo
atteggiamento finge di voler imparare qualcosa dal proprio interlocutore, al
fine, non solo di condurre quest’ultimo a scoprire di non sapere nulla
sull’argomento riguardo al quale pretende di essere sapiente, ma altresì, con
le sue domande a ripetizione, esplica la sua missione di rendere consapevoli
gli altri di essere in grado di generare la loro
verità. Socrate esplica l’attività di ostetrico delle menti: egli non genera
nulla, giacché non sa nulla; ma il suo compito è aiutare gli altri a generare
se stessi. Gli altri, dice Socrate, devono pensare da soli e soltanto così
possono scoprire da soli la verità che hanno in loro.
Una simile immagine rivela
chiaramente che la conoscenza si trova nell’anima stessa e che soltanto
l’individuo può scoprirla, ma non è un accessorio in più nascosto nel buio che
dobbiamo trovare, come se ci trovassimo in una caccia al tesoro, è piuttosto
l’anima stessa, è un pezzo da incastro del nostro DNA, e soltanto noi possiamo
decidere se utilizzarlo come cintura che ci cinge la vita o come un
inutilizzabile anello che serve semplicemente a tenere unita una catena.
Tutto questo ci rinvia a ciò
che Platone chiama reminiscenza, una visione che l’anima ha acquisito in
un’esistenza anteriore. Ma in realtà, la verità di cui parla Socrate, non è un
ricordo di qualcosa già fatto o già vissuto, è piuttosto un generare dal nuovo.
Questo è il significato
della maieutica socratica. Socrate dà inizio ad ogni discorso inducendo
l’interlocutore a riconoscere la contraddittorietà della sua posizione iniziale
e da qui tutto procede, poco a poco, fino al punto, assolutamente fondamentale,
costituito dal percorso compiuto congiuntamente da Socrate e dal suo interlocutore.
Di fatto, mentre Socrate sembra identificarsi con il suo interlocutore,
fingendo di voler apprendere qualcosa da lui, e attuando così il suo ironico
sminuirsi, in realtà è l’interlocutore a penetrare incosciamente all’interno
del discorso di Socrate, a identificarsi con lui, vale a dire, non
dimentichiamocelo, con il suo non sapere nulla e, soprattutto, con il suo
essere cosciente della propria ignoranza. Al termine della discussione,
l’interlocutore non ha dunque imparato nulla, anzi, addirittura non sa più
nulla. Ma durante l’intero svolgimento della discussione egli ha sperimentato
l’attività dello spirito, ossia, attraverso il suo interlocutore, ha abbattuto
il suo falso sapere ed è riuscito a prendere le distanze da se stesso, cioè a
porsi in discussione e a prendere coscienza del suo non sapere e della
necessità di una trasformazione, trasformazione da attuare tanto nella vita
quanto nella mente.
Il sapere, quindi, è
un’operazione razionale che si acquisisce attraverso il valore delle nostre infinite
esperienze interiori e si concretizza con una scelta che ci coinvolge in modo
totale.
La filosofia infatti, proprio come Socrate che «non
sa niente», non ha verità da offrire: al massimo, per qualcuno, certezze, ma
più spesso semplicemente prospettive più o meno convincenti o stimolanti sul
mondo e sulla vita. Essa, similmente alla persona di Socrate, appunto, dona a
chi gli si avvicina strumenti per contribuire, insieme al resto dell’esistenza,
a formare teste in grado di pensare e di cercare la propria verità, con
l’obbligo morale di argomentarla in modo da rendere pubbliche, e discutibili da
parte di chiunque, le proprie convinzioni.
Nel dialogo socratico la
vera posta in gioco non è quello di cui
si parla, le domande di Socrate infatti non conducono mai il suo
interlocutore a sapere qualcosa di nuovo o a pervenire a delle conclusioni
riguardo a questo o a quell’argomento, né Socrate espone mai una sua teoria
sull’argomento trattato; ciò che è davvero importante, invece, è colui che parla: l’interlocutore, dopo
aver scoperto la futilità del proprio sapere, scoprirà al tempo stesso la
propria verità, ossia, che passando dal “sapere materiale”, visto come un
mnemonico elenco di nozioni, all’esame analitico di se stessi, del proprio Io,
delle scelte effettuate nella propria vita e dei valori che le hanno
accompagnate, allora egli, e chiunque lo ascolta (o legge) in quel momento,
comincerà davvero, per la prima volta, a mettersi in discussione e a dubitare
di sé.
La missione di Socrate,
quella che in realtà dovrebbe essere la missione del filosofo, di ieri e di
domani, non è tanto (o non solo) quella di mettere in forse il sapere apparente
che crediamo di possedere, ma è soprattutto di mettere in questione noi stessi
e i valori che reggono la nostra vita, allo scopo di scatenare il turbamento
nell’animo dell’interlocutore o del lettore inducendolo a una presa di
coscienza che può giungere fino alla conversione filosofica.
Socrate infatti è sì un
appassionato della parola e del dialogo, ma, mosso da altrettanta passione,
egli vuole altresì mostrare i limiti del linguaggio; poiché niente è davvero
definibile, in quanto qualsiasi parola è banale, ma tutto risulta veramente
dimostrabile solo con la vita.
Ancora una volta, dunque, il
sapere non è un insieme di proposizioni, una teoria astratta fatta di paroloni
e lunghi sproloqui; il sapere è la consapevolezza di essere in grado di fare
una scelta, di prendere un’iniziativa drastica e improvvisa che coinvolge tutto
il nostro essere e che ci conduce ad una meta irraggiungibile, in quanto la
trasformazione di se stessi non è mai definitiva ed esige una riconquista
perenne.
Socrate, dunque, non ha
alcun sistema da insegnare. La sua filosofia è nel complesso un esercizio
spirituale: esprime un nuovo modo di vita, una riflessione attiva, capace di
attuare una coscienza vivente.
Kierkegard si rifà
apertamente a Socrate in quanto aderisce a quel paradosso intellettuale in base
al quale la sua coscienza individuale si sveglia con un sentimento di
imperfezione e di incompiutezza, ma, nello stesso tempo, è l’unica che lo
conduce veramente nel porto della consapevolezza: Kierkegard afferma che essere
cristiano significa avere un vero rapporto personale ed esistenziale con il
Cristo, significa essersi appropriati appieno di questo rapporto, averlo
interiorizzato con una decisione che emana dalla profondità dell’io; ma egli è
intimamente convinto di non essere cristiano, poiché solo il Cristo è
cristiano, ma, quanto meno, afferma Kierkegard, colui che ha coscienza di non
essere cristiano è il miglior cristiano, nella misura in cui riconosce di non
essere cristiano.
La coscienza di Kierkegard,
come ogni coscienza esistenziale, è dunque divisa. E questa coscienza è la
stessa coscienza socratica: divisa e lacerata, tormentata dal dubbio, sempre
alla ricerca di ciò che non ha, ed al contempo consapevole di ciò che è proprio
nella misura in cui si sente consapevole di ciò che non è.
Così come, infatti,
Kierkegard non è cristiano se non in virtù della coscienza di non essere
cristiano, Socrate non è saggio se non per la coscienza di non esserlo.
Solo da questo sentimento di
privazione scaturisce un desiderio smisurato che si divide come una
biforcazione per ritrovarsi al punto di partenza, ovvero nell’io. Da una parte,
infatti, abbiamo il desiderio smisurato di conoscere, di apprendere dagli
altri, siano essi persone, vecchie opere o libri di testo, o anche dalla natura
stessa. Dall’altra, il desiderio smisurato di ricercare dentro noi stessi, per
giungere a scovare la tana della verità e riuscire a partorirla,
contemporaneamente, nell’intelletto, nelle parole e nei fatti.
Il ruolo del filosofo è
dunque quello di rendere capace l’altro che non esiste sapere se non nella
scoperta personale che proviene dentro se stessi, è la scoperta di una
coscienza che ci rende capaci di scegliere, dinanzi a un bivio, se andare a
destra o a sinistra; di essere in grado di dare una spiegazione più che
motivata della nostra scelta a chi ce lo domanda; e soprattutto di credere
fermamente in noi, nella nostra scelta e nei valori che ci hanno aiutato a
compierla. In seguito, ci rende capaci di camminare, di rendere atto ciò che prima era solo verbo, ma non per eseguire
automaticamente i nostri pensieri, bensì per attuare consapevolmente le nostre
idee in coerenza a ciò che la bocca dice, la mente pensa e l’anima crede, e che
ci rende singolari.
Il sapere, infine, inteso
come anelito mai completamente appagato e come passione che ci regala sempre la
vitalità per continuare la nostra ricerca, ci permette di costruire il nostro
destino, perché il suo scopo non è quello di mettere in evidenza
l’Individualità del soggetto isolato all’interno della massa, né di mettere in
evidenza l’Universalità di concetti preconfezionati, ma, bensì, quello di
rivelare la Singolarità dell’essere che ci rende unici e irripetibili, rari e
indimenticabili.
La filosofia, quindi, è,
essenzialmente, uno sforzo, uno sforzo finalizzato a prendere coscienza di noi
stessi, del nostro essere-al-mondo, del nostro essere-insieme-all’altro, uno
sforzo, innanzitutto, per raggiungere una visione universale, grazie alla quale
saremo capaci di metterci al posto degli altri superando la nostra parzialità.
A questo punto tutto ci
rinvia a ciò che dicevamo all’inizio di questo capitolo, «Per gli antichi la parola
sophia significa in primo luogo un
saper fare»: per gli antichi come per i moderni, per il filosofo di ieri e
ancora di più per il filosofo di domani, la sophia
deve essere intesa non tanto come un sapere puramente teorico, ma
decisamente come un saper-fare, ovvero come un saper-vivere.
Dei saggi di ieri, infatti, rimangono tracce di sophia nel modo di vivere, e non nel sapere teorico; perché non è
il vivere a scaturire da
quest’ultimo, ma ci troviamo di fronte a un vero sapere solo quando è questo a sgorgare
dalla vita vissuta, e non viceversa. Ed ancora di più, gli intellettuali di
oggi lasceranno tracce ai posteri della loro
sophia, soltanto se la loro esistenza sarà come il passaggio di un aeroplano,
in grado di lasciare una scia indelebile nel cuore di chi gli è accanto.
La filosofia, dunque, non è sophia, ma è un modo di vivere; non è un
vuoto parlare, ma è un discorso determinato dall’attività dell’esistenza umana;
essa “non è una dottrina, ma un’attività” (Wittgenstein), un’attività
dell’anima.
Per Socrate, la filosofia è
allo stesso tempo «ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui
che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio
né non saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel
mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello
degli dei, che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, […].
Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di
raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama»[15].
Il filosofo è perdutamente invaso di Eros-Sophia, di amore per il sapere, è un innamorato che si alimenta del suo stesso amore, dal quale però non si sente mai totalmente appagato, da lui riceve, ogni volta che gli si avvicina, infinite sensazioni che lo conducono a chiedergli sempre più. A sua volta il suo amato dona incessantemente il suo essere, ma mai nella sua integrità, e questo porta l’innamorato a corrergli dietro, a sentirsi tormentato dalla passione che gli arde dentro senza trovare pace, senza riuscire mai a raggiungerlo.
L’incontro con il sapere è
sempre una “toccata e fuga” che, dal primo momento, dà inizio alla sua corsa,
ove l’innamorato non riuscirà mai ad abbracciare totalmente l’amato e, al tempo
stesso, l’amato rincorrerà sempre l’innamorato per donarsi a lui e regalargli
quelle scosse di vitalità e saggezza che danno senso alla sua corsa e
costringono la sua volontà a correre ancora, senza sosta, verso l’amato e verso
ciò che lo tiene in vita, il desiderio incessante di sapere, l’unica cosa che
ci rende capaci di vivere lasciando vivide scie indelebili, perché ci infonde
il desiderio di renderci immortali producendo.
Nel Simposio, stravolgendo la forma del dialogo, Platone ci spiega
l’identità che c’è tra l’amore e la filosofia, sottolineando quanto l’atto di
tendere verso la filosofia è determinato dalla spinta dell’eros, e che entrambi
sono l’espressione dell’insufficienza: l’amore infatti non ha la bellezza ma la
desidera, allo stesso modo il filosofo anela alla sapienza senza possederla.
In questo dialogo egli
immagina che i commensali, ospiti nella casa del giovane poeta di successo
Agatone, svolgano a turno un elogio dell’amore e che Socrate, invece di
proporre un suo discorso, preferisca riferire le parole udite da Diotima, una
sacerdotessa straniera dotata di straordinari poteri, che racconta così il mito
sulla nascita di Eros:
«Quando nacque Afrodite, gli
dèi banchettarono, e fra gli altri c’era Poros [Espediente], figlio di Metis.
Dopo che ebbero pranzato, venne Penia [Povertà] a mendicare, poiché c’era stato
un gran banchetto, e se ne stava vicino alla porta. Successe che Poros, ubriaco
di nettare, dato che il vino non c’era ancora, entrato nei giardini di Zeus,
appesantito com’era, si addormentò. Penia, allora, per la mancanza in cui si
trovava di tutto ciò che ha Poros, escogitando di avere un figlio da Poros,
giacque con lui e concepì Eros.
Per questo, Eros divenne
seguace e ministro di Afrodite, perché fu generato durante le feste natalizie
di lei; ad un tempo è per natura amante di bellezza, perché anche Afrodite è
bella.
In quanto Eros è figlio di
Penia e di Poros, gli è toccato un destino di questo tipo.
In primo luogo, è povero
sempre, ed è tutt’altro bello e delicato, come credono i più. Invece, è duro e
ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperta, e dorme
all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada, perché ha la natura della
madre, sempre accompagnato con la povertà.
Per ciò che riceve dal
padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace,
impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi,
appassionato di temperanza, pieno di risorse, ricercatore di sapienza per tutta
la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista.
E per sua natura non è né
mortale né immortale, ma, in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive quando
riesce nei suoi espedienti, talora invece muore, ma poi torna in vita, a causa
della natura del padre.
E ciò che si procura gli
sfugge rapidamente di mano, sicché Eros non è mai né povero né ricco.»[16]
Eros, dunque, non è
identificabile con un dio immortale e meno che mai con qualcosa di puramente
mortale e sensibile; in questo senso Eros è un intermediario-mediatore tra Dio
e l’uomo. Come mediatore tra due
realtà opera un complemento della realtà nel suo insieme in modo che il tutto
sia ben collegato con se medesimo. Come intermediario
egli unisce in sé, sintetizzandoli, caratteri contrari: privazione e
acquisizione, bisogno e capacità di procacciarsi, povertà e ricchezza.
Perciò Eros è come il
filo-sofo, intermediario-mediatore fra ignoranza e sapienza; mai del tutto
ignorante e mai del tutto sapiente, ma sempre in cerca di ulteriore
acquisizione di sapienza e di maggior ricchezza di sapere.
Questo mito ci permette di
trovare un punto di connessione fra il mondo delle passioni e dei desideri e
quello del pensiero: per cui l’amore come desiderio di un bel corpo non è
negato, ma è considerato come prima tappa di un viaggio che conduce alla
conoscenza-rivelazione del bello in sé.
L’eros viene descritto come
una peculiare forma di delirio, una mania:
«la mania per la quale qualcuno, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi
di quella vera, mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in
volo, ma non riuscendovi, guarda verso l’alto come un uccello senza curarsi di
quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l’accusa di essere pazzo»[17].
Il pensiero è alato e alato
è il desiderio d’amore.
In questo contesto, la
filosofia coinvolge l’esistenza umana nella sua interezza: essa non è solo una
questione di “testa”, ma anche di “cuore”. Cambia la vita dell’uomo, lo
allontana dalle faccende divine, lo rapisce nella contemplazione dell’assoluto.
Qui vi è la passione d’amore, ma il suo vero oggetto non è la persona amata, ma
l’essere in sé, che sta ben oltre il mondo sensibile ma che non appartiene
neanche completamente al mondo divino. La ragione e il desiderio d’amore si
scambiano l’un l’altro, fino a diventare un tutt’uno, fino a non distinguersi
più singolarmente, ma a fondersi; al punto tale che la passione si trasforma in
comunicazione erotica, in uno specchiarsi degli amanti l’uno nell’altro, è un
circolo amoroso: amore che guarda amore, amore che penetra amore, il filosofo
che anela alla filosofia, la filosofia che si incarna nel filosofo; e così
l’eros diviene filosofo e, nello stesso tempo, l’eros diviene filosofia. E’
contemporaneamente colui che ama e l’oggetto amato; ed in entrambe le
personificazioni si trova sempre a metà strada, non raggiunge mai l’arrivo, ma
sempre desidera, come amante, e sempre si dona, come amato, con eterna
passione.
In questa prospettiva la
filosofia è un’esperienza d’amore alimentata dall’elemento irrazionale della
passione, che costituisce la forza motrice indispensabile affinché
quest’esperienza divenga giornalmente la pratica di un modo di vivere, e il
filosofo, di ogni tempo, è un uomo che non appartiene del tutto al mondo ma che
non è nemmeno completamente fuori dal mondo.
QUINTO CAPITOLO
Il logos e il cristianesimo
Il cristianesimo, inteso in
questa sede non in quanto «fatto religioso» (cioè verità rivelata direttamente
da Dio e messaggio di salvezza eterna), ma come un «fatto storico-filosofico»,
ha prodotto, fin dall’inizio del suo sorgere e diffondersi, una visione del
mondo accolta da milioni di uomini nel corso dei secoli, ma è stato anche –
come ideologia e come organizzazione – causa ed effetto ad un tempo di grandi
trasformazioni sociali, politiche e istituzionali.
I seguaci della nuova
religione si trovarono ben presto impegnanti in una continua opera non solo di
difesa del “messaggio”, ma anche di elaborazione concettuale e dottrinale, via
via che il cristianesimo, diffondendosi al di là dei confini ristretti delle
origini, veniva a contatto con forme di cultura e strati sociali diversi, più
evoluti e raffinati.
Tutto ciò pose molteplici e
vari problemi, ma in primo luogo costrinse a chiarire l’atteggiamento del
cristianesimo di fronte al mondo profano: è un mondo da respingere in blocco,
da far crollare dalle fondamenta con tutti i suoi errori, le sue vanità e i
suoi peccati? Oppure è un mondo da recuperare, da conquistare dall’interno e da
modificare per quanto ha di riprovevole, ma insieme da conservare, nella misura
in cui può arricchire di vari beni anche la vita del cristiano? E come fissare
questa misura? E la sapienza profana è una sapienza anticristiana, demoniaca;
oppure è solo una sapienza a metà, da completare e trasfigurare con la nuova
fede?
E’ da queste tensioni e
dalla difficoltà tutt’oggi esistente di trovare una risposta a queste domande
che, un secolo dopo la morte di Cristo, alcuni cristiani hanno presentato il
cristianesimo, non soltanto come una filosofia, ma addirittura come la filosofia, la filosofia eterna.
Questa trasformazione del
cristianesimo in filosofia avviene principalmente in forza dell’ambiguità di
cui è portatrice la parola logos: il
cristianesimo è la rivelazione completa del logos;
e il logos è la vera filosofia che ci
insegna a comportarci in modo da somigliare a Dio e ad accettare il disegno
divino come principio che orienta tutta la nostra esistenza.
Ed è proprio grazie
all’ambiguità di questa parola che è stato possibile una “filosofia cristiana”.
Basta ricordare il famoso prologo del Vangelo di Giovanni, in cui il logos è la parola creatrice ma anche
rivelatrice di Dio:
«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso
Dio:
tutto è stato fatto per
mezzo di lui,
e senza di lui niente è
stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli
uomini;
[…]
E il Verbo si fece carne
E venne ad abitare in mezzo
a noi.»[18]
L’interesse dell’evangelista
Giovanni è soprattutto quello di evidenziare la figura di Gesù Cristo
sottolineandone l’incarnazione: egli, a differenza degli altri tre evangelisti
che hanno invece riportato in modo particolare la divinità del Cristo, il suo
essere Figlio di Dio morto per noi; egli, al contrario, ha voluto mostrare, al
lettore e al credente, la trasfigurazione del Verbo fattosi carne, di come il
divino si sia calato nella realtà umana; e attraverso questa trasfigurazione
egli vuole evidenziare la coerenza che intercorre nella vita del Cristo la
quale, come una linea retta, passa perpendicolarmente dalle sue parole alle sue
azioni; fino alla morte.
Analizzando il prologo del
suo Vangelo, poco fa citato, notiamo che inizialmente, attraverso i termini «In
principio», egli riprende letteralmente l’inizio della Bibbia greca collegando
così la venuta di Gesù con i primi capitoli della Genesi, al fine di creare
un’identità temporale tra “l’inizio del cielo e della terra”, cioè il punto di
partenza dello spazio e del tempo, e la presenza del logos, intesa come duratura permanenza nel tempo eterno.
Il verbo utilizzato per dire
«era», infatti, è en, il tempo
imperfetto del verbo essere che in greco indica permanenza, durata: ciò indica
che quando è stato creato il mondo, quando per la prima volta ci fu l’inizio
del mondo sensibile, il logos era già presente, già essente. Si afferma l’anteriorità del logos alla creazione.
Proseguendo, notiamo come
all’inizio del primo versetto una sola parola, «In principio», è servita
all’evangelista Giovanni per unire due spazi temporali: quello dell’Antico
Testamento e quello del Nuovo Testamento, quello del Dio creatore nel tempo e
nello spazio e quello del Dio eterno; allo stesso modo, alla fine dello stesso
versetto, egli utilizza la parola «Verbo», logos,
per unire due differenti interpretazioni che appartengono a due diversi mondi,
il mondo greco e il mondo ebraico, al fine di trasformali in un tutt’uno, e
rivelare così l’unità tra la divinità e l’umanità che si incarna nella figura
del Cristo.
Nel mondo greco, il concetto
di logos era centrale nella
filosofia, e fin dai tempi di Eraclito acquista, allo stesso modo, il
significato di «parola», «discorso» e «ragione». Gli stoici, in particolare,
ritenevano che il logos, concepito
come forza razionale, fosse immanente al mondo, alla natura umana e ad ogni
individuo. Questo termine, quindi, aveva contemporaneamente il significato di
«parola», «pensiero» e “principio generale” che regola l’universo, “anima che
rende vivo il tutto”. Grazie al logos
l’universo è come un grande organismo; e nell’uomo si manifesta come “ragione”.
Ecco perché, identificando Gesù come il logos
eterno e il Figlio di Dio, il Vangelo secondo Giovanni permette di presentare
il cristianesimo come una filosofia. La Parola sostanziale di Dio viene
concepita come Ragione che ha creato il mondo e guida il pensiero umano.
L’annuncio cristiano, la Buona Novella che Gesù, il Cristo, ha portato agli
uomini, non è infatti solo una predicazione profetica o precettistica, esso è
insieme parola e persona proprio nel senso in cui l’evangelista Giovanni indica Gesù
come il Verbo.
Nel mondo ebraico invece il logos è lo strumento con cui Dio agisce
nel mondo ed in particolare sul popolo di Israele rendendolo protagonista di
quel dialogo che è la storia della salvezza. Il logos, la “parola”, allorché si rivolge al mondo ebraico, Mosè ed i
profeti, diventa sapienza elargita, rivelazione, messaggio, comando, legge, ma
anche forza ed energia vitale.
La parola logos si adattava dunque sia alla
visione greca sia a quella ebraica, andava bene per entrambi i mondi. Traspare
allora l’intento ecumenico dell’evangelista: egli, quando utilizza la parola logos, intende riferirsi ad entrambe le
interpretazioni, vuol far incontrare due mondi: l’ebraico, dove la parola logos significava “la parola di Dio che
si trasmette”, la sapienza elargita da Dio al suo popolo, i comandamenti, la
legge; ed il greco, dove logos
significava l’ordine del mondo, la mente, il discorso che si è fatto carne.
Vi è poi un’altra
considerazione molto importante: nella cultura ebraica di origine semitica il
termine logos traduceva il
corrispondente ebraico tabar che
significa sia “parola” sia “fatto”.
L’identità fra “parola” e
“fatto” indica che la “parola” di Dio è anche “fatto”: Dio dice e le cose sono;
chiama, e le cose avvengono. E questa identità, per il mondo ebraico-cristiano,
si realizza tanto nel bene quanto nel male: una maledizione lanciata, è un male
in atto che non si può ritirare.
Qui, la parola di Dio (il logos divino) diventa direttamente forza
creatrice e generatrice (“fatto”).
Allora «In principio era il
Verbo» per l’ebreo vuol dire “In principio, quando il mondo fu fatto, esisteva
già la forza che fa succedere gli eventi”, e per il greco significa “In
principio, quando il mondo fu fatto, esisteva la ragione, la legge che dà
consistenza e coesione all’universo”. E questa forza, questa ragione, cioè il logos di Giovanni, non è una prerogativa
del mondo sensibile, ma è «presso Dio», ossia, pur interessando il mondo
sensibile, appartiene alla sfera divina. Infatti, «il Verbo era Dio». Un essere
divino che non si è manifestato come puro discorso pronunciato dalla bocca di
un profeta; né ha mai pensato di rivelarsi attraverso le parole di un ricco re,
con lo scettro, un trono d’oro e un vasto territorio su cui regnare. Piuttosto
il Verbo, il logos, inteso come legge
in grado di unificare l’umanità, che si esprime attraverso il Cristo nella
parola Amore, si è concretizzato nella debole e mortale figura umana: «il Verbo
si fece carne», rendendo sensibile e visibile il suo aspetto e dando così voce
ai suoni della sua bocca; ma soprattutto, il logos, ovvero il “pensiero” ed il “discorso” della “ragione”
divina, si è fatto carne affinché il Verbo diventasse atto, azione, “fatto”
nelle gioie e nei dolori della quotidianità.
Una delle caratteristiche
del cristianesimo è infatti proprio il rapporto essenziale e costitutivo tra dottrina e vita: il Cristo, inseparabile dal suo annuncio, è il momento
culminante della rivelazione di Dio agli uomini. La parola che Dio aveva
comunicato al popolo ebraico nell’Antico Testamento si è pienamente svelata con
l’incarnazione del Cristo.
Il cristianesimo dunque non
è mai una dottrina il cui contenuto possa essere definito in astratto, poiché
esso è fondato sull’essere e sull’azione mediatrice del Cristo e richiede una
totale compromissione dell’uomo attraverso un atto di fede, che implica sempre
un’attività intellettuale.
La rivelazione di Cristo ha
una funzione pedagogica e l’ideale di vita che Gesù ha trasmesso con la sua
stessa esistenza vale per tutti, indistintamente, perché rappresenta un esempio
morale a cui è consentito pervenire attraverso la riflessione personale.
A questo punto, si evince
chiaramente che la “filosofia cristiana”, come tutta la filosofia, del resto,
si presenta insieme come discorso e come modo di vita. Così come il discorso
filosofico costituisce la forma stessa dell’esercizio del modo di vita
filosofico, il discorso filosofico cristiano è un mezzo per realizzare il modo
di vita cristiano. E se filosofare significa vivere in conformità con la
Ragione, i cristiani sono filosofi, perché vivono in conformità al logos divino.
Se infatti alcuni cristiani
possono presentare il cristianesimo come una filosofia, la filosofia, non è tanto perché il cristianesimo propone una
teologia, ma soprattutto perché il cristianesimo è uno stile di vita e un modo
di essere secondo la ragione, vale a dire il logos.
Il cristianesimo, come la
professione di filosofo, nasce dall’individuo attraverso la conversione, una scelta
di vita che lo costringe a trasformare l’intera sua esistenza nel mondo, e che
in un certo senso lo separa dal mondo.
Il modo di vita filosofico,
dunque, nella vita attiva, non entra affatto in competizione con la religione;
e questo perché in ogni “credo” «è il pathos
che condiziona il logos»[19],
ed entrambi sono la causa e l’effetto di ciò che dà senso alle nostre azioni.
In questo contesto il pathos non è inteso in senso negativo,
come ciò che limita la libertà umana o ne costituisce un’alterazione patologica,
ma bensì acquista qui il significato di predicato “verbale” dell’essere
correlativo e complementare all’azione.
Esso esprime una passione
che sgorga dall’interno, dall’animo, e da qui si fa logos, inteso come manifestazione del pensiero attraverso i suoni
articolati di una lingua. L’unione di un sentimento intimo e della parola
genera l’azione, che non è altro che l’espressione della volontà intellettuale
dell’individuo, cioè il frutto di ciò che la sua mente raziocinante ha
seminato.
Ed è proprio quello che ha
fatto Cristo: egli è divenuto il Verbo stesso che pronunciava.
Il cristianesimo, per il cristiano, non è pura ideologia, ma è espressione fattuale della Parola di Dio; così come la filosofia, per il filosofo, non è uno “stare sulle nuvole” come pensano in molti, né un blando parlare dinanzi a un pubblico, ma è piuttosto la rivelazione concreta e attiva della nostra mente, è – usando la stessa concezione di Socrate – un aiutare l’anima a partorire la nostra verità la quale, nelle fatiche e nelle gioie dell’azione, si determina come se stessa, come un io singolare, e nello stesso tempo aiuta gli altri ad incamminarsi nel loro stesso percorso di ricerca e trasfigurazione.
La filosofia, come abbiamo
ben visto finora, non è una disciplina come le altre: non fa parte dei
programmi di tutti i tipi di scuola superiore; è praticamente assente dalla
stampa e dalla televisione, almeno da quella alla portata di tutti; e richiede,
da chi vi si applica, che ribalti completamente tutte le abitudini scolastiche
fino a quel momento interiorizzate.
Per Cartesio la parola
«filosofia» significa “studio della saggezza”, e per “saggezza” egli intende
non solo la prudenza negli affari, ma una perfetta conoscenza in tutte le cose
che l’uomo può sapere, tanto per la condotta nella sua vita, quanto per la
conservazione della sua salute e l’invenzione di tutte le arti. Egli, nella
lettera all’abate Claudio Picot, Priore del Rouvre, che ha tradotto il suo
libro in francese e in latino, e che Cartesio utilizza come Prefazione per il
testo, esprime così l’utilità della filosofia:
«Davvero non c’è nessuno
oltre a Dio che sia perfettamente saggio, che abbia cioè la completa conoscenza
della verità di tutte le cose; ma si può dire che gli uomini hanno più o meno
saggezza a seconda che abbiano una maggiore o minore conoscenza delle verità
più importanti. E credo che non ci sia niente in questo su cui tutti i dotti
non sarebbero d’accordo.
Avrei poi fatto considerare
l’utilità di questa filosofia e mostrato che, poiché essa si estende a tutto
quello che lo spirito umano può sapere, si deve credere che sia l’unica cosa
che distingue noi dai più selvaggi e barbari, e che ogni nazione è tanto più
civile e colta quanto meglio vi filosofano gli uomini; e perciò il più grande
bene che possa avere uno Stato è avere dei veri filosofi. E inoltre per ciascun
uomo in particolare, non solamente è utile vivere con coloro che si applicano a
questo studio, ma è incomparabilmente meglio che vi si applichi da se stesso;
come, senza dubbio, è molto meglio usare i propri occhi per guidarsi e gioire
per loro mezzo della bellezza dei colori e della luce, che non tenerli chiusi e
seguire la guida di un altro; ma questo è sempre meglio che tenerli chiusi e
non avere che se stessi come guida. Vivere senza filosofare vuol dire proprio
aver gli occhi chiusi, senza tentare mai di aprirli; e il piacere di vedere
tutte le cose che la nostra vista scopre non è comparabile alla soddisfazione
che dà la conoscenza di quelle trovate con la filosofia; e infine questo studio
è più necessario per regolare i nostri costumi e la nostra condotta in questa
vita, che l’uso dei nostri occhi per guidare i nostri passi. Gli animali bruti,
che non hanno che il loro corpo da conservare, sono occupati costantemente a
cercare di che nutrirlo; ma gli uomini, la cui parte principale è lo spirito,
dovrebbero impiegare le loro principali attenzioni nella ricerca della
saggezza, che è il suo vero nutrimento; e io sono sicuro che ce ne sono molti
che lo farebbero, se avessero la speranza di riuscirci e se sapessero quanto ne
sono capaci»[20].
In filosofia non ci sono
verità da imparare a memoria e da ripetere in seguito; si deve ragionare da
soli e trovare la propria strada, occorre acquisire un pensiero chiaro e
solido, un ragionamento argomentato e coerente.
La filosofia esige da chi vi
si addentra che reagisca ai problemi, ai procedimenti, ai testi; essa ha lo
scopo di aiutarci a guardare a fondo dentro noi stessi e dentro il mondo in cui
viviamo, per comprendere la nostra condizione, per orientare le nostre scelte e
le nostre azioni. E’ necessario farne una questione personale, progredire nella
qualità del proprio pensiero, sapendo che la filosofia serve prima di tutto
nella vita. Ogni lettura filosofica deve diventare alimento indispensabile di
un’autentica avventura personale, e per far questo essa ci porta spesso a
rimettere in discussione le soluzioni via via date ai problemi fino a quel
momento.
La specificità della
filosofia consiste nel suo carattere argomentativo, nei diversi stili
argomentativi dei diversi filosofi, nella possibilità di fare esperienza, come
in un laboratorio, di strategie di pensiero e di procedimenti logici. Bisogna
imparare a ragionare in maniera più coerente, più ordinata, più logica. Occorre
imparare ad analizzare una domanda, a scoprire come impostarla alla radice,
cioè prima di tutto a introdurla, senza affrettarsi a rispondere come se fosse
evidente, come se ogni domanda non ammettesse che una sola risposta possibile.
In seguito, bisognerà
riuscire a trovare – qualunque sia la propria opinione personale – più modi
diversi o persino opposti di rispondere: sarà indispensabile esplorare
seriamente le diverse concezioni del problema posto, per confrontarne criticamente
i diversi argomenti e, solo alla fine, concludere.
Tutto questo, tradotto dai
nostri sensi, significa, in un certo modo, dirigere lo sguardo verso qualcosa,
accogliere il qualcosa nello sguardo e mantenerlo bene in vista, poiché è ciò
che la filosofia cerca con gli occhi. Ossia, sforzarsi di essere più coscienti
per essere più liberi, scegliere una cognizione di causa, non sottomettersi ai
pregiudizi, non accettare senza un esame critico ciò che pensano gli altri, ma
contrapporre a essi sempre ciò che pensano anche altre persone ancora.
Significa avere spirito critico e, nutrendosi delle riflessioni contraddittorie
già formulate, essere il meno possibile vittime delle illusioni e delle
opinioni comuni.
Il mondo, apparentemente,
tende a divenire chiaro e ovvio solo per chi assume in modo non critico il
senso comune, le opinioni della maggioranza, i pregiudizi cresciuti nella sua
mente senza l’intervento di un radicale spirito critico: per costoro la vita
quotidiana non pone mai problemi difficili. Il filosofo, invece, sa che anche
le cose quotidiane presentano in fondo problemi complessi. La filosofia
suggerisce dappertutto una molteplicità di possibilità che sfuggono a chi è
dominato dalla ripetitiva tirannia del quotidiano.
Ma il valore della ricerca
filosofica non è solo di tipo conoscitivo: la ricerca di verità ci rende più
liberi e migliori. La vita quotidiana degli uomini è per lo più chiusa da una
serie di interessi ristretti e privati: non mi riferisco solo ai meschini
interessi istintivi, ma a tutte le esigenze, pur legittime, della vita
quotidiana. La ricerca filosofica, al contrario, ci spinge ad abbracciare tutto
il mondo in modo tale che nulla di ciò che è umano ci risulti estraneo.
Come affermava anche lo
scrittore latino Terenzio: Homo sum et
nihil humani a me alienum puto: sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi
è estraneo.
Con questa apertura di
spirito l’uomo sarà capace di maggior tolleranza, in quanto è portato a
riconoscere, nella loro interezza e serietà, le ragioni dell’altro.
La riflessione filosofica ci
trasforma, dunque, in cittadini liberi eliminando le barriere dei pregiudizi e
del senso comune che ci dividono dal resto degli uomini e del mondo.
In questa prospettiva, è
evidente che bisogna guardarsi bene dal credere che leggere i filosofi
dell’antichità significhi leggere sciocchezze sorpassate da secoli. Nella
maggior parte dei casi, anche oggi noi pensiamo spontaneamente come loro, o
meno bene di loro. E’ per questo che abbiamo bisogno di leggere senza
pregiudizi gli autori del passato, avendo cura di trovarvi quanto ci serve per
meglio dirigere il nostro stesso pensiero. La conoscenza di un autore infatti
non può in alcun modo che servire per seguire i suoi ragionamenti e le sue
argomentazioni, e per imparare a ragionare con lui, per comprendere il rapporto
tra certe premesse e le loro conseguenze.
La filosofia, quindi, sia
quella che ci hanno lasciato gli antichi sia quella sviluppata oggi per i
posteri, è viva, non per le risposte che essa fornisce alle molte domande che
ci premono, ma per la vitalità delle domande stesse. Essa, come abbiamo più
volte ripetuto, è una passione che sgorga dall’anima, è una parte essenziale
della natura umana, in quanto, dicendola con Aristotele, «tutto gli uomini
tendono per natura alla conoscenza: ne è segno evidente la gioia che essi
provano per le sensazioni»[21].
Aristotele ci descrive la «gioia», la felicità che ci procura il possesso della
conoscenza e di quanto il desiderio di comprensione e lo stupore alla vista
dello scenario del mondo e dell’esistenza intera siano fonte di domande
continue. Domande alle quali non sempre (o quasi mai) ne segue una risposta; ma
il fatto stesso che il nostro essere si pone infiniti interrogativi simboleggia
che lo spirito si alimenta della meraviglia scaturita dalla vita, che questo
stupore è fonte in noi di un desiderio incessante di raggiungere il sapere e
che la felicità più grande ci è data proprio dal non raggiungerlo mai nella sua
interezza, ma dall’essere sempre alla ricerca spasmodica di qualcosa in più.
«Gli uomini», continua
Aristotele, «all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla
meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e
di cui, essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si
trovarono di fronte ai problemi più complessi, quali le condizioni della Luna e
quelle del sole, e le stelle e l’origine dell’universo. Chi è in uno stato
d’incertezza e di meraviglia crede di essere ignorante; e quindi, se è vero che
gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è
evidente che essi cercavano di conoscere per puro amore del sapere e non per
qualche bisogno pratico.
E’ chiaro allora che noi ci
dedichiamo a questa indagine senza mirare ad alcun vantaggio esteriore, ma,
come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per altro, così anche
consideriamo tale scienza»[22].
La filosofia è la risposta
al nostro stupore di fronte alle cose che sono e che sono proprio nel modo in
cui sono e non diversamente: conoscersi, imparare a pensare, stupirsi che
l’essente sia.
La meraviglia, che sta
all’origine della filosofia, si qualifica inoltre non solo come stupore, ma
come esigenza di conoscere la verità. La meraviglia non ha alcuna finalità
utilitaristica, ma è tensione naturalmente umana verso la verità: non si tratta
in questo caso delle singole verità, che sono invece oggetto delle attività
parziali, ma la “verità” nella sua totalità. Non tanto (o comunque non sempre)
una verità considerata come una produzione umana, ma quella “verità”, la quale,
per usare la toccante espressione di Baruch Spinoza, «manifesta se stessa».
“Questa è la nostra libertà,
assoggettarci alla verità” (Agostino di Ippona).
L’uomo è un essere che vive
per la verità: nella curiosità del bambino, nel suo continuo domandare
«perché», come nella ricerca paziente e disinteressata dello scienziato si
esprime la medesima tendenza a sapere come sono le cose. Poiché «la sola verità
che ci è data è nel movimento della ricerca»[23].
E soltanto chi è mosso intimamente
dalla cura per l’uomo e dall’interesse per l’osservazione di ciò che gli accade
nel presente può fare filosofia, partendo dall’uomo e ritornando a esso. La
filosofia è, infatti, curarsi di se stessi. Ciò che conta in modo decisivo è
che l’uomo afferri se stesso nella verità, che scelga se stesso, che si fondi
su se stesso, e diventi così quello che è. E questo essere «se stesso» si
realizza solo in rapporto agli altri, poiché “noi diventiamo noi stessi solo
nella misura in cui l’altro diviene se stesso e diveniamo liberi tanto quanto
l’altro diventa libero”. (K Jaspers)
La differenza dunque, tra il
filosofo e una semplice persona colta non sta tanto nel generare delle sue idee
e neppure, naturalmente, nel numero di esse, ma piuttosto nel modo in cui le
domina, le unifica e ne fa un corpo organico, cioè un sistema. Kant ha espresso
forse nella maniera più chiara questa idea distintiva del filosofare: «Sotto il
governo della ragione le nostre conoscenze in generale non possono formare una
rapsodia, ma devono costituire un sistema, in cui soltanto esse possono
sostenere e promuovere i fini essenziali della ragione stessa. Per sistema poi
intendo l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea». Il sistema
come «l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea» costituisce
l’ideale di ogni genuino filosofare.
Ogni filosofia è un sistema, nel quale le diverse
parti si sostengono e si motivano a vicenda. Solo in questo quadro i diversi
pensatori assumono un significato e la filosofia può insegnare qualcosa.
Tuttavia questa esigenza che
la filosofia sia organismo, totalità di parti intrinsecamente coordinate, non
dev’essere confusa con la pretesa di racchiudere il filosofare in uno schema
rigido ed immutabile da imporre alle altre forme del sapere. In realtà, la
ricerca filosofica, proprio in quanto è caratterizzata dall’esigenza della
sistematicità, è tale che, a differenza di ogni altro tipo di ricerca parziale,
investe e pone in questione il ricercatore stesso. La domanda filosofica, qualunque
sia il suo oggetto, è una domanda radicale in cui è coinvolto anche il
domandante, anzi, egli stesso in primo piano.
Una filosofia che non si
sviluppa come un sistema è «rapsodica», come dice Kant, inconcludente ed
esposta a tutti gli equivoci delle interpretazioni arbitrarie; la filosofia
deve essere intesa come la disponibilità del pensiero a rivedere le proprie
certezze nella misura in cui ne approfondisce e ne estende la verità, ed
accetta, in questo modo, di allargare i propri orizzonti facendo proprie le
verità altrui, dopo averle analizzate criticamente e, di conseguenza, giudicate
con obiettività.
Naturalmente, parlando di
«verità altrui», si considerano le idee dei contemporanei quanto le concezioni
degli antichi: entrambi ci permettono di stabilire un rapporto nuovo fra
presente e passato storico. Poiché ogni cosa, sia essa pensata o vissuta, si
ricava dallo strettissimo intreccio presente fra la domanda filosofica e la
tradizione del passato.
Il modo in cui interroghiamo
e rispondiamo, infatti, è già determinato dalla tradizione storica nella quale
ci troviamo. E la verità nella sua origine la possiamo cogliere solamente nella
nostra situazione storica, che si determina volta per volta. Tutto deve essere
pensato partendo da un proprio motivo originario, se vogliamo che il nostro
filosofare rimanga veramente tale.
Ogni volta che noi facciamo
della filosofia, ci troviamo di fronte a un problema fondamentale e concreto da
risolvere: questo è il modo in cui la filosofia esiste per noi. La filosofia, infatti,
si determina e si concretizza attraverso il modo con cui assume e mette a
profitto la sua storia.
La filosofia non è dunque
solo una trattazione puramente teoretica né determina soltanto una prassi, ma
insieme, teoresi e prassi, all’interno della filosofia, implicano un modo di
vivere; il che significa che l’atteggiamento teorico di fronte ad essa diventa
reale solo mediante la viva assimilazione dei suoi contenuti.
E questo determina l’utilità prodotta dalla filosofia: generare uno stile di vita che condiziona l’andamento dei nostri pensieri e la nostra visione del mondo. Tutto ciò affinché il filosofo possa consegnare all’umanità, presente e futura, la propria essenza, la verità insita in lui, la quale ha tre funzioni principali: innanzitutto costituisce lo scopo della sua esistenza presente; inoltre per essa è disposto a morire in base alla coerenza che professa e che, se è un vero filosofo, vive ogni giorno; ed infine, essa rappresenta ciò che sopravvive dopo la morte del corpo e ciò entro il quale l’essenza del filosofo, cioè la linfa vitale del proprio spirito, rimane in vita.
In un clima decisamente
squilibrato che caratterizza questi decenni riguardo alla posizione gerarchica
in cui porre la filosofia e la religione all’interno del nostro sapere, in
quanto espressioni o meno di verità, e rispetto al loro stesso rapporto, sembra
assurdo concludere il nostro discorso escludendo completamente il “problema
Dio”, senza cioè dare un nome, di fronte allo scetticismo comune, al nostro credo, sia esso filosofico religioso o
personale, ma comunque sempre la linfa vitale dell’esistenza umana.
E’ per questo motivo che
dopo una lunga riflessione ho deciso di aggiungere quest’ultima parte che, più
che un vero e proprio capitolo, la si può definire un epilogo. Una sintesi
finale in cui viene messo a confronto il “concetto base” espresso finora,
ovvero che il sapere per il sapere è
al di sopra di ogni altra idea particolareggiante, con la religiosità, la
quale, troppo spesso, costituisce, all’interno dell’esistenza di ogni singolo
individuo, l’ “ago della bilancia” nella polarità vita-morte, in quanto è
sempre presente in quell’infinito istante che intercorre tra una scelta ideale
e la decisione fattuale, ossia tra l’essere e il vivere, la potenza e l’atto.
Lo scienziato Freemann J.
Dyson afferma che “la scienza è eccitante perché è piena di misteri irrisolti e
la religione è eccitante per la stessa ragione”; dunque, egli evidenzia quanto
sia il mondo della scienza che il mondo della religione siano pieni di misteri
irrisolti, ma, infondo, entrambi sono capaci di catturare la coscienza umana e
stimolarla alla ricerca ultima: la verità.
Tutto il mondo è colmo di
misteri irrisolti, fin dalle antiche domande del primo uomo, “Chi sono? Dove
vado e da dove vengo? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo la vita?”,
che sono tutt’oggi una realtà così presente nella coscienza di ogni uomo, che
lo conduce alla meravigliosa follia del viandante. Sì, perché, come abbiamo
detto più volte finora, l’uomo è domanda, è ricerca, è un viandante; tutta la
sua vita è un eterno esodo, è nostalgia; nostalgia di fede, di qualcosa o
qualcuno in cui credere, sperare. L’uomo, qualunque sia il suo credo religioso
o a qualsiasi cultura appartenga, ha bisogno di un ente supremo per poter
spiegare a se stesso la nascita, la morte, il dolore e tutta l’esistenza umana.
Voglio subito sottolineare,
però, che per «ente supremo» non intendo affatto restringere il campo e parlare
così di Dio, protagonista delle religioni, qualunque sia il nome che gli si
attribuisca; bensì, utilizzo questa parola per specificare l’entità di un credo personale, che può rappresentarsi
in qualsiasi “essere”, come persona o come Dio, può essere la scienza o la
natura, un sorriso o un’idea.
L’essenziale, in tutto ciò,
è rendersi conto che durante tutta la sua esistenza l’uomo è alla-ricerca-di:
egli fa domande, ne ricerca le risposte, le cause, le spiegazioni, e
incessantemente tenta delle sperimentazioni empiriche.
Nella stessa maniera, l’uomo
religioso cerca per tutta la vita, come l’uomo scientifico cerca per tutta la
vita; perché, in realtà, non è l’uomo qualificato o che noi ci rappresentiamo
in qualcosa che cerca, in verità, è l’uomo in quanto è che cerca, l’uomo in quanto essere,
colui che vive innanzitutto di sé. Quest’uomo, fin da bambino, osserva il mondo
che lo circonda con lo stupore dell’innocenza di chi lo guarda per la prima
volta: soltanto con questo comportamento, cioè avendo sempre vivo nel proprio
animo lo stupore del bambino, l’uomo può sentirsi vero filosofo, religioso o
scienziato allo stesso modo. In virtù del fatto che ogni uomo è creatore:
creatore della sua vita giorno per giorno; creatore delle infinite domande che
ognuno si pone e che spesso restano senza risposta; e creatore delle mutevoli
risposte che ognuno dà a se stesso.
La filosofia, in
quest’ottica, viene intesa come ricerca di un senso universale dell’essere e per
questo come costituzione di una possibile saggezza.
Nell’Etica Eudemea Aristotele parla della filosofia come ricerca dei
fondamenti e addirittura come contemplazione del divino che in se stessa è
principio di vita.
Questa prospettiva viene poi
ripresa nel Medioevo dove, in quanto scienza del divino, la filosofia è intesa
come disposizione e come riflessione interna alla vita di fede, philosophia ancilla theologiae. La
situazione più equilibrata del nesso filosofia-fede si trova in Tommaso
d’Aquino, per il quale la filosofia esercita, sì, la sua funzione ancillare, ma
operando nell’autonomia e nella proprietà del suo metodo.
L’idea
platonico-aristotelica della filosofia come ricerca del fondamento dà vita, in
epoca romantica, alla concezione della filosofia come sapere assoluto.
Hegel dice infatti che le
diverse scienze devono scomparire nella “necessità del concetto”, in lui
troviamo dunque la filosofia intesa come unico vero sapere.
Questa prospettiva viene
ripresa nell’ambito dell’idealismo italiano in cui, con B. Croce e G. Gentile,
il dettato hegeliano raggiunge le sue estreme conseguenze: le scienze positive
sono allora intese come una funzione meramente strumentale e pratica, mentre
soltanto la filosofia può valere come vero e proprio sapere, proprio in quanto
in essa viene raggiunta la dimensione assoluta del reale.
Virando ora lo sguardo, e
soffermandoci sull’evoluzione del termine «religione», notiamo che da una parte
abbiamo la filosofia, che nel tempo ha cercato di imporsi come un oggettivo
sapere assoluto; e dalla parte opposta c’è invece la religione, che nasce
sostanzialmente come relazione tra Dio e l’uomo, il mio “io” di fronte al “tu”
che mi pensa e mi fa esistere, ma che col tempo si concretizza, anch’essa, come
verità assoluta, con la pretesa di imporsi al di sopra di ogni altra
concezione.
Ne deriva che religione e
filosofia, durante l’evolversi di tutta la loro storia si sono eternamente
battute per avere entrambe il predominio assoluto l’una sull’altra; e se ci
soffermiamo su questa visione, chiusa e senza vie d’uscita, scopriamo (con
estrema tristezza!) che ancora oggi scienziati, studiosi e teologi sono ad una
tavola rotonda con la convinzione di porre la propria ideologia sul gradino più
alto della scala della cultura, poiché tutti, allo stesso modo, pretendono che
l’uomo o sia completamente filosofo, o si professi ateo dalla nascita fino alla
morte senza mai alcuna esitazione, oppure si proclami credente in un Dio e ne
osservi tutte le regole, senza però nessuna alternativa, né alcuno spiraglio di
dialogo tra le diverse ideologie.
In questo modo, però,
nessuno si è reso conto che la pretesa di possedere tutta la verità ha portato
finora soltanto alla chiusura, all’esclusione di tutto ciò che è diverso, altro
da noi e dal nostro pensiero.
In realtà, nessuno può
ritenersi unico interlocutore di Dio, come nessuno può ritenersi unico
detentore della verità. Tutti, credenti e non credenti, dovrebbero riconoscere
una varietà di percorsi seguiti dal divino, dall’assoluto nel suo significato
più astratto, cioè dalla verità, per comunicarsi agli uomini: lo splendore del
cosmo, le vicende della storia, i segni dei tempi, il progresso, la tecnologia,
il carisma profetico, i testi sacri di un popolo, i testi filosofici di
un’epoca.
Anche se a molti non sembra,
in fondo, si tratta di forme identiche e sovrapponibili tra loro, in grado di
ritenere possibili altre parole, altre ideologie che hanno illuminato il
cammino di qualcuno altro e testimoniato la presenza del suo Dio. «Dio», voglio ripeterlo, non in quanto protagonista di una
religione, ma in quanto credo,
speranza e gioia per l’esistenza umana, che diviene lentamente il senso ultimo
per il nostro spirito: per cui può essere il Dio cristiano, musulmano, o di
altre religioni, ma anche l’uomo stesso, il sapere, la donna amata, l’amore in
sé, o semplicemente la vita.
L’accusa rivolta alle
religioni monoteistiche di aver favorito – in virtù della loro fede in un unico
Dio – il moderno totalitarismo culturale, l’arroganza della verità,
l’assolutismo del potere, la prevaricazione di una civiltà e di una razza sulle
altre, nasce, innanzitutto, da una visione globale e totalizzante, arrogante ed
esclusiva. Per cui unica è la verità, unico è Dio, unico è lo Stato, unica la
storia del progresso e della rivoluzione, unico il linguaggio che si parla,
unica la grammatica che ne regola l’uso.
Da qui deriverebbero le
ragioni dell’intolleranza. Nella coscienza secolarizzata dell’uomo
contemporaneo permane la logica “monoteista”, la fede del primato dell’Uno sui
molti, di una classe dominante, di un interesse economico e religioso. Dal
momento che il valore è uno e il credente l’ha compreso, chi esprime un diverso
parere, non si pone solo contro di lui, ma contro la verità, la giustizia, la
libertà. Contro Dio stesso, supremo garante di ogni valore.
Il passo dall’unità alla
totalità e infine al totalitarismo è breve. La supremazia dell’Uno annulla ogni
distanza, ai suoi piedi è immolato ogni residuo di diversità, di molteplicità.
La sete di totalità diventa così aggressiva e vorace da non ammettere nulla al
di fuori di sé. Non tollera alcuna resistenza e pretende di spiegare e
programmare l’intera realtà. Non sopporta alcuna interruzione, esorcizza
l’inquietudine della singolarità, non lascia spazio allo stupore della differenza
e alle sorprese del futuro.
La professione di fede in un
solo Dio, o comunque in un’unica verità, è un’applicazione particolare di una
mentalità generale che vede nell’unità la sintesi di ogni valore e nella
molteplicità la radice di ogni male. Non si possono concepire più fedi, dal
momento che Dio è unico; analogamente, non possono esserci diversi approcci
alla verità, perché essa è unica. Una verità “plurale” è un’incongruenza
logica. Così come più giustizie generano anarchie e confusione sociale. Più
libertà rendono ingovernabile la vita sociale, dove tutto deve essere
pianificato e gestito con estrema lucidità.
A questo punto, se vogliamo
ritrovare la nostra vera essenza di umanità, esistente solo all’interno di una
pacifica convivenza collettiva,
dobbiamo soffermarci e riflettere sulle meravigliose parole di Volli che,
meglio di chiunque altro, scorge il rimedio per quello che è oggi il male moderno dell’individualità. Egli
afferma che «noi abbiamo oggi bisogno per comprendere il nostro mondo e agire
eticamente in esso di uno strumento intellettuale, di una metafora che ci
permetta di riconoscere la pluralità del sacro, l’irriducibile differenza dei
punti di vista, la forza trasformatrice della disomogeneità dei valori, la
ricchezza del conflitto»[24].
La teologia, alla mercé
della filosofia, e di ogni altra scienza, dovrebbe prendere le distanze e
superare una visione del sapere come mono-logo, privilegiando una ragione
particolare piuttosto che un’altra, e affrettarsi a diventare dia-logo: dialogo significa porre sullo stesso
piano la propria posizione o la propria fede (che è lo stesso) e le convinzioni
degli altri, cosicché tutto si riduce ad uno scambio tra posizioni
fondamentalmente soggettive, ma soprattutto relative, con lo scopo superiore di
raggiungere il massimo di collaborazione e di integrazione tra le diverse
concezioni. Non si tratta di eliminare ogni legittima esigenza di unità, ma di
evitare di farla prevalere ad ogni costo, sacrificando le altrettante legittime
esigenze di pluralismo.
Ogni ambiente culturale deve
sentirsi strettamente concatenato e dipendente dagli altri. Solo così si
sentirà ininterrottamente spronato a confrontarsi sulla rispettiva concezione
del mondo, dell’uomo, della religione, della vita.
Da questo costante confronto
scaturisce, di conseguenza, un maggior apprezzamento delle risorse presenti
nelle altre tradizioni e insieme una più chiara coscienza dei propri valori e
della propria identità.
L’incontro tra le diverse
culture provoca, infatti, un’interessante fusione di orizzonti. Le rispettive
concezioni della vita e le diverse esperienze storiche, raffrontandosi,
provocano un potente impatto sulle coscienze di tutti. Ne scaturisce
successivamente un processo tendente a reinterpretare quei significati primari
che stanno alla base dei propri modelli di vita e danno luogo ad una nuova
originale concezione della realtà.
In questa prospettiva, la
tendenza a considerare l’uomo inserito in un universo ordinato per gradi
gerarchici, unitario e compatto nella sua struttura, è superata da una nuova
visione, più articolata, capace di valorizzare le esigenze della pluralità e di
articolarle con quelle tradizionali dell’unità. In maniera analoga, la
conoscenza non è più percepita come un evento d’illuminazione e una forma di partecipazione
ad un sapere superiore. E’ vista come il risultato di processi logici. Non è
monopolio di una classe privilegiata. Può essere ottenuta mediante l’esperienza
concreta e pertanto è accessibile a tutti, senza alcuna esclusione.
A questo proposito, in virtù
di tutto quello che ho scritto finora, ed in parte sfruttando il fatto di
trovarmi in un capitolo dedicato anche alla religione, ci tengo a sottolineare,
ancora una volta, la forza dello spirito, quella particolare sensazione di
libertà che è parte di ogni individuo, e che ci permette da una parte di
esprimere senza esitazione il nostro pensiero e dall’altra di ascoltare senza
pregiudizi il pensiero altrui.
Ora, ripercorrendo per un
momento il quadro della storia, soffermandoci a riflettere su epoche
sconosciute e remote, immaginando di camminare su terreni che sono stati
floridi campi di vegetazione in grado di sfamare genti d’ogni razza o, caso
mai, lande deserte e suoli sterrati ove è caduto il sangue innocente delle
atroci battaglie del potere; rivivendo quindi il passato tutto ci appare come
un miracolo: il miracolo della vita! Quella vita di cui alcuni ne hanno saputo
fare un paradosso: Cristo, il paradosso dell’amore, l’amore eterno e verso
tutti, senza distinzione alcuna; Socrate, il paradosso della saggezza, egli è
stato la saggezza fattasi persona consapevole della propria ignoranza. E poi?
Non è possibile che il quadro della storia della coerenza, dove i colori
sfumati del pensiero lentamente diventano vita nei lucenti colori dell’arcobaleno,
finisca qua! Voglio credere che nel mondo ci sono stati, e ci saranno ancora,
infiniti altri paradossi in grado di rappresentare il simbolo da prendere come esempio per l’uomo del progresso che, troppo spesso, nella sua corsa verso il
possesso del mondo, retrocede convinto invece di avanzare.
A questo punto, non possiamo
assolutamente permetterci di dimenticare un altro paradosso, un altro
personaggio della storia che ha fatto del suo pensiero lo scopo della sua vita,
che si è lasciato torturare e bruciare sul rogo senza mai negare le sue idee:
Giordano Bruno.
Egli è stato denominato
l’uomo dalla “doppia verità”, e forse oggi lo definiremo il rivoluzionario, colui che va controcorrente, che non accetta
nessun ordine etico impartitogli senza logica, ma che segue soltanto il suo
spirito e che vive nella libertà del suo essere.
Citare un uomo quale
Giordano Bruno ci serve non solo per ricordare le sue accuse contro le ormai
ammuffite teorie della Chiesa cattolica, teorie che purtroppo non sono affatto
cambiate, ma ci serve innanzitutto per sentir vibrare nelle nostre membra
l’energia del sapere, la libertà del dialogo ed il coraggio di morire per
un’idea. Proprio come Socrate. Proprio come Cristo. Proprio come molti altri;
ovvero proprio come chiunque crede e
vive della sua fede.
Queste emozioni vengono
meravigliosamente espresse da G. Drewermann[25],
che ce le fa vivere attraverso le parole pronunciate proprio dallo stesso
Giordano Bruno come fosse il suo testamento scritto il giorno prima di morire,
o meglio, come l’ultima arringa, non però di un avvocato, ma di un imputato che
non ne approfitta per dichiarare la sua innocenza ed avere salva la vita, ma
bensì la usa per gridare la libertà dello spirito, quella che mai nessuno potrà
portargli via, quella che vivrà anche dopo la sua morte; e che gli fa dire, con
ardore:…
«Lo
spirito è anelito alla verità, è respirare nell’infinito, è un desiderio
infinito di comprensione e conoscenza, e solo la misura dell’amore di un essere
umano determina le dimensioni del suo sapere.
Voi,
uomini di Chiesa invece, terrorizzate voi stessi e i vostri allievi con
un’insensata varietà di teorie polverose, di dogmi difesi nella superstizione,
e di quelle che voi spacciate per rivelazioni divine. Non avete mai bisogno di
cercare, sapete sempre tutto; non siete mai sfiorati dal dubbio, avete
certezze; non vi siete mai sbagliati, il vostro giudizio è consolidato.
La
differenza fra voi e me è una differenza che riguarda il temperamento, la
linfa, l’amore, la passione. Non mi piace imparare qualcosa che non amo; non
voglio conoscere qualcosa che non mi riguarda; disprezzo un sapere che non mi
renda saggio. Voi non fate che amministrare un museo dello spirito, del quale
fate parte mentre ancora siete in vita; il mio obiettivo fu ad ogni istante di
dissolvermi per l’infinito e nell’infinito. Anelo solo ciò che amo, e solo ciò
a cui anelo voglio conoscere, e solo ciò che conosco posso amare. La conoscenza
è amore che trova compimento, desio appagato, ebbrezza dei sensi, consumarsi
dell’Io, fallire e naufragare, schizzare di spuma.
Infinito
anelito, infinita ricerca, infinito desiderio dell’infinita verità
dell’universo in cui si specchia la verità di Dio – questo è l’uomo, questo il
mio essere.
E’
il pensare che mi distingue da tutti gli altri; ed è allo stesso tempo questo
pensare che mi unisce a tutti gli altri; solo nella mia coscienza sono un Io in
cui si specchia l’universo.
Il
pensiero mi venne spontaneo, e corrispondeva in modo curioso al dormiveglia con
cui l’iniziale sensazione di freddo lentamente si trasformò in ardore
interiore: tutte le cose sono allo stesso modo importanti e non importanti.
Sono e non sono. Vengono e svaniscono. Godimento e dolore non sono che stati in
noi. Lo stesso vale per le determinazioni di bene e male, di alto e basso, di
sublime e meschino. Persino i palazzi di Roma necessitano delle cloache. La
pantera più bella non vive senza la crudeltà dei suoi artigli. Ogni essere
umano viene al mondo fra sangue, feci e urina. Cosa ci attende quindi? «Male»,
«volgare» o «meschino» è solo ciò che si rifiuta alla vita e si sottrae al
circolo. Ogni cosa si rigenera in ogni cosa; persino la rosa non potrebbe
fiorire senza la putrefazione dell’humus. Putrefazione, decomposizione,
corruzione – tutto ciò è necessario,
e nell’ordinamento interno della natura, furfanti e vigliacchi evidentemente
sono altrettanto utili e necessari quanto santi ed eroi. Ciascuno deve fare ciò
che sa. Non abbiamo nulla da rimproverarci l’un l’altro – non i vermi agli
uccelli, nei cui escrementi essi vivono, non gli uccelli ai vermi, che essi
avidamente mangiano. Ogni progresso è solo relativo – l’innalzarsi dell’onda,
che noi, a seconda della prospettiva, vediamo immersa in un bagliore dorato o
nell’oscurità, altro non è che l’inizio della discesa e ciò che essa porta con
sé sono le conchiglie con cui i bambini giocano sulla spiaggia.
Nulla
si può vedere se non si ha un punto fermo sotto i piedi, ma tutto ciò che un
essere umano potrà mai vedere è determinato dal punto di osservazione. Ciò che
a questo apparirà buono, a quello apparirà malvagio, ciò che a questo apparirà
chiaro, a quello apparirà scuro, ciò che a questo apparirà grande, a quello
apparirà piccolo. Ma se così stanno le cose, nessuno è in possesso del punto di
osservazione «giusto», dell’unico vero, «cardinale». Tutti i punti di
osservazione sono teoricamente possibili e realizzati nell’infinità
dell’universo; quel che conta tuttavia è vivere il proprio punto di
osservazione con la maggior decisione possibile. Perché la vita stessa ha evidentemente
il proprio senso solo in questa infinita peregrinazione dell’anima attraverso
l’infinita molteplicità dei punti di osservazione. L’universo è infinito e
perfetto; ogni particolare in esso è tuttavia particolare e finito, e perciò
deve percorrere tutti i gradi dell’essere per diventare partecipe dell’infinità
e in questa divenire esso stesso perfetto. L’uomo in quanto spirito è una
potenzialità infinita che attua se stesso in successioni temporali infinite e
così facendo giunge a essere una degna immagine dell’infinito. Tutto è
transizione. In nessun luogo è requie. In ogni cosa è insita quella potenza
formativa che con espressione approssimata definiamo anima.
Bisogna
considerare l’universo come un organismo armonico, in cui ogni parte stabilisce
un nesso interiore con il tutto. Ne consegue che la legge dell’analogia fra il finito e l’infinito non determina più il
rapporto fra creato e creatore, fra Dio e mondo, ma deve invece essere intesa
come filo conduttore di una ricerca tesa alla comprensione di un mondo di
progressive figurazioni e similitudini ai diversi gradi dell’essere. L’universo
stesso è qualcosa di simile a un Dio in divenire, un’infinita abbondanza di
possibilità costrette a realizzare e perfezionare se stesse.
Sino
a oggi, nessuno dei sei giorni della creazione si è concluso. Ciascuno
prosegue, si compenetra, si mescola con altri processi creativi, e non cessa
mai.
…
Colpire
con gli argomenti, con la parola e l’arguzia, darci dentro con le mie buone
ragioni e vincere nella schermaglia verbale per me era un divertimento, ed è
per questo che riuscivo a trasformare ogni aula in un’arena, ogni piazza del
mercato in un campo di battaglia di ondeggianti legioni del pensiero. Ogni fare
artistico consiste nell’immaginare le cose in maniera diversa da come sono;
negazione, contraddizione, mutamento, formazione, ricreazione, questo solo è
spirito. Non ho mai capito come gli eruditi da tavolino possano confondere la
loro paura dei conflitti con la pensosità e la saggezza. Lo spirito è la forza
di resistere alle obiezioni. Disgustoso, ottuso e rozzo mi pare invece voler
definire i conflitti con strumenti estranei allo spirito. Ogni violenza è un
difetto di spirito – e un difetto di compassione. La mia obiezione di fondo nei
confronti del Cristo dei cristiani è che egli ha fatto passare per qualcosa di
contrario a Dio l’istinto naturale di fuggire il dolore e di cercare la
felicità e di avere portato agli uomini un Dio la cui giustizia vendicativa
come atto di espiazione necessita della sofferenza degli innocenti.
La
maggior assurdità dei cristiani consiste tuttavia nel credere che Dio non si
faccia «uomo» sempre e ovunque, così come nel corso della creazione si fece
pietra e fiore e stella, ma che si sia fatto uomo un’unica volta e per sempre
esattamente 1600 anni orsono nella persona di Gesù di Nazaret.
…
Voi,
padre inquisitore, accusate di presunzione gli uomini che pensano
autonomamente. Credete che sia sufficiente ottenere un titolo per essere voi
stessi la verità. Ma è una verità che non vi è costata niente: nessuna notte
insonne, nessun tragico errore, nessun tormentoso interrogarsi, nessuna invidia
da parte delle moltitudini, né la persecuzione dei governanti.
Voglio
dirvi una cosa: con il vostro Dio trino volete solo acquistare prestigio agli
occhi della gente. Considerate un atto di superbia pensare autonomamente, ma
volete possedere la verità senza pensare e volerla amministrare senza spirito
in una carica non è solo un atto di superbia è anche una menzogna criminale,
infame, è autentico orgoglio contro Dio.
La
rivelazione? Dio non ha bisogno di voi per rivolgersi agli uomini. Quando vuole
parlare con i fiori, fa splendere il
sole, quando vuole parlare con i vermi impregna il suolo di umidità, quando
vuole parlare con le nuvole fa soffiare i venti: ogni cosa ha la sua lingua
nella quale Dio le parla. Tutto ciò che corrisponde alla natura di un uomo, di
un fiore, di un verme o di una nuvola parla a lui di Dio che l’ha creato.
Nell’impulso di ogni individuo verso le forme più compiute della propria
esistenza trovate il modo in cui Dio parla. Dio non si è mai rivelato, si
rivela costantemente e ovunque, tutta la sua creazione è un’unica rivelazione,
ed essa dura dall’eternità come l’Eterno medesimo.
«Messer
Bruno, negate la particolare rivelazione di Dio in Suo Figlio, nostro Signore
Gesù Cristo?»
No,
padre inquisitore, non nego la particolare rivelazione di Dio in suo Figlio
Gesù Cristo; nego invece che Dio possa rivelarsi pienamente in un uomo
limitato; Dio è più grande, infinitamente più grande di ogni uomo, anche
dell’uomo Gesù di Nazaret. Da un punto di vista filosofico…
«Non
sto chiedendo al filosofo ma al teologo. Non potete separare le due cose?»
Non
mi sono mai considerato un teologo. Fra la teologia e la filosofia non vedo
alcuna comunanza se non nella inquietudine determinata dai medesimi
interrogativi. Cosa è il Bene, cosa il Male, come si arriva all’esistenza di un
mondo, il cosmo è eterno o ha avuto origine nel tempo, l’uomo è libero o il suo
agire è sottoposto a determinate leggi, esiste una vita eterna o la morte mette
fine a ogni cosa, in cosa consiste la verità delle religioni e quale religione
è quella giusta: tutti interrogativi che i teologi si pongono al pari dei
filosofi; profondamente diverse sono le risposte. Ammetto apertamente di non
aver mai avuto la stoffa del teologo; come avrei infatti potuto, alla stregua
dei teologi, considerare una prova le opinioni di persone che sono vissute
oltre un millennio orsono e alle quali si deve credere ciecamente solo perché
la santa Chiesa li considera i suoi santi padri? Nell’ambito della filosofia,
quando la si intende rettamente, non ha molta importanza citare un’autorità e
avere sempre sulle labbra Aristotele. Fu un delitto contro l’intelligenza
umana, un grave blocco del pensiero che a partire dal II secolo dopo Cristo i
teologi della Chiesa abbiano letto i filosofi greci come loro simili: come
maestri dogmatici. Anziché pensare dall’interno le loro idee, essi dichiararono
come dato da Dio e indubitamente vero tutto ciò che serviva ai loro scopi. Il
mero risultato di una riflessione decideva su verità e falsità; non importava
sapere come ci si fosse arrivati, perché essi già sapevano cosa era vero e cosa
era falso; prendevano in prestito solo le motivazioni. Con le idee dei grandi
filosofi giocavano quindi come un bambino con i pezzi delle sue costruzioni e
chiunque non si fosse schierato con i princìpi da essi stabiliti era
considerato uno spirito contrario a Dio che andava combattuto ed eliminato con
tutti i mezzi.
Una
cosa vi dico: filosofare non è seguire meccanicamente autorità estranee,
santificate dalla Chiesa; filosofare significa prestare fede esclusivamente
alle ragioni e rigettare un’opinione nel momento stesso in cui gli argomenti
più convincenti sono dall’altra parte. Filosofare significa lottare, significa
combattere, significa essere liberi. Filosofare significa abbandonare il padre
e la madre e non abitare mai in una casa finita. Filosofare significa sentire
Dio nel cuore di tutte le cose, nello spirito degli uomini, nella grandezza
dell’universo. Filosofare…
…
Io
dico: conosce Dio solo chi osa pensare; risulta degno della rivelazione di Dio
solo chi oltrepassa i confini del sapere tramandato e si spinge in direzione di
ciò che è ignoto e celato; per questo motivo ogni epoca e ogni cultura ricevono
le proprie rivelazioni dal divino.
…
Con
la mia morte mi sconfiggeranno?
E’
l’ultimo interrogativo aperto. Il fatto che mi privino della vita non equivale
certo a una vittoria, e anzi è forse testimonianza della loro debolezza. Quanto
deve essere forte un uomo se sono costretti a ucciderlo per continuare ad agire
come in passato? Non posso impedire che loro continuino ad agire come in
passato. Ma su di me avrebbero «vinto» solo nel momento in cui io considerassi
giustificato il loro verdetto, solo allora sarei smentito una volta per tutte –
sarei un errore tracciato nottetempo nella rena che la granata, al mattino,
cancellerà con un sol colpo.
Sono
colpevole?
No,
non sono colpevole. Non potranno mai convincermi del contrario. Certo vi sono
molti motivi per cui devono dichiararmi colpevole; ma nessuno di questi regge.
Avrei
bestemmiato Dio? Al contrario. Ho rivelato loro un Dio assai più grande,
interiore, misterioso e benevolo di quello che essi potevano anche solo intuire
nella loro parola d’ordine trina.
Avrei
negato la loro dottrina? Anche questo solo in senso letterale. Naturalmente
hanno ragione a respingere in quanto farsesco il mio rifarmi alla dottrina
della doppia verità. «Poiché, come dite, le vostre verità sono a tal punto sublimi
da risultare imperscrutabili allo spirito umano, io preferisco mettermi alla
ricerca delle verità perscrutabili. Incapace di scrutare l’imperscrutabile, mi
sono preso a cuore la filosofia.» Una posizione tanto semplice sarebbe un
peccato grave e una colpa eterna? Vi offende – giusto! Ma la libertà di
pensiero è un peccato al cospetto di Dio? Dimostra solo fino a che punto voi
stessi deformiate l’immagine divina, attribuendole la vostra smorfia. Non devo
ritrattare nessuna di queste idee; di esse vado fiero!
…
Come ho vissuto quindi?
Solo
a partire da qui posso capire perché vengo condannato.
Le
accuse teologiche, lo ripeto una volta di più, sono del tutto insensate.
Riesaminandole non posso che ribadire, per l’ultima volta con estrema
decisione: non colpevole! Il mio punto di vista non cambierà nemmeno in queste
ultime ore di vita. Anzi, non cambierà proprio perché sono le ultime!
Non
credo nella Chiesa, d’accordo! Ma non ho più voglia di rivolgermi ai suoi
rappresentanti come se fossero dei bambini ai quali, per farli addormentare,
ogni sera bisogna raccontare con le stesse parole la stessa favoletta. La mia
filosofia è in funzione del «risveglio». Se coincide con la dottrina della
Chiesa, per me va bene; se non coincide, che diritto ha questa Chiesa di estirpare
interrogativi e dubbi con la tortura e l’omicidio, anziché confrontarsi
onestamente con essi? No, se di colpa si tratta, è tutta dalla parte vostra, di
voi che uccidete lo spirito che presumete di possedere.
«Lo
Spirito di Cristo ha fondato le Chiesa?» «Lo Spirito di Dio è il costante
sostegno della Chiesa?» «Lo Spirito di Dio introduce la Chiesa in ogni verità
del Divino?»
Ma
di quale «Chiesa» si sta parlando? Non certo della vostra! Non certo di questo
gruppo d’azione frantumato dalle prepotenze di arcivescovi-principi dominati
dall’odio! Ricordatelo: non è più la Bibbia a stabilire ciò che è vero; ciò che
è vero deve trovare conferma al cospetto della ragione umana. A determinare ciò
che è bene e ciò che è male non è più una commissione composta da cardinali e
teologi; a decidere è invece il grado di umanità che vive nel cuore di
ciascuno.
…
Questa
stessa notte brucerete il frate Giordano Bruno; ma dalle sue ceneri emergerà
Filippo, l’uomo che io ero quando nacqui dalle mani di Dio.
Siete
ormai pronti a uccidermi. Ho negato la Santissima Trinità, è vero; e tuttavia
credo di non essere mai stato vicino al mistero del Divino come in questa ora.
Mi uccidete perché a vostro parere avrei negato Cristo; è vero soltanto che ho
sempre anteposto il sapere al credere; ma ho anche sempre saputo che si può
solo sapere se si vive, e non ho mai negato che si può essere vivi solo essendo
uomini che amano. Anche alla persona del Cristo non sono forse mai stato tanto
vicino come in questo momento. Se aveste detto: l’uomo di Nazaret venne a noi
da Dio perché era un uomo che amava autenticamente: vi assicuro che non mi
sarei mai preso gioco della sua figura. Dovevo invece distruggere con la forza
delle mie parole il vostro mito cristologico, un mito assetato di potere.
Ho
considerato sacro sempre e solo l’amore. Per il fatto di non averlo vissuto
davvero merito che mi uccidiate; e che il fuoco del supplizio che mi imponete
attraverso il mio corpo penetri a fondo nella mia anima affinché possa
rinascere in una fiamma inestinguibile. Sì, ardere d’amore – se questa fu la
mia colpa, sia anche la mia purificazione!
Ma
voi cosa siete, miei probi giudici e carnefici! Avete mai sentito quel canto
dell’amore che, inaudibile, risuona nel mondo? Io per lo meno ho cercato di
prestare orecchio a questa melodia, di seguirla con tutte le mie forze.
Adesso
resta da fare un’unica cosa: entrate pure in questa cella: non salverete la mia
anima – a voi irrimediabilmente folli non è concesso né al cospetto di Dio né
al cospetto degli uomini – ma la libererete dalle spoglie del suo errore e non
da ultime dalle grinfie della vostra stessa corruzione.
E’
arrivata la fine. Tutto ciò che dovevo dire, l’ho detto. Adesso non mi resta
che amarmi affinché domani sia abbastanza forte per sopportare i dolori che
vorrete infliggermi.»
La
vita di Giordano Bruno, quella che dovrebbe essere la vita di ogni studioso, di
ogni amante del sapere, non è altro che l’espressione del dialogo alla ricerca
della verità, del dialogo socratico che non ha affatto la presunzione di
prevalere sulle altre voci, ma ha bensì l’umiltà di ascoltarle tutte per farne
propria la parte migliore.
L’uomo infondo è eternamente
alla ricerca della verità, della sua
verità. E non è importante lo strumento che egli utilizza, se la religione, la
filosofia, l’ascetismo, o chissà cos’altro, ciò che ha davvero senso, lungo il
suo cammino nel raggiungimento dell’assoluto, è soltanto la sua fonte di
energia, ciò che gli permette di alzarsi e continuare a camminare ad ogni
esitazione: l’amore infinito per un sapere.
Dice bene il senatore
Simmarco, senatore romano del tardo sec. IV, il quale, durante un discorso
tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano afferma che “E’ la medesima
cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola quella che pensiamo, contempliamo
le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il
mondo che ci circonda; che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso
i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande
attraverso un’unica via”.
Ed è esattamente ciò che
sostiene oggi la razionalità, ciò che ha sostenuto Giordano Bruno con la sua
stessa vita, o meglio con la sua stessa morte, proprio come Cristo e Socrate,
ed è esattamente la sintesi di tutto il nostro discorso: la verità in quanto
tale non la conosciamo; nelle immagini più diverse, in fondo, miriamo alla
medesima cosa. Mistero più grande, la verità non può essere ridotta a una sola
figura che esclude tutte le altre, a un’unica via che vincolerebbe tutti. Ci
sono molte vie, ci sono molte immagini, tutte riflettono una parte del tutto e
nessuna di loro la totalità.
L’ethos della tolleranza appartiene a chi riconosce a ciascuna di
essa una parte di verità, a chi non pone la sua più in alto delle altre, ma si
inserisce tranquillamente nella poliforma dell’eterno inaccessibile.
Soltanto adesso, possiamo
finalmente comprendere che l’opera a cui si appresta giornalmente il filosofo è
quella di diffondere con tutte le sue forze che la fede, come entità spirituale,
e la ragione, come entità strettamente razionale e materiale, devono essere
entrambe viste e utilizzate come strumenti essenziali con i quali lo spirito
umano si innalza verso la contemplazione della verità.
La filosofia vuole portare
alla comprensione dell’uomo evoluto che tutto il mondo che lo circonda e la
vita stessa che egli progetta e vive è verità; una verità che diviene assoluta
soltanto quando la mente umana diventerà capace di osservare il mondo intero da
un unico piano: dal punto di vista della filosofia, della ragione, della fede,
della scienza,… ma senza la pretesa di prelevare l’uno sull’altro. L’uomo deve,
insomma, diventare un agglomerato di prospettive parallele e da lì tirar fuori
le risposte alle proprie domande.
La conoscenza umana non
preclude la conoscenza di Dio, ma solo con la consapevolezza della “dotta
ignoranza” di cui parla Cusano e del “sapere di non sapere” di Socrate, è
possibile intuire l’infinità. E nell’infinità l’intelletto vede e percepisce la
“coincidenza degli opposti”, cioè l’unità di tutte le conoscenze, anche di
quelle contrapposte tra loro, poiché è finalmente in grado di guardare
l’intero, e non più la parte.
L’Enciclopedia della filosofia e delle scienze umane, DeAgostini.
N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet.
N. Merker, Atlante storico della filosofia, Editori
Riuniti.
F. Cioffi – G. Luppi – A.
Vigorelli – E. Zanette, Il testo
filosofico, voll. 4, Edizioni Bruno Mondadori.
M. De Bartolomeo – V. Magni,
Filosofia, voll. 5, Atlas.
G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero Occidentale dalle origini ad
oggi, voll. 3, Editrice La Scuola.
G. Giannantoni, La ricerca filosofica, voll. 3,
Loescher.
M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, Il Melangolo.
M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi.
G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo,
Il Melangolo.
G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi.
G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi.
G. Reale, Filosofia antica, Jacva Book.
V. Vitiello, Storia della filosofia, Jaca Book.
A.
Plebe
– P. Emanuele, I filosofi e il quotidiano,
Sagittari Laterza.
A.
Plebe
– P. Emanuele, Filosofi senza filosofia,
Sagittari Laterza.
L. Geymonat, La libertà. Il concetto e le sue
ramificazioni, Rusconi.
F. Rella, Miti e figure del moderno, Feltrinelli.
F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli.
E. Ferrero, N., Einaudi.
P. McGrath, Il morbo di Haggard, Adelphi.
R. Wright, Ragazzo negro, Einaudi.
E. Drewermann, Giordano Bruno. Il filosofo che morì per la
libertà dello spirito, Rizzoli.
J.-P. Jouary, A cosa serve la filosofia?, Salani
Editore.
P. Casse – P. G. Claudel, La “Filosofia” per tutti, FrancoAngeli
Editore.
M. Buber, L’eclissi di Dio, Oscar Mondadori.
A.
Russo,
Dio a colori, Edizioni San Paolo.
L. Ferry, Al posto di Dio. Il bisogno di Dio nel sentire
contemporaneo, Sguardi Frassinelli.
P. Flores D’Arcais, Etica senza fede, Einaudi.
A.
Marchadour,
Vangelo di Giovanni, Edizioni San
Paolo.
P. Cola, Il logos e il nulla, Città Nuova.
C.
M.
Martini, La preghiera di chi non crede,
Oscar Mondadori.
C.
M.
Martini, C’è ancora qualcosa in cui
credere, Piemme.
C.
M.
Martini – U. Eco, In cosa crede chi non
crede?, LIBERALsentieri.
J.
Roloff, Gesù, Einaudi.
H. Jonas, La domanda senza risposta, Il Melangolo.
S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi.
[1] G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo, Premessa, Il Melangolo, pag. 7.
[2] N. Merker, Atlante storico della filosofia, Editori Riuniti, pag. 19.
[3] G. Reale, Filosofia antica, Jaca Book, pag. 11.
[4] Flores D’Arcais, Etica senza fede, Einaudi, pag. 182.
[5] M. De Bartolomeo – V. Magni, Filosofia. Elementi di filosofia: percorsi tematici, metodo e strumenti, Tomo 0, Atlas, pag. 10, da Pietro Pini, Introduzione critica alla storia della filosofia, Armando Editore.
[6] G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, pagg. 26-28.
[7] Ivi, pagg. 31-32.
[8] N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, voce Infinito, Utet, pag. 589.
[9] G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, pag. 41.
[10] Ivi, pag. 48.
[11] Ivi, pag. 81.
[12] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, pag. 65.
[13] F. Cioffi –
F. Gallo – G. Luppi – A. Vigorelli -
v E. Zanette, Il testo filosofico, Vol. 3/2, Edizioni Scolastiche Bruno
Mondadori, pagg. 450-484.
[14] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, pag. 24.
[15] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, pag. 48.
[16] G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, pagg. 469-470, da Platone, Simposio, 203 B 2 – E 5.
[17] Platone, Fedro, 249 d, Mondadori, pag. 59.
[18] Vangelo secondo Giovanni 1, 1-4, 14.
[19] P. McGgrath, Il morbo di Haggard, Adelphi, pag. 95.
[20] Jean-Paul Jouary, A cosa serve la filosofia?, Salani Editore, pagg. 124-125, da R. Descartes, I principi della filosofia.
[21] M. De Bartolomeo – V. Magni, Filosofia. Elementi di filosofia: percorsi tematici, metodo e strumenti, Tomo 0, Atlas, pag. 17, da Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b.
[22] Ibidem.
[23] E. Ferrero, N., Einaudi, pag. 57.
[24] U. Volli, Per il politeismo, Feltrinelli, pag. 19.
[25] G. Crewermann, Giordano Bruno. Il filosofo che morì per la libertà dello spirito, Rizzoli.