FILOSOFIA:

la linfa vitale!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Non era questione di credere o non credere

 a ciò che leggevo

ma di provare qualcosa di nuovo,

d’esser influenzato

da qualcosa che rendeva

differente la visione del mondo»

 

R. Wright, Ragazzo negro, Einaudi, pag. 294.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PREMESSA

 

 

Che cos’è la filosofia?

«Domandandoci: che cos’è la filosofia, noi parliamo sulla filosofia. Ponendo infatti la domanda in questi termini, ci collochiamo in una zona che si trova al di sopra e quindi al di fuori della filosofia. Ma lo scopo della nostra domanda è piuttosto quello di penetrare nella filosofia, di prendervi dimora e di comportarci nel modo che le è proprio, vale a dire di filosofare. Il cammino del nostro colloquio non deve perciò avere soltanto una direzione chiara, ma deve al tempo stesso far sì che tale direzione ci dia la certezza di muoverci all’interno della filosofia e non di rigirarvi intorno restandone fuori.

Il cammino che dobbiamo percorrere deve perciò essere di tal natura e muoversi in una direzione siffatta che ciò di cui la filosofia tratta ci riguarda direttamente, ci tocchi e in verità ci tocchi nella nostra essenza.

[…]

Per prima cosa dobbiamo cercare di porre la questione su un cammino chiaramente orientato, per non vagabondare fra rappresentazioni della filosofia arbitrarie ed occasionali.

[…]

Questo cammino, per un verso, ci sta di fronte perché la parola [filosofia] da lungo tempo si è rivolta a noi precedendoci; ma si trova, per altro verso, già alle nostre spalle poiché da sempre abbiamo associato e pronunciato tale parola. […] Eppure conosciamo molto confusamente questo cammino, anche se sulla filosofia greca possediamo e possiamo divulgare innumerevoli conoscenze storiografiche.

[…]

La domanda: che cos’è la filosofia, non è una domanda che conduca ad una specie particolare di conoscenza orientata su se stessa (filosofia della filosofia). Non è neppure una questione storiografica il cui interesse consisterebbe nel far vedere come ha avuto inizio e come si è sviluppato ciò che chiamiamo filosofia. E’ una domanda storica in cui è in gioco il nostro destino. Ancor più: non è una “domanda”, è la domanda storica del nostro esserci europeo occidentale.

Se ci affidiamo al senso globale ed originario della domanda: che cos’è la filosofia, allora il nostro domandare, mediante la sua origine storica, ha trovato una direzione in un futuro storico. Abbiamo trovato un cammino. La domanda stessa è un cammino.

[…]

La filosofia è alla ricerca di ciò che l’essente è in quanto è. La filosofia è un cammino verso l’essere dell’essente, cioè dell’essente rispetto all’essere.

[…]

Ma a ben altro dobbiamo rivolgere ora la nostra attenzione. La proposizione di Aristotele or ora citata [protai arcai cai aitiai: “i principi primi e le cause prime” – chiaramente dell’essente] ci indica la direzione verso cui è in cammino ciò che, da Platone in poi, si chiama “filosofia”. Ci dà un’indicazione su ciò che la filosofia è. La filosofia è una competenza particolare che ci rende capaci di accogliere nello sguardo l’essente ed esattamente in vista di ciò che esso è, in quanto è essente.

[…]

Si può obiettare che l’affermazione di Aristotele su ciò che la filosofia è, non può essere in nessun modo l’unica risposta alla nostra domanda. Nella migliore delle ipotesi, è una risposta tra le altre. Rifacendosi alla definizione aristotelica della filosofia è possibile presentare e interpretare tanto il pensiero che precede Aristotele e Platone quanto la filosofia dei tempi successivi. Tuttavia si potrà facilmente far notare come la filosofia stessa e il modo in cui essa ha rappresentato la propria essenza, abbiano subìto molteplici mutamenti nei due millenni che hanno seguito Aristotele. Chi potrebbe negarlo? Ma non dobbiamo neppure ignorare il fatto che la filosofia, da Aristotele a Nietzsche, proprio sulla base di tali mutamenti e attraverso essi è rimasta la stessa. Infatti i mutamenti sono la garanzia della parentela nel Medesimo.

[…]

Che cosa risulta da quanto si è detto per il nostro tentativo di affrontare in un colloquio la domanda: che cos’è la filosofia? Innanzitutto un primo punto: non possiamo attenerci soltanto alla definizione di Aristotele. Di qui un secondo punto: dobbiamo richiamare alla memoria le definizioni anteriori e posteriori di filosofia. E poi? Poi, mettendole astrattamente a confronto, porremo in evidenza ciò che è comune in ogni definizione. E poi? Poi ne risulterà una vuota formula, buona per ogni sorta di filosofia. E poi? Poi ci ritroveremo il più lontano possibile da una risposta alla nostra domanda. Perché ci si ritrova a questo punto? Perché, procedendo in tal modo, ci siamo limitati a riunire, alla maniera degli storiografi, le definizioni esistenti e a dissolverle in forma generale. Tutto ciò può essere in realtà portato a termine a suon di erudizione e con l’ausilio di prove inappuntabili. Così facendo, non abbiamo affatto bisogno di dedicarci alla filosofia al punto di meditarne l’essenza. Così facendo otteniamo conoscenze varie, approfondite e persino utili, sul modo in cui ci si è rappresentati la filosofia nel corso della sua storia, ma, su questa via, non giungeremo mai a una risposta genuina, cioè legittima, alla domanda: che cos'è la filosofia? La risposta può essere soltanto una risposta che filosofa, una risposta che, in quanto parola-che-fronteggia (la domanda), filosofa in sé. Ma come intendere questa affermazione? Come può una risposta filosofare, e proprio in quanto parola che fronteggia (la domanda)?

[…]

Quando la risposta alla domanda: che cos’è la filosofia? – è una risposta che filosofa? Quando filosofiamo? Evidentemente, dal momento in cui dialoghiamo con i filosofi. Questo implica che discutiamo gli uni con gli altri intorno a ciò che sempre e di nuovo, in quanto è Medesimo, riguarda propriamente i filosofi, è il parlare, […], il parlare come dialogo. […].

Una cosa è fissare e descrivere le opinioni dei filosofi. Ben altra cosa è discutere con loro intorno a ciò che essi dicono e cioè di ciò di cui parlano.

Posto dunque che i filosofi sono interpellati dall’essere dell’essente e chiamati a dire che cosa è l’essente in quanto è, allora anche il nostro colloquio con i filosofi deve essere interpellato dall’essere dell’essente. Noi stessi dobbiamo, mediante il nostro pensare, andare incontro a ciò verso cui la filosofia è in cammino. Il nostro dire deve corrispondere a ciò da cui i filosofi sono interpellati. Quando questa corrispondenza ci riesce, allora rispondiamo in senso genuino alla domanda: che cos’è la filosofia? […]. La risposta alla nostra domanda non si esaurisce in un’asserzione che replica alla domanda constatando e stabilendo a quali rappresentazioni ricorrere per rendere il concetto di “filosofia”. La risposta non è una mera asserzione che replica alla domanda, ma è piuttosto la corrispondenza che corrisponde, fronteggiandola, all’essere dell’essente. Tuttavia vorremmo subito sapere che cosa costituisce l’elemento caratteristico della risposta intesa come corrispondenza. Ma tutto sta nel giungere innanzitutto a un corrispondere, prima di fare una teoria della corrispondenza.

La risposta alla domanda: che cos’è la filosofia? – consiste nel nostro corrispondere a ciò verso cui è in cammino la filosofia. E questo è l’essere dell’essente. In tale corrispondere noi prestiamo ascolto, dall’inizio, a ciò che la filosofia ci ha già detto chiamandoci in causa, […]. Perciò giungiamo alla corrispondenza, cioè alla risposta alla nostra domanda, solo a condizione di prendere dimora nel dialogo con ciò cui la tradizione della filosofia ci consegna, vale a dire rende libero per noi. Troveremo la risposta alla nostra domanda non già ricorrendo ad asserzioni storiografiche sulle definizioni di filosofia, bensì mediante il dialogo con ciò che si è tramandato a noi come essere dell’essente.

Questo cammino in direzione di una risposta alla nostra domanda non è una rottura con la storia, non è una negazione della storia ma, al contrario, un’appropriazione e una trasfigurazione di ciò che ci è stato tramandato.

[…]

Ma nel dire queste cose, un dubbio si affaccia al nostro pensiero. Lo si può formulare in questi termini: dobbiamo innanzitutto noi darci da fare per giungere ad una corrispondenza con l’essere dell’essente? Non siamo noi, gli uomini, già da sempre in una tale corrispondenza e, in verità, non solo di fatto ma a partire dalla nostra essenza? Non costituisce questa corrispondenza il tratto fondamentale della nostra essenza?

In verità, le cose stanno così. Ma se così è, allora non possiamo più affermare di dover innanzitutto giungere a tale corrispondenza. E cionondimeno lo affermiamo a buon diritto. Infatti, benché sempre e ovunque soggiorniamo nella corrispondenza con l’essere dell’essente tuttavia solo di rado prestiamo attenzione all’appello dell’Essere. La corrispondenza con l’essere dell’essente è costantemente la nostra dimora. Tuttavia solo di tanto in tanto essa diviene un comportamento che noi stessi assumiamo facendolo nostro e che quindi diviene suscettibile di ulteriori sviluppi. Solo se questo accade corrispondiamo autenticamente a ciò che riguarda la filosofia, la quale è in cammino verso l’essere dell’essente. La filosofia è il corrispondere all’essere dell’essente ma lo è innanzitutto allorché e solo allorché il corrispondere si realizza espressamente, dispiegandosi e portando a compimento il suo dispiegarsi. Tale corrispondere accade in modi diversi, a seconda che l’appello dell’Essere ci rivolga la parola, a seconda che questa venga udita o resti inascoltata, a seconda che ciò che è stato ascoltato venga detto oppure taciuto. Il nostro colloquio può offrire occasioni per meditare su tutto ciò.

[…]

Il corrispondere assunto in proprio e dispiegantesi, che corrisponde all’appello dell’essere dell’essente, è la filosofia. Solo sperimentando il modo in cui la filosofia è, impariamo a conoscere e a sapere che cos’è la filosofia. Essa è nel modo del corrispondere che si accorda con la voce dell’essere dell’essente.

Questo corrispondere è un parlare. Esso è al servizio del linguaggio. Oggi per noi è ben difficile capire che cosa significa ciò. Infatti il modo in cui abitualmente ci rappresentiamo il linguaggio ha subìto strane metamorfosi. In virtù di queste metamorfosi il linguaggio appare come uno strumento dell’espressione. Conseguentemente si ritiene più giusto dire che il linguaggio è al servizio del pensiero, anziché dire che il pensiero, in quanto corrispondere, è al servizio del linguaggio. Ma, soprattutto, il modo attuale di rappresentare il linguaggio è quanto c’è di più lontano dall’esperienza greca del linguaggio. L’essenza del linguaggio si manifesta ai greci come logos. Ma che cosa significano logos e leghein? Solo oggi, lentamente e a stento, cominciamo a penetrare con lo sguardo, attraverso le più diverse interpretazioni, nell’iniziale essenza greca del logos. Tuttavia né possiamo ritornare ogni volta di nuovo all’essenza greca del linguaggio, né possiamo semplicemente farla nostra. Ma, in compenso, dobbiamo inaugurare un dialogo con l’esperienza greca del linguaggio in quanto logos. Perché? Perché, in assenza di un’adeguata meditazione sul linguaggio, non sapremo mai veramente che cos’è la filosofia come il corrispondere che abbiamo precedentemente caratterizzato, che cos’è la filosofia come modo privilegiato del dire originario.

Ora, poiché la poesia, se la confrontiamo col pensiero, è al servizio del linguaggio in un modo totalmente diverso ma altrettanto privilegiato, il nostro colloquio che riflette sulla filosofia è necessariamente portato a cercare il luogo del rapporto che intercorre tra pensiero e poesia. Fra l’uno e l’altra regna una parentela nascosta poiché entrambi si dedicano al servizio del linguaggio per il linguaggio e si prodigano per esso. Ma fra l’uno e l’altra sussiste pur sempre un abisso, poiché «abitano sui monti più separati».

Si potrebbe ora esigere, a buon diritto, che il nostro colloquio si limiti al problema della filosofia. Una simile restrizione sarebbe unicamente possibile, e persino necessaria, se dovesse emergere nel colloquio che la filosofia è altra cosa da come l’abbiamo presentata finora: un corrispondere che porta al linguaggio l’appello dell’essere dell’essente.

In altri termini il nostro colloquio non si propone il compito di realizzare un programma stabilito. Esso vorrebbe darsi cura di preparare tutti coloro che vi partecipano a un raccoglimento meditativo nel quale possiamo venir interpellati da ciò che chiamiamo l’essere dell’essente.»

        Martin Heidegger, Che cos’è la filosofia?, Il Melangolo, 1997. 

 

 

 

 

 

 

PRIMO CAPITOLO

 

 

 

Filosofia: cos’è?

 

 

Ogni manuale di storia della filosofia che si rispetti, dà inizio alla sua ricerca con una traduzione dal greco all’italiano del termine «filosofia», proseguendo col significato etimologico della parola e poi, dopo poche righe del primo paragrafo, ricco di riferimenti storici e sociali, circa la nascita e lo sviluppo della filosofia nella polis greca, ecco comparire all’improvviso Talete e, via via, cronologicamente, tutti i filosofi più noti della «Storia della Filosofia».

Eppure, se chiediamo ad un liceale: “Cos’è la filosofia?”, rimarrà senza parole, senza idee manualistiche a cui aggrapparsi; solo nominando un “noto filosofo”, Talete Platone Kant Hegel, riuscirà a fare un lungo sproloquio, omettendo, caso mai solo per rispetto, di elencare le virgole, i punti e virgola e tutta la punteggiatura del testo riportata nel capitolo del filosofo su cui è stato interrogato.

Oramai, sta lentamente morendo la cultura del pensiero!

Lo studio della filosofia, nella maggior parte delle scuole (superiori, università), è solo uno studio catatonico suddiviso per settori: c’è il settore delle date cronologiche, ove è presente la data di nascita e quella della morte; ad esso si collega il settore del nome del filosofo e, in ultimo, c’è il settore del concetto principale da esso enunciato. E’ talmente settoriale oggi lo studio della filosofia che gli studenti sono abituati ad associare il principio di identità ad Aristotele, ma se un docente gliene parla fuori dal contesto aristotelico, perché ne mette in luce il significato logico generale, i ragazzi cascano dalle nuvole. Presentando la filosofia prevalentemente tramite gli autori, cioè abituando gli studenti a pensare la filosofia identificandola con Platone, Descartes, Parmenide, etc., lo studente è spinto, magari inconsapevolmente, ad identificare la natura concettuale di una tesi con la sua genesi e la sua paternità, cosa tutt’altro che ovvia; quando invece, nella vita di tutti i giorni, si imbatte costantemente in un interrogativo etico, in un problema gnoseologico, in un quesito di filosofia politica e così via, ma, troppo spesso, non è assolutamente in grado di metterlo a fuoco anche e soprattutto perché le sue conoscenze di filosofia sono tutte racchiuse nelle cartelle dei filosofi e non nelle cartelle dei problemi; ma nella vita, si dà il caso, non si imbatto nei filosofi bensì nei problemi. Bisognerebbe quindi addestrare gli studenti a fare esempi tratti dall’esperienza ordinaria, quando devono illustrare cosa significa, supponiamo, concepire le scelte morali in termini kantiani o epicurei. Attraverso simili esercizi comincerebbero a comprendere come le ricerche filosofiche riguardano la loro esistenza, individuale e sociale, e non esclusivamente le elucubrazioni astratte dei filosofi antichi.

L’insegnamento della filosofia dovrebbe piuttosto trasmettere quell’atteggiamento lucido e disincantato in grado di mettere in guardia da un uso distorto del ragionare che abbia come obiettivo finale la dissoluzione della coerenza del pensare. Con qualunque metodologia la si insegni – storica o teoretica o, meglio ancora, l’una e l’altra insieme – la filosofia non dovrebbe smarrire alcuni dei suoi principali obiettivi: innanzitutto il riconoscimento della funzione primaria della razionalità; poi una conoscenza adeguata del modello antropologico classico e rinascimentale, a partire dal quale ricostruire un uomo universale nella cui attività riescano a fondersi immaginazione, competenza e rigore; infine una prassi che superi la netta distinzione fra gratuità della fantasia e asservimento dell’agire agli scopi.

A questo punto, però, rimane sempre e comunque un quesito in sospeso: cos’è la filosofia e, soprattutto, perché essa, a differenza di tutte le altre materie, fa sorgere, nel cuore dello studioso e ricercatore, il bisogno di domandarsi “Cos’è?” e la necessità di dare una risposta a questa domanda?

Nessuno mai, infatti, si è posto il problema di “Cos’è la letteratura?”, “Cos’è la fisica?”, e “Cos’è la matematica?”; il primo giorno di scuola si spiega agli studenti cosa queste materie studiano, qual è il campo da esse preso in considerazione, ma non cosa esse siano e quel è la loro essenza. Per la filosofia, invece, la questione è diversa: ogni studioso, o studente che sia, ha sempre sentito dentro di sé che la filosofia è una materia particolare, diversa dalle altre.

Si dice che “la filosofia apre la mente”, ma perché le altre materie non hanno questa facoltà?

Si tratta di uno scambio: è un problema che riguarda il Dare e il Ricevere.

Le singole materie, la letteratura, la matematica, ecc., hanno il compito di trasmettere nozioni, dal testo al cervello umano; la filosofia, invece, prima ancora di trasmettere nozioni, vuole far nascere emozioni, dalle parole al cuore, e svegliare così la curiosità di sapere, dalla vita, piena di filosofia e di segnali che ci rimandano alle sue nozioni, all’anima umana che si alimenta solo col desiderio di conoscenza e la sensazione di non sentirsi mai sazia, mai appagata, ma sempre alla ricerca di qualcosa in più da sapere, da conoscere e farlo proprio.

Non a caso, ritornando al discorso etimologico (giusto se fatto adesso ma errato se svolto all’inizio del testo), il termine «filosofia» significa «Amore per la Sapienza» e il suo compito è proprio quello di sviluppare, in ogni essere umano, l’amore per il sapere e il desiderio di sapere sempre di più, senza alcuna sosta, pausa o alcun tipo di ostacolo di percorso. Ma questo si raggiunge solo mediante un’attività dell’anima secondo ragione. Attività che comporta un movimento sussultorio delle nostre membra, l’agitarsi del nostro spirito ed un’eterna sete di sapere.

La filosofia, dunque, è una materia nobile, ma che appartiene a tutti; la letteratura, la matematica, la fisica, ecc., al contrario, sono materie quotidiane che appartengono ai pochi che sono in grado di afferrare con la mente certe nozioni mnemoniche.

Anche per Platone la filosofia non è una scienza come le altre, essa è misteriosa e un po’ magica, la sua acquisizione è quanto mai incerta e a volte affidata al caso, all’incontro, alla «vita vissuta in comune», tra amici, e, infine, all’imprevedibile accendersi di un «fuoco» nell’anima. Così si esprime nella VII Lettera: “Non è questa mia una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende dal fuoco che balza: nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento, e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di sé medesima”.

Soffermandoci sull’espressione «essa non si può in alcun modo comunicare», possiamo ben vedere che ancora oggi, dopo circa 2400 anni, la situazione non sembra molto cambiata: «Non si sa ancora con certezza se davvero sia possibile comunicare o insegnare la filosofia entro le normali forme della didattica e della comunicazione; non si sa se esista o meno un misterioso “incontro” che garantisca l’acquisizione di una competenza filosofica, e se tutto dipenda o no da una certa “fiamma” che si accende all’improvviso nell’anima. Né si sa ancora con certezza cosa sia o debba essere “la filosofia”, se abbia ancora un senso usare questo termine, se la cosa da esso designata in qualche modo e senso tuttora esista. E – posto che queste domande abbiano avuto esito positivo – non si sa se la filosofia debba essere collocata tra le discipline umanistiche o tra quelle scientifiche, o in una terra di nessuno specificatamente filosofica. Né si sa se abbia davvero senso parlare di filosofia “applicata”, o se sia utile una specie di vaga e preliminare preparazione filosofica nella pratica di ogni sapere»[1].

Sembra che improvvisamente non si sappia nulla su questo termine; infatti, «il discorso comune ne parla, incessantemente, con i significati più disparati: dal filosofo che sta con la testa tra le nuvole sino all’idea, completamente opposta, che chi prende la vita con filosofia si adatta (o magari si rassegna) alle cose spiacevoli che gli accadono perché avrebbe capito (facendo dunque un’operazione razionale senz’altro non da acchiappanuvole) che esse sono al di fuori della sua possibilità di cambiarle»[2].

La filosofia ci lascia senza parole e, nello stesso tempo, ci lascia liberi di esprimere infinite interpretazioni su di essa, sul suo significato come sul suo utilizzo. Essa, al contrario delle altre materie, è priva di vincoli, non è legata ad un unico argomento, ma è in grado di toccarli tutti (quello medico, politico, umanistico, scientifico, artistico, matematico, ecc.). Essa fa parte della vita e la vita è piena di segnali filosofici. La filosofia è insita nello spirito umano fin dall’inizio dei tempi, e la sua scoperta, per ogni singolo individuo, non è altro che un discorso socratico: un eterno domandarsi il “Perché?” di tutto ciò che ci circonda e di ciascun evento tocca la nostra esistenza; è un’infinita ricerca delle risposte e delle verità che sono in noi.

Il filo conduttore che attraversa e lega tutta la storia della filosofia riguarda proprio il bisogno, anzi la necessità, di interrogarsi. E l’uomo, come essere pensante (cogito), è l’origine e lo scopo ultimo del domandare. Egli si interroga intorno a se stesso e la filosofia è quel metodo razionale con cui egli cerca delle risposte.

Tutto questo “domandarsi e rispondersi” è fonte di emozioni che sussultano nel nostro essere, emozioni che ci conducono alla meravigliosa sensazione della razionale curiosità in grado di stupirsi di fronte all’eterno divenire e ci permettono di cogliere l’essere sempre unico e soggettivo nella sua esistenza. Curiosità infinita per un sapere infinito, perché senza la conoscenza l’uomo non è nulla. La conoscenza ci rende liberi. Conoscenza infinita, conoscenza enciclopedica. Desiderio infinito di sapere.

Questa è la filosofia!

In breve, tutti i filosofi, dalle origini agli ultimi tempi, considerano la filosofia come un tentativo di dar senso a tutte le cose, e quindi come il tentativo di misurarsi con l’intero.

«La totalità delle cose e tutto il reale non significano l’insieme di tutte le singole cose e realtà particolari, nel senso che l’intero non è mera somma di parti. [La parola] intero non implica un approccio quantitativo alla realtà, bensì una particolare ottica che ha uno specifico carattere qualitativo, ossia una peculiare angolazione mediante la quale si cerca di vedere tutte le cose in funzione di un principio o di principi primi da cui derivano, e quindi in senso globale che ne fa appunto un insieme significativo»[3].

La domanda sul significato della vita, variante esistenziale della domanda sul tutto, non è banale; anzi, essa caratterizza l’essere umano, al punto che nulla di ciò che l’uomo ha fatto di più nobile nella storia è comprensibile al di fuori di quella domanda. La filosofia, in fondo, è un entrare in contatto con la domanda sul tutto che si ha in sé. Essa è, infatti, un sapere integrale il cui primo scopo sta nel chiarire agli uomini il significato stesso della loro esistenza, nell’aprirli a una verità che non è mai separata dalla percezione del corpo e dalla riflessione della mente. L’orizzonte della verità, in altri termini, che costituisce la meta all’interno del tutto, è il senso che essa assume per l’essere umano.

Il filosofo fa filosofia solo se sa guardare il tutto, l’intero dell’essere, per tendere alla contemplazione della verità da raggiungere come fine ultimo, e non per fini pratici e pragmatici. Guardare l’intero, pensare l’intero, favorisce l’acquisizione di una duttilità mentale tipica di chi sa ripensare la parte, perché mosso da un’ipotesi di significato sull’intero, e sa reinterrogarsi sull’intero, perché abituato a non accontentarsi delle spiegazioni già conosciute. Non si tratta solo di criticità, ma di un amore per il vero, che la filosofia insegna a vivere con consapevolezza.

Questo “intero” non è altro che un tendersi nell’eternità del tempo attraverso il confronto con il vecchio e il nuovo, l’antico e il moderno, il passato e il futuro. La filosofia non è altro che un proiettarsi in avanti come indietro, al fine di essere presente in ogni tempo. Il tempo della filosofia, infatti, è il presente eterno del dialogo fra gli uomini. Un dialogo nato in un tempo senza tempo, perché non ha data, in quanto è nato con l’uomo; un dialogo che comprende, oltre alla voce umana, anche l’armoniosa poesia della Natura; e che, ancora oggi, vive nel mondo.

Ancora una volta, parliamo del dialogo socratico: un dialogo che non ha alcuna pretesa di pronunciare sentenze eterne, universali o assolute come dogmi, ma, piuttosto, verità soggettive, e per questo uniche, faticosamente partorite da quella piccola “materia grigia” presente nella mente umana, e chiamata razionalità. Questo è un dialogo svolto fra dialoganti sordi e ciechi: non vedono il colore della pelle, non odono ideologie di partito o religiose; essi non sono rivali, ma amici; perché la razionalità non combatte le differenze, ma si nutre di esse.

«L’elogio della differenza si chiama infatti modernità»[4], così ha scritto Flores D’Arcais in un suo testo del 1992, intendendo il termine «differenza» come valore: differenza delle comunità, dei popoli, delle culture, delle loro radici religiose: identità radicate, anziché differenze radicali.

La tutela della differenza equivale ad accettare il singolo quale che sia: elogiare il diritto dell’individuo alla libera scelta della sua differenza, premiare quella differenza omologante della comunità ed accogliere le infinite radici delle culture altre.

«L’uomo – ha scritto il filosofo Pietro Pini – va verso la verità con tutto il proprio essere, e dunque con tutte le differenze che ne fanno un essere determinato reale»[5].

Il dialogo non trasmette un sapere già preconfezionato, una informazione, ma l’interlocutore conquista il proprio sapere con uno sforzo personale, lo scopre per conto proprio, pensa per conto proprio.

Non si tratta, dunque, di una lotta tra due individui, nel corso della quale il più abile potrà imporre il suo punto di vista, ma piuttosto di uno sforzo condotto insieme da due (o più) interlocutori che vogliono giungere ad un accordo tramite le esigenze razionali del discorso sensato, del logos. Grazie a questo accordo tra interlocutori, non sarà uno degli interlocutori ad imporre la sua tesi all’altro; al contrario, il dialogo insegna loro a mettersi uno al posto dell’altro superando i propri punti di vista. Con il loro sforzo sincero, gli interlocutori scoprono, grazie a se stessi e in se stessi, una verità indipendente da se stessi: il logos. Questo logos, non rappresenta una sorta di sapere assoluto; di fatto si tratta di un’intesa che si stabilisce tra gli interlocutori e li conduce ad ammettere, di comune accordo, alcune tesi, superando i propri punti di vista individuali; insomma, questo logos è il discorso, uno scambio di idee, che implica un’esigenza di razionalità e di universalità. 

La filosofia, dunque, è quella linfa che permette al nostro intelletto di trasmettere più vitalità al cuore: infatti il nesso, il legame che deve esistere affinché la filosofia si faccia vita e la vita sia la fonte della filosofia è un legame che tiene uniti, sullo stesso livello, la nostra mente ed il nostro cuore, la razionalità e le emozioni. Perché in fondo, questa unione, quando esiste, è l’unica davvero in grado di coinvolgere tutto il nostro essere e di far crescere nello stesso tempo la nostra “materia grigia” e le nostre esperienze di vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDO CAPITOLO

 

 

 

Il compito della filosofia

 

 

L’incessante studio del ricercatore diventa, a questo punto, interessante e problematico: egli si trova, non tanto dinanzi a un bivio che richiede una scelta istintiva, quanto dinanzi a un’ennesima domanda, che non richiede una risposta casuale, ma, piuttosto, pretende un’intuizione razionalmente ponderata, ponderata e riflettuta in ogni sua parte e soprattutto rispetto alle conseguenze che ne determinano nel nostro percorso di pensiero.

Una volta compreso che l’essenza delle filosofia è un’emozione in grado di agitare fino all’euforia le nostre membra e che il sapere, anzi, il desiderio infinito di conoscenza, è l’unica fonte della nostra esistenza; dopo aver razionalmente intuito questa passione, allora, e solo allora, è possibile, per me, continuare a scrivere, per voi, continuare a leggere, e per tutti, continuare a pensare.

Quando si pronuncia la parola «Filosofia», spesso nella mente si crea uno scompiglio tale per cui questa disciplina non trova collocazione, vaga come impazzita senza trovare sosta, un posto suo, o, peggio, il suo compito rispetto alle altre. Poiché tutte le discipline sono fonte di conoscenza e generano vitalità e passione nell’intelletto umano; allora, che differenza c’è (se c’è!) tra la filosofia e le altre discipline?

Abbiamo sentito “sentenziare”, più di una volta, che “le altre discipline” prendono in considerazione un solo aspetto della scienza infinita, e per questo vengono catalogate come discipline in grado di trasmettere soltanto un sapere Individuale; la filosofia, invece, è l’unica disciplina in grado di trasmettere una conoscenza assoluta ed enciclopedica, cioè Universale. Eppure nessuno di questi termini (Individuale – Universale) ci rimanda ad alcun sussulto dell’anima né sembrano generare sete di sapere; anzi, sono così aride e prive di senso che troppo spesso la spengono.

La filosofia, infatti, “diluita” nelle varie discipline corre spesso il rischio di ridursi a una serie di nozioni, che possono forse avere un certo interesse storico, ma debbono semplicemente essere apprese e ricordate, senza essere capite. Una “diluizione” della materia impedirebbe di usare i testi, di proporre attività di rielaborazione concettuale, cioè di fare didattica della filosofia ed esperienza filosofica, riducendo i contenuti eventualmente recuperati a una mera trasmissione di nozioni.

Il compito della filosofia va invece ricercato in quell’euforia che essa stessa genera. Esso consiste soprattutto nell’educare al pensare, al “pensare in proprio”, all’esercizio di una riflessione consapevole e possibilmente critica, che sola può consentire a chi vi ci si dedica di raggiungere una piena dignità personale, al fine di non subire passivamente comportamenti, mode o stati di soggezione culturali, indipendentemente dalle proprie o altrui opinioni. Esso, insieme al desiderio incessante di conoscere, si rivela come generatore di pensiero proprio, un camminare con le proprie gambe: ci troviamo qui dinanzi alla trasformazione del pensiero in potenza che si fa atto, che non usa parole altrui, ma che in ogni sua parola è unico e irripetibile, e che, autoaffermandosi, lentamente impara ad essere un tutt’uno con la vita.

Educazione alla ricerca, dunque, come educazione alla maturazione autonoma delle idee, alla libertà creativa, alla comprensione del passato e del nostro tempo.

In questo senso, la filosofia ci rende capaci di filosofare, perché essa, a differenza di ogni altra materia, è l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti. Ma il concetto non è dato o già fatto, non sta ad aspettarci come fosse un corpo celeste. Non c’è un cielo per i concetti: il concetto è da creare. Ciò vuol dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, poiché i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare concetti. Le scienze, le arti, sono ugualmente creatrici, ma solo alla filosofia spetta il compito di creare concetti in senso stretto. Il concetto della filosofia non è formato, esso pone se stesso in se stesso, è autoposizione. Quanto più il concetto è creato, tanto più esso si pone, indipendentemente e necessariamente: il più soggettivo sarà il più oggettivo.

Nietzsche ha determinato così il compito della filosofia: “I filosofi non devono limitarsi a ricevere i concetti, a purificarli e a rischiararli, ma devono cominciare col farli, col crearli, col porli, e cercare di inculcarli”. Secondo la sentenza nietzschiana, non conosceremo niente attraverso i concetti se non li avremo prima creati, cioè costruiti con un’intuizione che è nostra, partorita da noi. Soltanto così ogni creazione sarà davvero singolare, perché il concetto, come creazione puramente filosofica, è sempre una singolarità.

Dunque, creare concetti sempre nuovi è il compito della filosofia.

Il concetto, quindi, non è già fatto e, per quanto creato, ha sempre bisogno di una base che dia valore alla sua espressione e che riveli il senso di ciò che si vuole studiare. Esso ha bisogno di un problema, il che significa delimitare un campo, ritagliare spazi all’interno della gerarchia dei saperi, saper definire che cosa nel problema propriamente fa problema.

“Si tratta, per parlare con le immagini, di scalare una montagna. L’impresa riesce se noi, anziché restare nella pianura del modo corrente di pensare per tenere dei discorsi sulla montagna, cominciamo subito la salita verso la vetta con lo scopo di farne «esperienza diretta»”. (Heidegger): l’ascesa a quella montagna, che è il problema che ci sta di fronte, implica un’esperienza che ci muta e insieme a noi muterà il problema. Ecco dunque che problematizzare è innanzitutto un atto profondamente etico. Si tratta infatti di problemi non solo teoretici (i cosiddetti “eterni problemi”), ma anche politici ed etici (i problemi della bioetica, del modello di sviluppo, della pace e della guerra, ecc.), che si presentano nella dimensione individuale, collettiva e planetaria: sono temi etici importantissimi e fecondi, di estrema rilevanza, sia all’interno della vita individuale quanto per una pacifica convivenza tra la collettività.

Nessun concetto dunque esiste senza un problema, ma, allo stesso tempo, nessun problema può essere analizzato e risolto senza la presenza di un Io pensante. Di una mente, cioè, in grado di creare la storia del suo concetto e dunque in grado di dargli la vita, in quanto gli trasmette il divenire dell’esistenza infinita.

Quest’Io pensante è il filosofo, l’unico in grado di cogliere la molteplicità come unicità, insieme di parti che formano un tutto mai completamente definito, sempre in trasformazione, in movimento. E solo il filosofo può creare concetti. La filosofia, nella sua essenza, si rivolge anche ai non-filosofi; ma il filosofo è l’unico che ha davvero il carisma, la passione, l’enfasi per comprendere la filosofia, per filosofare e soprattutto per creare concetti. Ed in questo creare egli non genera stereotipi universali, come dogmi infallibili a cui si rinviano verità intoccabili; il concetto non deve essere inteso come la creazione di una generalità o di una particolarità, ma piuttosto come una pura e semplice singolarità che si autoafferma senza pretese, ma con la sola richiesta di vivere; perché, in quanto creato, vuol dire che è stato pensato.

L’opera del filosofo si rivela dunque coma la creazione di sensazionali novità, in grado di sfidare (e vincere) ogni opinione, ogni luogo comune. La sensazione che egli crea è l’eccitazione stessa, in grado di conservarsi perché conserva le sue vibrazioni. Le stesse vibrazioni che hanno distrutto il mausoleo delle opinioni e sono state in grado di illuminare, anche solo per un istante, il caos della mondanità.

Al momento della creazione, il filosofo ha inoltre bisogno, oltre alla sua mente raziocinante, di un problema, astratto o reale, in cui creare concetti o rimaneggiare e sostituire quelli esistenti, ma, in entrambi i casi (creazione del nuovo o sostituzione del vecchio), egli deve essere in grado di creare ponti che lo colleghino ad altri problemi che, a loro volta, lo conducono alla creazione di sempre nuovi concetti, fino ad avere davanti a sé una rete concettuale fatta di ponti-incroci che si accavallano, si legano, si intersecano, e creano i loro contorni.

Sembra un recinto definito dai suoi componenti. Una storia con un inizio e una fine. Quasi lo si può definire un tutto, ma rimane sempre un tutto frammentario, perché ogni concetto rinvia ad altri concetti, non soltanto nella sua storia ma anche nel suo divenire o nelle sue connessioni presenti. I concetti vanno dunque all’infinito.

La filosofia si presenta quindi come un costruttivismo che ha due aspetti complementari: creare dei concetti e tracciare un piano.

Gelles Deleuze e Félix Guattari hanno definito così questi due aspetti:

«I concetti sono l’arcipelago o l’ossatura, una colonna vertebrale piuttosto che un cranio, mentre il piano è la respirazione che bagna queste isole. I concetti sono superfici o volumi assoluti, difformi e frammentari, mentre il piano è l’assoluto illimitato, informe, né superficie né volume ma sempre frattale. I concetti sono concatenamenti concreti in quanto configurazioni di una macchina, ma il piano è la macchina astratta i cui pezzi sono i concatenamenti. I concetti sono eventi, ma il piano è l’orizzonte degli eventi, il serbatoio o la riserva degli eventi puramente concettuali: non è l’orizzonte relativo che funziona come limite, cambia a seconda dell’osservatore e ingloba stati di cose osservabili, bensì l’orizzonte assoluto, indipendente da ogni osservatore, e tale da rendere l’evento come concetto indipendente da uno stato di cose visibili in cui si effettuerebbe. I concetti lastricano, occupano, o popolano il piano, pezzo per pezzo, mentre il piano è a sua volta l’ambito indivisibile in cui i concetti si distribuiscono senza romperne l’integrità, la continuità: essi occupano senza contare (la cifra del concetto non è un numero) oppure si distribuiscono senza dividere. Il piano è come un deserto che i concetti popolano senza dividere. I concetti sono le sole regioni del piano, ma fuori del piano non ci sono concetti. Le sole regioni del piano sono le tribù che lo popolano e lo percorrono. Il piano assicura il raccordo dei concetti con delle connessioni in perenne aumento e i concetti assicurano il popolamento del piano su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile.

Il piano di immanenza non è un metodo; non è neanche un insieme di conoscenze sul cervello e sul suo funzionamento; e non si tratta neanche dell’opinione che si ha del pensiero, delle sue forme, dei suoi scopi o dei suoi mezzi in questo o in quel momento. Il piano di immanenza non può neanche essere un concetto, in quanto non è pensato né pensabile; esso è l’immagine del pensiero.

L’immagine del pensiero implica ciò che il pensiero può rivendicare di diritto: ciò che il pensiero rivendica di diritto è il movimento che può andare all’infinito, movimento infinito o movimento dell’infinito. Movimento che non rinvia a coordinate spazio-temporali. Orientarsi nel pensiero non implica un punto di riferimento o un obiettivo. In movimento è l’orizzonte stesso. Il movimento infinito è definito da una andata e ritorno, perché esso non va verso una destinazione senza fare già ritorno su se stesso, essendo contemporaneamente l’ago e il polo. Si tratta di una reversibilità, di uno scambio immediato, perpetuo, istantaneo, un lampo. Il movimento istantaneo è doppio, tra l’uno e l’altro non c’è una piega. In questo senso si dice che pensare ed essere sono una sola e stessa cosa. Anzi, il movimento non è immagine del pensiero senza essere anche materia dell’essere»[6].

In filosofia, tra il “creare concetti” e il “tracciare un piano” non c’è un prima e un dopo: «il concetto è l’inizio della filosofia, ma il piano ne è l’instaurazione. La filosofia è al tempo stesso creazione di concetti e instaurazione del piano»[7]. Insieme, concetti e piano, sono, per la filosofia, strumenti che gli permettono di acquisire una consistenza effettuale.

A questo punto, ad una mente poco esperta potrebbe sembrare che gli elementi del piano siano semplici definizioni nominali in rapporto ai concetti; invece lo scopo del concetto, e, attraverso una visione più ampia, lo scopo della filosofia, è quello di trovare la sua attualizzazione nell’essere. Essa, ed in essa il concetto posto su un piano infinito, ricercano incessantemente di acquisire il connotato di tratto intensivo.

Si tratta della capacità di costruire superfici con contorni irregolari, frammentari, ove ogni singolo elemento è in grado di proliferare sempre nuovi concetti, estesi su un orizzonte infinito, e di renderli attivi.

E’ il termine «infinito» che più di tutti determina l’essenza della filosofia, dei concetti, come della vita stessa. E nello stesso tempo spiega l’incapacità di ogni tentativo di determinare l’essenza di ciò a cui esso è qualità.

Per Anassimandro l’«infinito», l’àpeiron, è principio, fondamento e termine di tutte le cose; per i cristiani «infinito» è Dio e la sua bontà; per Giordano Bruno e Niccolò Copernico «infinito» è l’universo che comprende una molteplicità inesauribile di cose e di mondi; infine, per Cartesio non è possibile pensare l’«infinito» come un’idea, bensì solo come negazione del finito, in quanto l’«infinito» (ciò che non ha limiti nello spazio e nel tempo) precede la percezione del finito e costituisce un argomento per dimostrare l’esistenza di Dio: “perché vedo con chiarezza che si trova maggior realtà nella sostanza infinita che in quella finita e che pertanto in me, prima di tutto, c’è in qualche modo la nozione dell’infinito anziché quella del finito, ossia quella di Dio prima di quella di me stesso” (Cartesio, Meditazioni metafisiche).

Al contrario per i metafisici l’infinito è l’assenza di compiutezza: «per Aristotele l’infinito non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un tutto; esso è parte, cioè incompiutezza e inesauribilità. […] Per Platone l’infinito è ciò che è privo di numero o di misura, che è suscettibile del più e del meno e perciò esclude l’ordine e la determinazione»[8].

Vastità infinita priva di contorni o assenza di compiutezza: l’infinito delinea comunque e sempre un’entità che si trova ai margini del mondo, solo perché è in grado di esprimere concetti che lo comprendino, non tanto nelle parole o nelle nude azioni, ma nella consistenza del suo essere. In quanto è stato creato, egli si pone in se stesso e negli altri, non reclama relatività o assolutezza, bensì essenza. Non importa se vive in un mondo ideale o reale, reale ma non attuale, ideale senza essere astratto; ciò che importa è la sua capacità di esistere come centro di vibrazione, sia al proprio interno che in rapporto ad altri, così da distruggere e creare contemporaneamente, dando senso all’eterno divenire della storia.

In sintesi il piano, i concetti, i loro ponti-incroci che li collegano a nuovi problemi fino a creare una struttura stratificata, multiforme, e la rete concettuale che ne evidenzia i contorni, non sono altro che gli elementi del nostro pensiero. Non si può dunque intendere un filosofo come colui che ha sostituito il “piano di immanenza” del suo predecessore allestendo una nuova immagine del pensiero. Né è possibile immaginarlo come colui che ha cambiato ciò che significa pensare. «In compenso, non sono filosofi quei funzionari che non solo non rinnovano l’immagine del pensiero ma non hanno neanche coscienza di questo problema, beati all’interno di un pensiero bell’è pronto e ignari persino del travaglio di coloro che pretendono di prendere a modello»[9].

Questa ambiguità tra colui che crea e che si sente il ristrutturatore e “salvatore” del pensiero, si spiega nel fatto che tutti noi siamo in realtà gli elementi del piano. E questo piano altri non è che la razionalità, ove ogni pedone è unico nella sua storia e dove, a sua volta, la trama della sua esistenza è capace di generare sempre nuovi problemi espressi concettualmente.

«La filosofia [infatti] è divenire, non storia; è coesistenza di piani, non successione di sistemi»[10].

Così ogni filosofo è come il tassello di un puzzle: egli è necessario quanto gli altri; serve in quanto è se stesso e serve per creare diramazioni e ponti mobili che lo colleghino ad infiniti altri elementi.

Tuttavia, il puzzle (per fortuna!) non sarà mai completo, è in continua evoluzione e trasformazione. Non diverrà mai una “bella foto” da incorniciare e apprendere al muro come un quadro, in balia del tempo e della polvere; piuttosto è esistenza che si fa attuale e, nello stesso tempo, si tramuta in viva attualità quando è alimentata dal pensiero. Perché nell’enunciazione filosofica non si fa qualcosa dicendolo, bensì pensandolo. «Pensare consiste nel tendere un piano di immanenza capace di assorbire la terra»[11].

Affinché il pensiero si faccia essere c’è bisogno però che esista un rapporto: il puro pensiero pensa l’oggetto come pura astrazione, vuota universalità; esso pensa, ma non pensa l’essere. Il Pensiero-Essere, invece, instaura al suo interno, e rispetto al mondo esterno, un rapporto col soggetto come universalità concreta e, nello stesso tempo, come individualità universale. Il filosofo, per farsi essere, abita una struttura dell’Essere ed in questo modo la filosofia si confonde necessariamente con la propria storia.

Solo così il pensiero, col suo creare concetti e generare, incessantemente, nell’animo umano la necessità continua di allargare i propri orizzonti, dunque, soltanto il Pensiero-Essere, in cui la razionalità vive e partecipa della vita, rende il Soggetto-Uomo davvero immortale, come Io-Pensante che vive nel passato, nel presente e nel futuro, quindi al di fuori del tempo perché infinitamente esistente nel tempo stesso, eternamente immortale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TERZO CAPITOLO

 

 

 

Il discorso filosofico e l’esistenza filosofica

 

 

Il discorso è comunemente inteso come un’operazione seriale di affermazioni che si susseguono fra loro; è un concatenamento intellettuale di enunciati in cui ognuno trae il proprio valore dal precedente e ne costituisce la conclusione, in modo tale da cogliere la realtà.

L’uso comune che se ne fa è soprattutto quello di uno strumento a fiato: costituisce il suono della mente, le corde vocali dei nostri pensieri; e, a sua volta, spesso contro la volontà decisionale del soggetto, esprime il suo stesso stato d’animo: collera, rabbia, tristezza, o gioia, infatti, vengono espressi dalla tonalità e dagli intervalli del suono della voce, accompagnati dalle espressioni del viso, dal gesticolare o restare impassibile di fronte alle emozioni che il soggetto stesso esprime.

Dunque, il discorso è costituito da parole che si susseguono una dopo l’altra, con un ordine seriale o, a volte, anche casuale; si accavallano come una pila di mattoni e danno origine a infinite costruzioni: case, castelli, torri, produzioni artistiche o di semplice arredo urbano, perché in fondo, si tratta sempre di colloquiali pettegolezzi o altezzose conferenze in smoking.

Il discorso può avere infinite connotazioni e qualità; ma al termine «discorso filosofico», che dà in parte il titolo a questo capitolo, non attribuisco assolutamente il senso di un modo di parlare che rivela un atteggiamento, bensì il senso filosofico di un «pensiero discorsivo» espresso in un linguaggio scritto o orale. Non si tratta degli antichi dibattiti pubblici nel corso dei quali i sofisti rivaleggiavano per mostrare il loro talento, contrapponendo l’uno all’altro le rispettive argomentazioni riguardo a tematiche che non erano legate a un problema specifico, giuridico o politico che fosse, ma alla cultura in generale.

Intendo piuttosto parlare di un modo di essere, perché tale è la filosofia: un modo di vivere strettamente connesso al discorso filosofico. La conoscenza, infatti, non è solo, come si pensava un tempo, un fatto mentale: è molto di più. Essa consiste nell’assunzione di uno stile, di un modo di essere che coinvolge l’individuo anche nell’agire. Il possesso del lessico e delle strutture logiche non basta: è necessario saper creare una prassi che trovi negli elementi filosofici le regole di base, ma che poi si serva di una sintassi operativa che consenta al singolo di formulare e ripensare in proprio i problemi della filosofia. Affinché il grande imperativo, che chiunque si avvicina alla filosofia “impone” a se stesso, diventi: fare filosofia.

Questo vuol dire che non si possono considerare i discorsi filosofici come realtà che esisterebbero in sé e per sé e studiarne quindi la struttura indipendentemente dal filosofo che li ha elaborati. Sarebbe come scindere la testa da un corpo, o valorizzare il prodotto di un falegname senza dar credito al suo costruttore, o, ancora, sarebbe come innamorarsi di parole senza conoscerne la fonte, quando invece, è proprio la storia del soggetto e l’ambiente che lo ha circondato, a permettergli di pronunciarle.

Per comprendere infatti un’opera filosofica bisogna tener conto delle condizioni particolari della vita filosofica in quel periodo, scoprirvi l’intenzione profonda del filosofo, che è quella non già di sviluppare un discorso fine a se stesso, ma di agire sulle anime. Qualsiasi asserzione deve essere intesa in base all’effetto che mira a produrre nell’anima dell’uditorio o del lettore.

Si tratta, sempre e soprattutto, come vedremo meglio in seguito, non di comunicare un sapere già pronto, ma di «formare», cioè di insegnare un saper fare, una capacità nuova di giudicare e di criticare, e di trasformare; ossia, come ciò che è scritto scaturisce da una scelta di vita, così lo scopo di chi pensa ed espone il proprio pensiero attraverso le parole, su carta o a voce, è di cambiare il modo di vivere e di vedere il mondo di chi ascolta o legge.

Il discorso filosofico ha dunque origine da una scelta di vita e da un’opzione esistenziale, e non viceversa. La scelta di un modo di vivere non si colloca mai alla fine di un processo di attività filosofica, come una sorta di appendice accessoria, ma, al contrario, si colloca proprio all’origine di tale processo, all’interno di una complessa interazione tra la visione globale di un certo modo di vivere e di vedere il mondo, e la decisione volontaria di per sé.

Questa decisione e questa scelta poi non avvengono mai in solitudine: filosofia o filosofi non si trovano mai se non all’interno di un gruppo, di una comunità, di una «scuola» filosofica che corrisponde, prima di tutto, alla scelta di un certo modo di vivere, a una certa scelta di vita, a una certa opzione esistenziale che esige dall’individuo un totale cambiamento di vita, una conversione di tutto l’essere; insomma un certo desiderio di essere e di vivere in un certo modo.

Tutto questo perché non c’è vero sapere che nel dialogo vivente.

Si tratta di una vera e propria esistenza filosofica, all’interno della quale si instaura una comunione nella vita e nel dialogo tra maestri e discepoli. Parliamo di un’esistenza completamente disinteressata, al di fuori della politica partitica, del tutto aliena alla pratica religiosa e ignara degli esperimenti tecnologici del progresso. Contemporaneamente, però, l’esistenza filosofica è un’elevazione del pensiero: un dialogare ininterrotto su ogni genere di argomento, senza schierarsi da una parte o dall’altra, senza riserve su chi è vicino, perché l’importante è solo e unicamente il pensiero. Il pensiero inteso come attività razionale che lavora senza pausa e che, se stimolato da altri pensieri, è in grado di crescere all’infinito. Il pensiero non è il nostro cervello, né può essere visto come un semplice contenitore senza fondo; il pensiero, in grado di creare concetti, di inventare e produrre, di dialogare, di difendere le proprie idee e viverle nella quotidianità dell’esistenza, questo pensiero è la nostra anima, quel soffio vitale che determina la vita e che non muore con la fine del corpo.

L’esistenza filosofica è dunque un’esistenza totalmente dedicata allo studio e alle pratiche spirituali, alla meditazione e alla riflessione, all’interno di una cerchia di amici, come una comunità ove tutto è condiviso. Esistenza in cui alcuni possono, caso mai, trovarsi in disaccordo su determinati punti della dottrina, ma, ciò non toglie che tutti, a livelli diversi, si trovano d’accordo sulla scelta di un modo di vivere. E’ il genere di vita praticato dagli interlocutori, che consiste nell’aderire all’etica del dialogo, nella misura in cui, nell’atto di dialogare, essi fanno l’esperienza del logos, che li trascende. In una simile prospettiva, l’oggetto della discussione e il contenuto dottrinale assumono un’importanza secondaria. Ciò che conta è la pratica del dialogo insieme alla trasformazione che comporta. Perché, citando Hadot, «vivere in modo filosofico significa volgersi alla vita intellettuale e spirituale, realizzare una conversione che mette in gioco «tutta l’anima», ovvero tutta la vita morale»[12].

Questa esistenza, dunque, corrisponde a un genere di vita interamente consacrato alle attività dello spirito: essa non viene sottomessa alle intermittenze dell’azione, non produce fatica; essa apporta piaceri meravigliosi, stabili e solidi, che non si mescolano al dolore e alle impurità. Essa assicura l’indipendenza intellettuale nei confronti degli altri, nella misura in cui ci si sia assicurati, innanzitutto, l’indipendenza nei confronti delle cose materiali.

La filosofia è, dunque, contemporaneamente e indissolubilmente discorso e modo di vivere. Non si dovrebbero infatti contrapporre queste due entità come se corrispondessero rispettivamente alla pratica e alla teoria. Il discorso può avere un aspetto pratico, nella misura in cui tende a produrre un effetto su colui che ascolta o che legge. Quanto al modo di vivere, esso potrà essere non già teorico, evidentemente, bensì teoretico, ossia contemplativo.

Quando gli antichi (Platone, Aristotele) tenevano un corso, non si trattava di un “corso” nel senso moderno del termine: non si trattava di «informare», di travasare nello spirito di coloro che ascoltavano un certo contenuto teorico, ma piuttosto di «formare» e di sviluppare una ricerca in comune: questa è la vita teoretica.

Non si è infatti filosofi in funzione dell’originalità o dell’abbondanza del discorso filosofico creato o sviluppato, ma in funzione del modo in cui si vive. E il discorso è filosofico solo se si trasforma in modo di vita. Insomma, non esiste discorso che meriti di essere chiamato filosofico se è separato dalla vita filosofica, e non esiste vita filosofica se non è strettamente legata al discorso filosofico.

E’ infatti la scelta di vita del filosofo che ne determina il discorso; e non viceversa.

In altre parole, l’esistenza filosofica non può fare a meno del discorso filosofico, a condizione che questo discorso sia ispirato e animato da essa. 

Il discorso filosofico teoretico nasce da un’opzione esistenziale e ad essa ritorna, nella misura in cui incita a vivere realmente in conformità alla scelta iniziale, ovvero si costituisce come appendice effettiva di un certo ideale di vita.

Il termine «teoretico» indica da una parte il modo di conoscenza che ha come scopo il sapere per il sapere, e non un fine esterno a se stesso; e, dall’altra parte, il modo di vita che consiste nel consacrare la vita in questo modo di conoscenza. In altre parole, «teoretico» può essere applicato solo ad un’esistenza filosofica, cioè ad una filosofia praticata, vissuta, attiva, portatrice di felicità.

Dunque, possiamo ben dire che la filosofia teoretica, ovvero lo stretto legame che, nel filosofo, deve esistere tra discorso filosofico ed esistenza filosofica, ha innanzitutto una connotazione etica: consiste nel non scegliere altro fine che la conoscenza, a volere la conoscenza di per se stessa, senza perseguire altro interesse particolare ed egoistico che risulterebbe estraneo alla conoscenza. Si tratta di un’etica del disinteressamento e dell’obiettività.

Il discorso filosofico teoretico, dunque, è parte integrante dell’esistenza filosofica in tre diversi modi: il discorso determina la scelta di vita giustificandola teoreticamente e la scelta di vita determina il discorso; inoltre, il discorso filosofico, se è veramente espressione di una scelta esistenziale, è, in questa prospettiva, un mezzo indispensabile e necessario per esercitare un’azione su se stessi e sugli altri; infine, il discorso filosofico è una delle forme stesse di esercizio del modo di vita filosofico, sotto forma di dialogo con un altro o con se stessi. 

La connessione che c’è tra discorso filosofico e scelta di vita è paragonabile a una malattia inguaribile: si tratta, in un certo senso, della perdita di senno, la pazzia, l’unica “scelta di vita” che ci rende liberi e che fa dell’individuo ciò che realmente è, un essere razionale alla ricerca della verità in grado di costituire un’unità tra la sua mente e le sue mani, il dire e il fare, il pensare e l’essere.

Il discorso filosofico, se è espressione di una scelta esistenziale di colui che lo detiene, costituisce un mezzo grazie al quale il filosofo può agire su se stesso e sugli altri poiché ha sempre, direttamente o indirettamente, una funzione formativa, educativa, terapeutica. Esso è sempre destinato a produrre un effetto, a provocare, nell’anima, una trasformazione dell’io. Da questo punto di vista, lo si può definire come una pratica destinata ad operare un cambiamento radicale dell’essere.

A questo proposito, è opportuno ricordare due grandi esempi che hanno davvero incarnato, nelle parole e nella pratica quotidiana del loro vivere, l’unione e la coerenza del discorso filosofico e dell’esistenza filosofica: parliamo di Socrate e Cristo.

Se Socrate non fosse stato un vero filosofo di sicuro avrebbe accettato il consiglio di evasione del suo amico Critone dimostrando, al contrario di quanto aveva sempre detto, che la legge a volte può essere ingiusta e che l’importante è vivere, salvarsi la pelle, e non vivere coerentemente ad una scelta di vita, ad una scelta che parte dall’anima. Allo stesso modo, Cristo avrebbe potuto evitare la croce, il tradimento di Giuda ed il sentirsi rinnegato da Pietro. Ma anche lui ha voluto portare avanti il disegno della sua vita fino in fondo, perché anche il suo disegno, come quello di Socrate, era stato scritto con inchiostro magico, inchiostro contenente un modo di essere, una scelta, ma, soprattutto, un senso, in grado di valorizzare sempre, ed in qualunque situazione, se stessi e il mondo.

Aveva ragione Kierkegard[13] quando affermava che i grandi maestri della comunicazione sono Socrate e Cristo: «il merito infinito di Socrate è precisamente di essere stato un pensatore esistente, non uno speculante che dimentica ciò che è l’esistere», mentre in Cristo egli ha trovato la Verità stessa che si fa esistenza, mostrando quel paradosso che costituisce l’essenza del cristianesimo.

Mi trovo d’accordo con Kierkegard quando fa della comunicazione d’esistenza lo scopo fondamentale della sua filosofia, o meglio, della sua vita: non si tratta di trasmettere una dottrina compiuta ma di realizzare una comunicazione d’esistenza, che ha di mira l’attivazione, nell’interlocutore, di una trasformazione, di un poter fare.

Per realizzare questa trasformazione Kierkegard utilizza mezzi e strumenti ancora tutt’oggi validi. Infatti, per attuare una comunicazione d’esistenza in un tempo, egli dice, che ha dimenticato che cos’è esistere e che cosa significhi l’interiorità, non si può usare la forma diretta, occorre servirsi della forma indiretta, bisogna cioè utilizzare il metodo dell’educatore, il quale – come concordava anche Nietzsche – non dice mai quello che pensa lui stesso, ma sempre e solo quello che pensa su una cosa in rapporto all’utilità di colui che egli educa. Occorre ridurre l’estensione (il caos) a favore dell’intensità della comunicazione: lo scrivere è e deve essere un’azione e perciò un esistere personale, non astratto, che si rivolge non a un pubblico, ma al singolo, da esistente a esistente . Non si rivolge alla massa, bensì ad ogni singola soggettività che, tutta insieme, forma il pubblico. Solo così la comunicazione d’esistenza si rivela come un processo di ricerca della verità ed in grado di risvegliare l’attenzione di chi ascolta.

Solo la comunicazione autentica rende liberi, tanto chi parla, perché fa delle sue parole la sua stessa vita, quanto chi ascolta, perché si innesta in lui un processo a catena di trasformazione che lo rende, a sua volta, capace di esprimersi fattivamente; e non all’interno di quattro mura, ma, bensì, nell’infinito spazio del mondo, ove, se attua una scelta esistenziale, se vivrà del suo «discorso filosofico», diverrà anch’egli immortale.

 

 

 

 

 

 

 

 

QUARTO CAPITOLO

 

 

 

La Sophia e la persona di Socrate

 

 

«Il mio mestiere – recitava l’epitaffio di Trasimco – è la sophia»[14].

Per gli antichi la parola sophia significa in primo luogo un saper fare, indica l’abilità con la quale ci si sa comportare con gli altri, è simbolo di attività, esprime la capacità di pratiche sottomesse a misure e regole, che presuppongono l’esistenza di un insegnamento e di un apprendimento.

E’ una specie di téchne, un insieme di regole dettate dall’esperienza e dallo studio atte a guidare ogni attività umana. Si tratta, in sostanza, di una ricerca infinita, volta all’acquisizione di un’ampia esperienza della realtà e degli uomini, al fine di scoprire costumi diversi e menti sconosciute.

Per i contemporanei la parola sophia indica la più alta conoscenza delle cose più eccellenti: costituisce il grado di conoscenza più alto, cioè più certo e più completo ed ha per oggetto le cose più sublimi, cioè le cose divine.

Socrate, nella sua epoca, ma, allo stesso tempo, anche nella concezione moderna del termine sophia, rivoluziona completamente il concetto di sapere.

Il sapere non è un insieme di proposizioni e di formule che si possono scrivere, comunicare o vendere già confezionate; non è un oggetto fabbricato, un contenuto finito, direttamente trasmissibile con la scrittura o con un qualsiasi discorso. Non è un libro di testo e neanche bastano una serie di date e nozioni a costruire il sapere. Esso, come il concetto, non è già fatto: è da creare, da inventare dal nulla; è una passione che parte dall’intimo, un flash che ti esplode dentro e che ha sempre infinito bisogno di nuove emozioni, nuove scosse d’energia per restare in vita.

Socrate dunque rifiuta completamente l’idea tradizionale di sapere.

Egli rifiuta di essere considerato un maestro e, coerentemente a questo rifiuto, rifiuta di insegnare, perché non ha niente da dire, niente da comunicare, per la buona e semplice ragione che, come spesso dichiara, non sa nulla. Non avendo nulla da dire, non avendo alcuna tesi da difendere, Socrate non può che interrogare, rifiutandosi nel contempo di rispondere alle domande.

Il suo metodo non consiste affatto nel trasmettere un sapere, nel dare risposte certe ai suoi interlocutori; bensì, il suo messaggio è quello di una condotta razionale della vita umana.

Egli, come abbiamo detto, non sa niente e non insegna niente, e, cosciente del suo non sapere non parla mai in prima persona, fa piuttosto parlare gli altri, e con questo suo atteggiamento finge di voler imparare qualcosa dal proprio interlocutore, al fine, non solo di condurre quest’ultimo a scoprire di non sapere nulla sull’argomento riguardo al quale pretende di essere sapiente, ma altresì, con le sue domande a ripetizione, esplica la sua missione di rendere consapevoli gli altri di essere in grado di generare la loro verità. Socrate esplica l’attività di ostetrico delle menti: egli non genera nulla, giacché non sa nulla; ma il suo compito è aiutare gli altri a generare se stessi. Gli altri, dice Socrate, devono pensare da soli e soltanto così possono scoprire da soli la verità che hanno in loro.

Una simile immagine rivela chiaramente che la conoscenza si trova nell’anima stessa e che soltanto l’individuo può scoprirla, ma non è un accessorio in più nascosto nel buio che dobbiamo trovare, come se ci trovassimo in una caccia al tesoro, è piuttosto l’anima stessa, è un pezzo da incastro del nostro DNA, e soltanto noi possiamo decidere se utilizzarlo come cintura che ci cinge la vita o come un inutilizzabile anello che serve semplicemente a tenere unita una catena.

Tutto questo ci rinvia a ciò che Platone chiama reminiscenza, una visione che l’anima ha acquisito in un’esistenza anteriore. Ma in realtà, la verità di cui parla Socrate, non è un ricordo di qualcosa già fatto o già vissuto, è piuttosto un generare dal nuovo.

Questo è il significato della maieutica socratica. Socrate dà inizio ad ogni discorso inducendo l’interlocutore a riconoscere la contraddittorietà della sua posizione iniziale e da qui tutto procede, poco a poco, fino al punto, assolutamente fondamentale, costituito dal percorso compiuto congiuntamente da Socrate e dal suo interlocutore. Di fatto, mentre Socrate sembra identificarsi con il suo interlocutore, fingendo di voler apprendere qualcosa da lui, e attuando così il suo ironico sminuirsi, in realtà è l’interlocutore a penetrare incosciamente all’interno del discorso di Socrate, a identificarsi con lui, vale a dire, non dimentichiamocelo, con il suo non sapere nulla e, soprattutto, con il suo essere cosciente della propria ignoranza. Al termine della discussione, l’interlocutore non ha dunque imparato nulla, anzi, addirittura non sa più nulla. Ma durante l’intero svolgimento della discussione egli ha sperimentato l’attività dello spirito, ossia, attraverso il suo interlocutore, ha abbattuto il suo falso sapere ed è riuscito a prendere le distanze da se stesso, cioè a porsi in discussione e a prendere coscienza del suo non sapere e della necessità di una trasformazione, trasformazione da attuare tanto nella vita quanto nella mente.

Il sapere, quindi, è un’operazione razionale che si acquisisce attraverso il valore delle nostre infinite esperienze interiori e si concretizza con una scelta che ci coinvolge in modo totale.

La filosofia infatti, proprio come Socrate che «non sa niente», non ha verità da offrire: al massimo, per qualcuno, certezze, ma più spesso semplicemente prospettive più o meno convincenti o stimolanti sul mondo e sulla vita. Essa, similmente alla persona di Socrate, appunto, dona a chi gli si avvicina strumenti per contribuire, insieme al resto dell’esistenza, a formare teste in grado di pensare e di cercare la propria verità, con l’obbligo morale di argomentarla in modo da rendere pubbliche, e discutibili da parte di chiunque, le proprie convinzioni.

Nel dialogo socratico la vera posta in gioco non è quello di cui si parla, le domande di Socrate infatti non conducono mai il suo interlocutore a sapere qualcosa di nuovo o a pervenire a delle conclusioni riguardo a questo o a quell’argomento, né Socrate espone mai una sua teoria sull’argomento trattato; ciò che è davvero importante, invece, è colui che parla: l’interlocutore, dopo aver scoperto la futilità del proprio sapere, scoprirà al tempo stesso la propria verità, ossia, che passando dal “sapere materiale”, visto come un mnemonico elenco di nozioni, all’esame analitico di se stessi, del proprio Io, delle scelte effettuate nella propria vita e dei valori che le hanno accompagnate, allora egli, e chiunque lo ascolta (o legge) in quel momento, comincerà davvero, per la prima volta, a mettersi in discussione e a dubitare di sé.

La missione di Socrate, quella che in realtà dovrebbe essere la missione del filosofo, di ieri e di domani, non è tanto (o non solo) quella di mettere in forse il sapere apparente che crediamo di possedere, ma è soprattutto di mettere in questione noi stessi e i valori che reggono la nostra vita, allo scopo di scatenare il turbamento nell’animo dell’interlocutore o del lettore inducendolo a una presa di coscienza che può giungere fino alla conversione filosofica.

Socrate infatti è sì un appassionato della parola e del dialogo, ma, mosso da altrettanta passione, egli vuole altresì mostrare i limiti del linguaggio; poiché niente è davvero definibile, in quanto qualsiasi parola è banale, ma tutto risulta veramente dimostrabile solo con la vita.

Ancora una volta, dunque, il sapere non è un insieme di proposizioni, una teoria astratta fatta di paroloni e lunghi sproloqui; il sapere è la consapevolezza di essere in grado di fare una scelta, di prendere un’iniziativa drastica e improvvisa che coinvolge tutto il nostro essere e che ci conduce ad una meta irraggiungibile, in quanto la trasformazione di se stessi non è mai definitiva ed esige una riconquista perenne.

Socrate, dunque, non ha alcun sistema da insegnare. La sua filosofia è nel complesso un esercizio spirituale: esprime un nuovo modo di vita, una riflessione attiva, capace di attuare una coscienza vivente.

Kierkegard si rifà apertamente a Socrate in quanto aderisce a quel paradosso intellettuale in base al quale la sua coscienza individuale si sveglia con un sentimento di imperfezione e di incompiutezza, ma, nello stesso tempo, è l’unica che lo conduce veramente nel porto della consapevolezza: Kierkegard afferma che essere cristiano significa avere un vero rapporto personale ed esistenziale con il Cristo, significa essersi appropriati appieno di questo rapporto, averlo interiorizzato con una decisione che emana dalla profondità dell’io; ma egli è intimamente convinto di non essere cristiano, poiché solo il Cristo è cristiano, ma, quanto meno, afferma Kierkegard, colui che ha coscienza di non essere cristiano è il miglior cristiano, nella misura in cui riconosce di non essere cristiano.

La coscienza di Kierkegard, come ogni coscienza esistenziale, è dunque divisa. E questa coscienza è la stessa coscienza socratica: divisa e lacerata, tormentata dal dubbio, sempre alla ricerca di ciò che non ha, ed al contempo consapevole di ciò che è proprio nella misura in cui si sente consapevole di ciò che non è.

Così come, infatti, Kierkegard non è cristiano se non in virtù della coscienza di non essere cristiano, Socrate non è saggio se non per la coscienza di non esserlo.

Solo da questo sentimento di privazione scaturisce un desiderio smisurato che si divide come una biforcazione per ritrovarsi al punto di partenza, ovvero nell’io. Da una parte, infatti, abbiamo il desiderio smisurato di conoscere, di apprendere dagli altri, siano essi persone, vecchie opere o libri di testo, o anche dalla natura stessa. Dall’altra, il desiderio smisurato di ricercare dentro noi stessi, per giungere a scovare la tana della verità e riuscire a partorirla, contemporaneamente, nell’intelletto, nelle parole e nei fatti.

Il ruolo del filosofo è dunque quello di rendere capace l’altro che non esiste sapere se non nella scoperta personale che proviene dentro se stessi, è la scoperta di una coscienza che ci rende capaci di scegliere, dinanzi a un bivio, se andare a destra o a sinistra; di essere in grado di dare una spiegazione più che motivata della nostra scelta a chi ce lo domanda; e soprattutto di credere fermamente in noi, nella nostra scelta e nei valori che ci hanno aiutato a compierla. In seguito, ci rende capaci di camminare, di rendere atto ciò che prima era solo verbo, ma non per eseguire automaticamente i nostri pensieri, bensì per attuare consapevolmente le nostre idee in coerenza a ciò che la bocca dice, la mente pensa e l’anima crede, e che ci rende singolari.

Il sapere, infine, inteso come anelito mai completamente appagato e come passione che ci regala sempre la vitalità per continuare la nostra ricerca, ci permette di costruire il nostro destino, perché il suo scopo non è quello di mettere in evidenza l’Individualità del soggetto isolato all’interno della massa, né di mettere in evidenza l’Universalità di concetti preconfezionati, ma, bensì, quello di rivelare la Singolarità dell’essere che ci rende unici e irripetibili, rari e indimenticabili.

La filosofia, quindi, è, essenzialmente, uno sforzo, uno sforzo finalizzato a prendere coscienza di noi stessi, del nostro essere-al-mondo, del nostro essere-insieme-all’altro, uno sforzo, innanzitutto, per raggiungere una visione universale, grazie alla quale saremo capaci di metterci al posto degli altri superando la nostra parzialità.

A questo punto tutto ci rinvia a ciò che dicevamo all’inizio di questo capitolo, «Per gli antichi la parola sophia significa in primo luogo un saper fare»: per gli antichi come per i moderni, per il filosofo di ieri e ancora di più per il filosofo di domani, la sophia deve essere intesa non tanto come un sapere puramente teorico, ma decisamente come un saper-fare, ovvero come un saper-vivere.

Dei saggi di ieri, infatti, rimangono tracce di sophia nel modo di vivere, e non nel sapere teorico; perché non è il vivere a scaturire da quest’ultimo, ma ci troviamo di fronte a un vero sapere solo quando è questo a sgorgare dalla vita vissuta, e non viceversa. Ed ancora di più, gli intellettuali di oggi lasceranno tracce ai posteri della loro sophia, soltanto se la loro esistenza sarà come il passaggio di un aeroplano, in grado di lasciare una scia indelebile nel cuore di chi gli è accanto.

La filosofia, dunque, non è sophia, ma è un modo di vivere; non è un vuoto parlare, ma è un discorso determinato dall’attività dell’esistenza umana; essa “non è una dottrina, ma un’attività” (Wittgenstein), un’attività dell’anima.

Per Socrate, la filosofia è allo stesso tempo «ironica e tragica. Ironica, perché il vero filosofo è colui che sa di non sapere, che sa di non essere saggio e che dunque non è né saggio né non saggio, che non si sente al suo posto né nel mondo degli stolti, né nel mondo dei saggi, né totalmente nel mondo degli uomini, né totalmente in quello degli dei, che è dunque un non catalogabile, un senza fissa dimora, […]. Tragica, perché quest’essere bizzarro è torturato, straziato dal desiderio di raggiungere la saggezza che gli sfugge e che ama»[15]. 

Il filosofo è perdutamente invaso di Eros-Sophia, di amore per il sapere, è un innamorato che si alimenta del suo stesso amore, dal quale però non si sente mai totalmente appagato, da lui riceve, ogni volta che gli si avvicina, infinite sensazioni che lo conducono a chiedergli sempre più. A sua volta il suo amato dona incessantemente il suo essere, ma mai nella sua integrità, e questo porta l’innamorato a corrergli dietro, a sentirsi tormentato dalla passione che gli arde dentro senza trovare pace, senza riuscire mai a raggiungerlo.

L’incontro con il sapere è sempre una “toccata e fuga” che, dal primo momento, dà inizio alla sua corsa, ove l’innamorato non riuscirà mai ad abbracciare totalmente l’amato e, al tempo stesso, l’amato rincorrerà sempre l’innamorato per donarsi a lui e regalargli quelle scosse di vitalità e saggezza che danno senso alla sua corsa e costringono la sua volontà a correre ancora, senza sosta, verso l’amato e verso ciò che lo tiene in vita, il desiderio incessante di sapere, l’unica cosa che ci rende capaci di vivere lasciando vivide scie indelebili, perché ci infonde il desiderio di renderci immortali producendo.

Nel Simposio, stravolgendo la forma del dialogo, Platone ci spiega l’identità che c’è tra l’amore e la filosofia, sottolineando quanto l’atto di tendere verso la filosofia è determinato dalla spinta dell’eros, e che entrambi sono l’espressione dell’insufficienza: l’amore infatti non ha la bellezza ma la desidera, allo stesso modo il filosofo anela alla sapienza senza possederla.

In questo dialogo egli immagina che i commensali, ospiti nella casa del giovane poeta di successo Agatone, svolgano a turno un elogio dell’amore e che Socrate, invece di proporre un suo discorso, preferisca riferire le parole udite da Diotima, una sacerdotessa straniera dotata di straordinari poteri, che racconta così il mito sulla nascita di Eros:

«Quando nacque Afrodite, gli dèi banchettarono, e fra gli altri c’era Poros [Espediente], figlio di Metis. Dopo che ebbero pranzato, venne Penia [Povertà] a mendicare, poiché c’era stato un gran banchetto, e se ne stava vicino alla porta. Successe che Poros, ubriaco di nettare, dato che il vino non c’era ancora, entrato nei giardini di Zeus, appesantito com’era, si addormentò. Penia, allora, per la mancanza in cui si trovava di tutto ciò che ha Poros, escogitando di avere un figlio da Poros, giacque con lui e concepì Eros.

Per questo, Eros divenne seguace e ministro di Afrodite, perché fu generato durante le feste natalizie di lei; ad un tempo è per natura amante di bellezza, perché anche Afrodite è bella.

In quanto Eros è figlio di Penia e di Poros, gli è toccato un destino di questo tipo.

In primo luogo, è povero sempre, ed è tutt’altro bello e delicato, come credono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperta, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada, perché ha la natura della madre, sempre accompagnato con la povertà.

Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di temperanza, pieno di risorse, ricercatore di sapienza per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista.

E per sua natura non è né mortale né immortale, ma, in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive quando riesce nei suoi espedienti, talora invece muore, ma poi torna in vita, a causa della natura del padre.

E ciò che si procura gli sfugge rapidamente di mano, sicché Eros non è mai né povero né ricco.»[16]

Eros, dunque, non è identificabile con un dio immortale e meno che mai con qualcosa di puramente mortale e sensibile; in questo senso Eros è un intermediario-mediatore tra Dio e l’uomo. Come mediatore tra due realtà opera un complemento della realtà nel suo insieme in modo che il tutto sia ben collegato con se medesimo. Come intermediario egli unisce in sé, sintetizzandoli, caratteri contrari: privazione e acquisizione, bisogno e capacità di procacciarsi, povertà e ricchezza.

Perciò Eros è come il filo-sofo, intermediario-mediatore fra ignoranza e sapienza; mai del tutto ignorante e mai del tutto sapiente, ma sempre in cerca di ulteriore acquisizione di sapienza e di maggior ricchezza di sapere.

Questo mito ci permette di trovare un punto di connessione fra il mondo delle passioni e dei desideri e quello del pensiero: per cui l’amore come desiderio di un bel corpo non è negato, ma è considerato come prima tappa di un viaggio che conduce alla conoscenza-rivelazione del bello in sé.

L’eros viene descritto come una peculiare forma di delirio, una mania: «la mania per la quale qualcuno, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera, mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in volo, ma non riuscendovi, guarda verso l’alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l’accusa di essere pazzo»[17].

Il pensiero è alato e alato è il desiderio d’amore.

In questo contesto, la filosofia coinvolge l’esistenza umana nella sua interezza: essa non è solo una questione di “testa”, ma anche di “cuore”. Cambia la vita dell’uomo, lo allontana dalle faccende divine, lo rapisce nella contemplazione dell’assoluto. Qui vi è la passione d’amore, ma il suo vero oggetto non è la persona amata, ma l’essere in sé, che sta ben oltre il mondo sensibile ma che non appartiene neanche completamente al mondo divino. La ragione e il desiderio d’amore si scambiano l’un l’altro, fino a diventare un tutt’uno, fino a non distinguersi più singolarmente, ma a fondersi; al punto tale che la passione si trasforma in comunicazione erotica, in uno specchiarsi degli amanti l’uno nell’altro, è un circolo amoroso: amore che guarda amore, amore che penetra amore, il filosofo che anela alla filosofia, la filosofia che si incarna nel filosofo; e così l’eros diviene filosofo e, nello stesso tempo, l’eros diviene filosofia. E’ contemporaneamente colui che ama e l’oggetto amato; ed in entrambe le personificazioni si trova sempre a metà strada, non raggiunge mai l’arrivo, ma sempre desidera, come amante, e sempre si dona, come amato, con eterna passione.

In questa prospettiva la filosofia è un’esperienza d’amore alimentata dall’elemento irrazionale della passione, che costituisce la forza motrice indispensabile affinché quest’esperienza divenga giornalmente la pratica di un modo di vivere, e il filosofo, di ogni tempo, è un uomo che non appartiene del tutto al mondo ma che non è nemmeno completamente fuori dal mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUINTO CAPITOLO

 

 

 

Il logos e il cristianesimo

 

 

Il cristianesimo, inteso in questa sede non in quanto «fatto religioso» (cioè verità rivelata direttamente da Dio e messaggio di salvezza eterna), ma come un «fatto storico-filosofico», ha prodotto, fin dall’inizio del suo sorgere e diffondersi, una visione del mondo accolta da milioni di uomini nel corso dei secoli, ma è stato anche – come ideologia e come organizzazione – causa ed effetto ad un tempo di grandi trasformazioni sociali, politiche e istituzionali.

I seguaci della nuova religione si trovarono ben presto impegnanti in una continua opera non solo di difesa del “messaggio”, ma anche di elaborazione concettuale e dottrinale, via via che il cristianesimo, diffondendosi al di là dei confini ristretti delle origini, veniva a contatto con forme di cultura e strati sociali diversi, più evoluti e raffinati.

Tutto ciò pose molteplici e vari problemi, ma in primo luogo costrinse a chiarire l’atteggiamento del cristianesimo di fronte al mondo profano: è un mondo da respingere in blocco, da far crollare dalle fondamenta con tutti i suoi errori, le sue vanità e i suoi peccati? Oppure è un mondo da recuperare, da conquistare dall’interno e da modificare per quanto ha di riprovevole, ma insieme da conservare, nella misura in cui può arricchire di vari beni anche la vita del cristiano? E come fissare questa misura? E la sapienza profana è una sapienza anticristiana, demoniaca; oppure è solo una sapienza a metà, da completare e trasfigurare con la nuova fede?

E’ da queste tensioni e dalla difficoltà tutt’oggi esistente di trovare una risposta a queste domande che, un secolo dopo la morte di Cristo, alcuni cristiani hanno presentato il cristianesimo, non soltanto come una filosofia, ma addirittura come la filosofia, la filosofia eterna.

Questa trasformazione del cristianesimo in filosofia avviene principalmente in forza dell’ambiguità di cui è portatrice la parola logos: il cristianesimo è la rivelazione completa del logos; e il logos è la vera filosofia che ci insegna a comportarci in modo da somigliare a Dio e ad accettare il disegno divino come principio che orienta tutta la nostra esistenza.

Ed è proprio grazie all’ambiguità di questa parola che è stato possibile una “filosofia cristiana”. Basta ricordare il famoso prologo del Vangelo di Giovanni, in cui il logos è la parola creatrice ma anche rivelatrice di Dio:

«In principio era il Verbo,

e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio.

Egli era in principio presso Dio:

tutto è stato fatto per mezzo di lui,

e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;

[…]

E il Verbo si fece carne

E venne ad abitare in mezzo a noi.»[18]

L’interesse dell’evangelista Giovanni è soprattutto quello di evidenziare la figura di Gesù Cristo sottolineandone l’incarnazione: egli, a differenza degli altri tre evangelisti che hanno invece riportato in modo particolare la divinità del Cristo, il suo essere Figlio di Dio morto per noi; egli, al contrario, ha voluto mostrare, al lettore e al credente, la trasfigurazione del Verbo fattosi carne, di come il divino si sia calato nella realtà umana; e attraverso questa trasfigurazione egli vuole evidenziare la coerenza che intercorre nella vita del Cristo la quale, come una linea retta, passa perpendicolarmente dalle sue parole alle sue azioni; fino alla morte.

Analizzando il prologo del suo Vangelo, poco fa citato, notiamo che inizialmente, attraverso i termini «In principio», egli riprende letteralmente l’inizio della Bibbia greca collegando così la venuta di Gesù con i primi capitoli della Genesi, al fine di creare un’identità temporale tra “l’inizio del cielo e della terra”, cioè il punto di partenza dello spazio e del tempo, e la presenza del logos, intesa come duratura permanenza nel tempo eterno.

Il verbo utilizzato per dire «era», infatti, è en, il tempo imperfetto del verbo essere che in greco indica permanenza, durata: ciò indica che quando è stato creato il mondo, quando per la prima volta ci fu l’inizio del mondo sensibile, il logos era già presente, già essente. Si afferma l’anteriorità del logos alla creazione.

Proseguendo, notiamo come all’inizio del primo versetto una sola parola, «In principio», è servita all’evangelista Giovanni per unire due spazi temporali: quello dell’Antico Testamento e quello del Nuovo Testamento, quello del Dio creatore nel tempo e nello spazio e quello del Dio eterno; allo stesso modo, alla fine dello stesso versetto, egli utilizza la parola «Verbo», logos, per unire due differenti interpretazioni che appartengono a due diversi mondi, il mondo greco e il mondo ebraico, al fine di trasformali in un tutt’uno, e rivelare così l’unità tra la divinità e l’umanità che si incarna nella figura del Cristo.   

Nel mondo greco, il concetto di logos era centrale nella filosofia, e fin dai tempi di Eraclito acquista, allo stesso modo, il significato di «parola», «discorso» e «ragione». Gli stoici, in particolare, ritenevano che il logos, concepito come forza razionale, fosse immanente al mondo, alla natura umana e ad ogni individuo. Questo termine, quindi, aveva contemporaneamente il significato di «parola», «pensiero» e “principio generale” che regola l’universo, “anima che rende vivo il tutto”. Grazie al logos l’universo è come un grande organismo; e nell’uomo si manifesta come “ragione”. Ecco perché, identificando Gesù come il logos eterno e il Figlio di Dio, il Vangelo secondo Giovanni permette di presentare il cristianesimo come una filosofia. La Parola sostanziale di Dio viene concepita come Ragione che ha creato il mondo e guida il pensiero umano. L’annuncio cristiano, la Buona Novella che Gesù, il Cristo, ha portato agli uomini, non è infatti solo una predicazione profetica o precettistica, esso è insieme parola e persona proprio nel senso in cui l’evangelista Giovanni indica Gesù come il Verbo.

Nel mondo ebraico invece il logos è lo strumento con cui Dio agisce nel mondo ed in particolare sul popolo di Israele rendendolo protagonista di quel dialogo che è la storia della salvezza. Il logos, la “parola”, allorché si rivolge al mondo ebraico, Mosè ed i profeti, diventa sapienza elargita, rivelazione, messaggio, comando, legge, ma anche forza ed energia vitale.

La parola logos si adattava dunque sia alla visione greca sia a quella ebraica, andava bene per entrambi i mondi. Traspare allora l’intento ecumenico dell’evangelista: egli, quando utilizza la parola logos, intende riferirsi ad entrambe le interpretazioni, vuol far incontrare due mondi: l’ebraico, dove la parola logos significava “la parola di Dio che si trasmette”, la sapienza elargita da Dio al suo popolo, i comandamenti, la legge; ed il greco, dove logos significava l’ordine del mondo, la mente, il discorso che si è fatto carne.

Vi è poi un’altra considerazione molto importante: nella cultura ebraica di origine semitica il termine logos traduceva il corrispondente ebraico tabar che significa sia “parola” sia “fatto”.

L’identità fra “parola” e “fatto” indica che la “parola” di Dio è anche “fatto”: Dio dice e le cose sono; chiama, e le cose avvengono. E questa identità, per il mondo ebraico-cristiano, si realizza tanto nel bene quanto nel male: una maledizione lanciata, è un male in atto che non si può ritirare.

Qui, la parola di Dio (il logos divino) diventa direttamente forza creatrice e generatrice (“fatto”).

Allora «In principio era il Verbo» per l’ebreo vuol dire “In principio, quando il mondo fu fatto, esisteva già la forza che fa succedere gli eventi”, e per il greco significa “In principio, quando il mondo fu fatto, esisteva la ragione, la legge che dà consistenza e coesione all’universo”. E questa forza, questa ragione, cioè il logos di Giovanni, non è una prerogativa del mondo sensibile, ma è «presso Dio», ossia, pur interessando il mondo sensibile, appartiene alla sfera divina. Infatti, «il Verbo era Dio». Un essere divino che non si è manifestato come puro discorso pronunciato dalla bocca di un profeta; né ha mai pensato di rivelarsi attraverso le parole di un ricco re, con lo scettro, un trono d’oro e un vasto territorio su cui regnare. Piuttosto il Verbo, il logos, inteso come legge in grado di unificare l’umanità, che si esprime attraverso il Cristo nella parola Amore, si è concretizzato nella debole e mortale figura umana: «il Verbo si fece carne», rendendo sensibile e visibile il suo aspetto e dando così voce ai suoni della sua bocca; ma soprattutto, il logos, ovvero il “pensiero” ed il “discorso” della “ragione” divina, si è fatto carne affinché il Verbo diventasse atto, azione, “fatto” nelle gioie e nei dolori della quotidianità.

Una delle caratteristiche del cristianesimo è infatti proprio il rapporto essenziale e costitutivo tra dottrina e vita: il Cristo, inseparabile dal suo annuncio, è il momento culminante della rivelazione di Dio agli uomini. La parola che Dio aveva comunicato al popolo ebraico nell’Antico Testamento si è pienamente svelata con l’incarnazione del Cristo.

Il cristianesimo dunque non è mai una dottrina il cui contenuto possa essere definito in astratto, poiché esso è fondato sull’essere e sull’azione mediatrice del Cristo e richiede una totale compromissione dell’uomo attraverso un atto di fede, che implica sempre un’attività intellettuale.

La rivelazione di Cristo ha una funzione pedagogica e l’ideale di vita che Gesù ha trasmesso con la sua stessa esistenza vale per tutti, indistintamente, perché rappresenta un esempio morale a cui è consentito pervenire attraverso la riflessione personale.

A questo punto, si evince chiaramente che la “filosofia cristiana”, come tutta la filosofia, del resto, si presenta insieme come discorso e come modo di vita. Così come il discorso filosofico costituisce la forma stessa dell’esercizio del modo di vita filosofico, il discorso filosofico cristiano è un mezzo per realizzare il modo di vita cristiano. E se filosofare significa vivere in conformità con la Ragione, i cristiani sono filosofi, perché vivono in conformità al logos divino.

Se infatti alcuni cristiani possono presentare il cristianesimo come una filosofia, la filosofia, non è tanto perché il cristianesimo propone una teologia, ma soprattutto perché il cristianesimo è uno stile di vita e un modo di essere secondo la ragione, vale a dire il logos.

Il cristianesimo, come la professione di filosofo, nasce dall’individuo attraverso la conversione, una scelta di vita che lo costringe a trasformare l’intera sua esistenza nel mondo, e che in un certo senso lo separa dal mondo.

Il modo di vita filosofico, dunque, nella vita attiva, non entra affatto in competizione con la religione; e questo perché in ogni “credo” «è il pathos che condiziona il logos»[19], ed entrambi sono la causa e l’effetto di ciò che dà senso alle nostre azioni.

In questo contesto il pathos non è inteso in senso negativo, come ciò che limita la libertà umana o ne costituisce un’alterazione patologica, ma bensì acquista qui il significato di predicato “verbale” dell’essere correlativo e complementare all’azione.

Esso esprime una passione che sgorga dall’interno, dall’animo, e da qui si fa logos, inteso come manifestazione del pensiero attraverso i suoni articolati di una lingua. L’unione di un sentimento intimo e della parola genera l’azione, che non è altro che l’espressione della volontà intellettuale dell’individuo, cioè il frutto di ciò che la sua mente raziocinante ha seminato.

Ed è proprio quello che ha fatto Cristo: egli è divenuto il Verbo stesso che pronunciava.

Il cristianesimo, per il cristiano, non è pura ideologia, ma è espressione fattuale della Parola di Dio; così come la filosofia, per il filosofo, non è uno “stare sulle nuvole” come pensano in molti, né un blando parlare dinanzi a un pubblico, ma è piuttosto la rivelazione concreta e attiva della nostra mente, è – usando la stessa concezione di Socrate – un aiutare l’anima a partorire la nostra verità la quale, nelle fatiche e nelle gioie dell’azione, si determina come se stessa, come un io singolare, e nello stesso tempo aiuta gli altri ad incamminarsi nel loro stesso percorso di ricerca e trasfigurazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SESTO CAPITOLO

 

 

 

Utilità della filosofia

 

 

La filosofia, come abbiamo ben visto finora, non è una disciplina come le altre: non fa parte dei programmi di tutti i tipi di scuola superiore; è praticamente assente dalla stampa e dalla televisione, almeno da quella alla portata di tutti; e richiede, da chi vi si applica, che ribalti completamente tutte le abitudini scolastiche fino a quel momento interiorizzate.

Per Cartesio la parola «filosofia» significa “studio della saggezza”, e per “saggezza” egli intende non solo la prudenza negli affari, ma una perfetta conoscenza in tutte le cose che l’uomo può sapere, tanto per la condotta nella sua vita, quanto per la conservazione della sua salute e l’invenzione di tutte le arti. Egli, nella lettera all’abate Claudio Picot, Priore del Rouvre, che ha tradotto il suo libro in francese e in latino, e che Cartesio utilizza come Prefazione per il testo, esprime così l’utilità della filosofia:

«Davvero non c’è nessuno oltre a Dio che sia perfettamente saggio, che abbia cioè la completa conoscenza della verità di tutte le cose; ma si può dire che gli uomini hanno più o meno saggezza a seconda che abbiano una maggiore o minore conoscenza delle verità più importanti. E credo che non ci sia niente in questo su cui tutti i dotti non sarebbero d’accordo.

Avrei poi fatto considerare l’utilità di questa filosofia e mostrato che, poiché essa si estende a tutto quello che lo spirito umano può sapere, si deve credere che sia l’unica cosa che distingue noi dai più selvaggi e barbari, e che ogni nazione è tanto più civile e colta quanto meglio vi filosofano gli uomini; e perciò il più grande bene che possa avere uno Stato è avere dei veri filosofi. E inoltre per ciascun uomo in particolare, non solamente è utile vivere con coloro che si applicano a questo studio, ma è incomparabilmente meglio che vi si applichi da se stesso; come, senza dubbio, è molto meglio usare i propri occhi per guidarsi e gioire per loro mezzo della bellezza dei colori e della luce, che non tenerli chiusi e seguire la guida di un altro; ma questo è sempre meglio che tenerli chiusi e non avere che se stessi come guida. Vivere senza filosofare vuol dire proprio aver gli occhi chiusi, senza tentare mai di aprirli; e il piacere di vedere tutte le cose che la nostra vista scopre non è comparabile alla soddisfazione che dà la conoscenza di quelle trovate con la filosofia; e infine questo studio è più necessario per regolare i nostri costumi e la nostra condotta in questa vita, che l’uso dei nostri occhi per guidare i nostri passi. Gli animali bruti, che non hanno che il loro corpo da conservare, sono occupati costantemente a cercare di che nutrirlo; ma gli uomini, la cui parte principale è lo spirito, dovrebbero impiegare le loro principali attenzioni nella ricerca della saggezza, che è il suo vero nutrimento; e io sono sicuro che ce ne sono molti che lo farebbero, se avessero la speranza di riuscirci e se sapessero quanto ne sono capaci»[20].

In filosofia non ci sono verità da imparare a memoria e da ripetere in seguito; si deve ragionare da soli e trovare la propria strada, occorre acquisire un pensiero chiaro e solido, un ragionamento argomentato e coerente.

La filosofia esige da chi vi si addentra che reagisca ai problemi, ai procedimenti, ai testi; essa ha lo scopo di aiutarci a guardare a fondo dentro noi stessi e dentro il mondo in cui viviamo, per comprendere la nostra condizione, per orientare le nostre scelte e le nostre azioni. E’ necessario farne una questione personale, progredire nella qualità del proprio pensiero, sapendo che la filosofia serve prima di tutto nella vita. Ogni lettura filosofica deve diventare alimento indispensabile di un’autentica avventura personale, e per far questo essa ci porta spesso a rimettere in discussione le soluzioni via via date ai problemi fino a quel momento.

La specificità della filosofia consiste nel suo carattere argomentativo, nei diversi stili argomentativi dei diversi filosofi, nella possibilità di fare esperienza, come in un laboratorio, di strategie di pensiero e di procedimenti logici. Bisogna imparare a ragionare in maniera più coerente, più ordinata, più logica. Occorre imparare ad analizzare una domanda, a scoprire come impostarla alla radice, cioè prima di tutto a introdurla, senza affrettarsi a rispondere come se fosse evidente, come se ogni domanda non ammettesse che una sola risposta possibile.

In seguito, bisognerà riuscire a trovare – qualunque sia la propria opinione personale – più modi diversi o persino opposti di rispondere: sarà indispensabile esplorare seriamente le diverse concezioni del problema posto, per confrontarne criticamente i diversi argomenti e, solo alla fine, concludere.

Tutto questo, tradotto dai nostri sensi, significa, in un certo modo, dirigere lo sguardo verso qualcosa, accogliere il qualcosa nello sguardo e mantenerlo bene in vista, poiché è ciò che la filosofia cerca con gli occhi. Ossia, sforzarsi di essere più coscienti per essere più liberi, scegliere una cognizione di causa, non sottomettersi ai pregiudizi, non accettare senza un esame critico ciò che pensano gli altri, ma contrapporre a essi sempre ciò che pensano anche altre persone ancora. Significa avere spirito critico e, nutrendosi delle riflessioni contraddittorie già formulate, essere il meno possibile vittime delle illusioni e delle opinioni comuni.

Il mondo, apparentemente, tende a divenire chiaro e ovvio solo per chi assume in modo non critico il senso comune, le opinioni della maggioranza, i pregiudizi cresciuti nella sua mente senza l’intervento di un radicale spirito critico: per costoro la vita quotidiana non pone mai problemi difficili. Il filosofo, invece, sa che anche le cose quotidiane presentano in fondo problemi complessi. La filosofia suggerisce dappertutto una molteplicità di possibilità che sfuggono a chi è dominato dalla ripetitiva tirannia del quotidiano.

Ma il valore della ricerca filosofica non è solo di tipo conoscitivo: la ricerca di verità ci rende più liberi e migliori. La vita quotidiana degli uomini è per lo più chiusa da una serie di interessi ristretti e privati: non mi riferisco solo ai meschini interessi istintivi, ma a tutte le esigenze, pur legittime, della vita quotidiana. La ricerca filosofica, al contrario, ci spinge ad abbracciare tutto il mondo in modo tale che nulla di ciò che è umano ci risulti estraneo.

Come affermava anche lo scrittore latino Terenzio: Homo sum et nihil humani a me alienum puto: sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo.

Con questa apertura di spirito l’uomo sarà capace di maggior tolleranza, in quanto è portato a riconoscere, nella loro interezza e serietà, le ragioni dell’altro.

La riflessione filosofica ci trasforma, dunque, in cittadini liberi eliminando le barriere dei pregiudizi e del senso comune che ci dividono dal resto degli uomini e del mondo.

In questa prospettiva, è evidente che bisogna guardarsi bene dal credere che leggere i filosofi dell’antichità significhi leggere sciocchezze sorpassate da secoli. Nella maggior parte dei casi, anche oggi noi pensiamo spontaneamente come loro, o meno bene di loro. E’ per questo che abbiamo bisogno di leggere senza pregiudizi gli autori del passato, avendo cura di trovarvi quanto ci serve per meglio dirigere il nostro stesso pensiero. La conoscenza di un autore infatti non può in alcun modo che servire per seguire i suoi ragionamenti e le sue argomentazioni, e per imparare a ragionare con lui, per comprendere il rapporto tra certe premesse e le loro conseguenze.

La filosofia, quindi, sia quella che ci hanno lasciato gli antichi sia quella sviluppata oggi per i posteri, è viva, non per le risposte che essa fornisce alle molte domande che ci premono, ma per la vitalità delle domande stesse. Essa, come abbiamo più volte ripetuto, è una passione che sgorga dall’anima, è una parte essenziale della natura umana, in quanto, dicendola con Aristotele, «tutto gli uomini tendono per natura alla conoscenza: ne è segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni»[21]. Aristotele ci descrive la «gioia», la felicità che ci procura il possesso della conoscenza e di quanto il desiderio di comprensione e lo stupore alla vista dello scenario del mondo e dell’esistenza intera siano fonte di domande continue. Domande alle quali non sempre (o quasi mai) ne segue una risposta; ma il fatto stesso che il nostro essere si pone infiniti interrogativi simboleggia che lo spirito si alimenta della meraviglia scaturita dalla vita, che questo stupore è fonte in noi di un desiderio incessante di raggiungere il sapere e che la felicità più grande ci è data proprio dal non raggiungerlo mai nella sua interezza, ma dall’essere sempre alla ricerca spasmodica di qualcosa in più.

«Gli uomini», continua Aristotele, «all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui, essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte ai problemi più complessi, quali le condizioni della Luna e quelle del sole, e le stelle e l’origine dell’universo. Chi è in uno stato d’incertezza e di meraviglia crede di essere ignorante; e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi cercavano di conoscere per puro amore del sapere e non per qualche bisogno pratico.

E’ chiaro allora che noi ci dedichiamo a questa indagine senza mirare ad alcun vantaggio esteriore, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per altro, così anche consideriamo tale scienza»[22].

La filosofia è la risposta al nostro stupore di fronte alle cose che sono e che sono proprio nel modo in cui sono e non diversamente: conoscersi, imparare a pensare, stupirsi che l’essente sia.

La meraviglia, che sta all’origine della filosofia, si qualifica inoltre non solo come stupore, ma come esigenza di conoscere la verità. La meraviglia non ha alcuna finalità utilitaristica, ma è tensione naturalmente umana verso la verità: non si tratta in questo caso delle singole verità, che sono invece oggetto delle attività parziali, ma la “verità” nella sua totalità. Non tanto (o comunque non sempre) una verità considerata come una produzione umana, ma quella “verità”, la quale, per usare la toccante espressione di Baruch Spinoza, «manifesta se stessa».

“Questa è la nostra libertà, assoggettarci alla verità” (Agostino di Ippona).

L’uomo è un essere che vive per la verità: nella curiosità del bambino, nel suo continuo domandare «perché», come nella ricerca paziente e disinteressata dello scienziato si esprime la medesima tendenza a sapere come sono le cose. Poiché «la sola verità che ci è data è nel movimento della ricerca»[23].

E soltanto chi è mosso intimamente dalla cura per l’uomo e dall’interesse per l’osservazione di ciò che gli accade nel presente può fare filosofia, partendo dall’uomo e ritornando a esso. La filosofia è, infatti, curarsi di se stessi. Ciò che conta in modo decisivo è che l’uomo afferri se stesso nella verità, che scelga se stesso, che si fondi su se stesso, e diventi così quello che è. E questo essere «se stesso» si realizza solo in rapporto agli altri, poiché “noi diventiamo noi stessi solo nella misura in cui l’altro diviene se stesso e diveniamo liberi tanto quanto l’altro diventa libero”. (K Jaspers)

La differenza dunque, tra il filosofo e una semplice persona colta non sta tanto nel generare delle sue idee e neppure, naturalmente, nel numero di esse, ma piuttosto nel modo in cui le domina, le unifica e ne fa un corpo organico, cioè un sistema. Kant ha espresso forse nella maniera più chiara questa idea distintiva del filosofare: «Sotto il governo della ragione le nostre conoscenze in generale non possono formare una rapsodia, ma devono costituire un sistema, in cui soltanto esse possono sostenere e promuovere i fini essenziali della ragione stessa. Per sistema poi intendo l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea». Il sistema come «l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’idea» costituisce l’ideale di ogni genuino filosofare.

Ogni filosofia è un sistema, nel quale le diverse parti si sostengono e si motivano a vicenda. Solo in questo quadro i diversi pensatori assumono un significato e la filosofia può insegnare qualcosa.

Tuttavia questa esigenza che la filosofia sia organismo, totalità di parti intrinsecamente coordinate, non dev’essere confusa con la pretesa di racchiudere il filosofare in uno schema rigido ed immutabile da imporre alle altre forme del sapere. In realtà, la ricerca filosofica, proprio in quanto è caratterizzata dall’esigenza della sistematicità, è tale che, a differenza di ogni altro tipo di ricerca parziale, investe e pone in questione il ricercatore stesso. La domanda filosofica, qualunque sia il suo oggetto, è una domanda radicale in cui è coinvolto anche il domandante, anzi, egli stesso in primo piano.

Una filosofia che non si sviluppa come un sistema è «rapsodica», come dice Kant, inconcludente ed esposta a tutti gli equivoci delle interpretazioni arbitrarie; la filosofia deve essere intesa come la disponibilità del pensiero a rivedere le proprie certezze nella misura in cui ne approfondisce e ne estende la verità, ed accetta, in questo modo, di allargare i propri orizzonti facendo proprie le verità altrui, dopo averle analizzate criticamente e, di conseguenza, giudicate con obiettività.

Naturalmente, parlando di «verità altrui», si considerano le idee dei contemporanei quanto le concezioni degli antichi: entrambi ci permettono di stabilire un rapporto nuovo fra presente e passato storico. Poiché ogni cosa, sia essa pensata o vissuta, si ricava dallo strettissimo intreccio presente fra la domanda filosofica e la tradizione del passato.

Il modo in cui interroghiamo e rispondiamo, infatti, è già determinato dalla tradizione storica nella quale ci troviamo. E la verità nella sua origine la possiamo cogliere solamente nella nostra situazione storica, che si determina volta per volta. Tutto deve essere pensato partendo da un proprio motivo originario, se vogliamo che il nostro filosofare rimanga veramente tale.

Ogni volta che noi facciamo della filosofia, ci troviamo di fronte a un problema fondamentale e concreto da risolvere: questo è il modo in cui la filosofia esiste per noi. La filosofia, infatti, si determina e si concretizza attraverso il modo con cui assume e mette a profitto la sua storia.

La filosofia non è dunque solo una trattazione puramente teoretica né determina soltanto una prassi, ma insieme, teoresi e prassi, all’interno della filosofia, implicano un modo di vivere; il che significa che l’atteggiamento teorico di fronte ad essa diventa reale solo mediante la viva assimilazione dei suoi contenuti.

E questo determina l’utilità prodotta dalla filosofia: generare uno stile di vita che condiziona l’andamento dei nostri pensieri e la nostra visione del mondo. Tutto ciò affinché il filosofo possa consegnare all’umanità, presente e futura, la propria essenza, la verità insita in lui, la quale ha tre funzioni principali: innanzitutto costituisce lo scopo della sua esistenza presente; inoltre per essa è disposto a morire in base alla coerenza che professa e che, se è un vero filosofo, vive ogni giorno; ed infine, essa rappresenta ciò che  sopravvive dopo la morte del corpo e ciò entro il quale l’essenza del filosofo, cioè la linfa vitale del proprio spirito, rimane in vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SETTIMO CAPITOLO

 

 

 

Filosofia e Religione: la pluralità e la libertà dello spirito

 

 

In un clima decisamente squilibrato che caratterizza questi decenni riguardo alla posizione gerarchica in cui porre la filosofia e la religione all’interno del nostro sapere, in quanto espressioni o meno di verità, e rispetto al loro stesso rapporto, sembra assurdo concludere il nostro discorso escludendo completamente il “problema Dio”, senza cioè dare un nome, di fronte allo scetticismo comune, al nostro credo, sia esso filosofico religioso o personale, ma comunque sempre la linfa vitale dell’esistenza umana.

E’ per questo motivo che dopo una lunga riflessione ho deciso di aggiungere quest’ultima parte che, più che un vero e proprio capitolo, la si può definire un epilogo. Una sintesi finale in cui viene messo a confronto il “concetto base” espresso finora, ovvero che il sapere per il sapere è al di sopra di ogni altra idea particolareggiante, con la religiosità, la quale, troppo spesso, costituisce, all’interno dell’esistenza di ogni singolo individuo, l’ “ago della bilancia” nella polarità vita-morte, in quanto è sempre presente in quell’infinito istante che intercorre tra una scelta ideale e la decisione fattuale, ossia tra l’essere e il vivere, la potenza e l’atto.

Lo scienziato Freemann J. Dyson afferma che “la scienza è eccitante perché è piena di misteri irrisolti e la religione è eccitante per la stessa ragione”; dunque, egli evidenzia quanto sia il mondo della scienza che il mondo della religione siano pieni di misteri irrisolti, ma, infondo, entrambi sono capaci di catturare la coscienza umana e stimolarla alla ricerca ultima: la verità.

Tutto il mondo è colmo di misteri irrisolti, fin dalle antiche domande del primo uomo, “Chi sono? Dove vado e da dove vengo? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo la vita?”, che sono tutt’oggi una realtà così presente nella coscienza di ogni uomo, che lo conduce alla meravigliosa follia del viandante. Sì, perché, come abbiamo detto più volte finora, l’uomo è domanda, è ricerca, è un viandante; tutta la sua vita è un eterno esodo, è nostalgia; nostalgia di fede, di qualcosa o qualcuno in cui credere, sperare. L’uomo, qualunque sia il suo credo religioso o a qualsiasi cultura appartenga, ha bisogno di un ente supremo per poter spiegare a se stesso la nascita, la morte, il dolore e tutta l’esistenza umana.

Voglio subito sottolineare, però, che per «ente supremo» non intendo affatto restringere il campo e parlare così di Dio, protagonista delle religioni, qualunque sia il nome che gli si attribuisca; bensì, utilizzo questa parola per specificare l’entità di un credo personale, che può rappresentarsi in qualsiasi “essere”, come persona o come Dio, può essere la scienza o la natura, un sorriso o un’idea.

L’essenziale, in tutto ciò, è rendersi conto che durante tutta la sua esistenza l’uomo è alla-ricerca-di: egli fa domande, ne ricerca le risposte, le cause, le spiegazioni, e incessantemente tenta delle sperimentazioni empiriche.

Nella stessa maniera, l’uomo religioso cerca per tutta la vita, come l’uomo scientifico cerca per tutta la vita; perché, in realtà, non è l’uomo qualificato o che noi ci rappresentiamo in qualcosa che cerca, in verità, è l’uomo in quanto è che cerca, l’uomo in quanto essere, colui che vive innanzitutto di sé. Quest’uomo, fin da bambino, osserva il mondo che lo circonda con lo stupore dell’innocenza di chi lo guarda per la prima volta: soltanto con questo comportamento, cioè avendo sempre vivo nel proprio animo lo stupore del bambino, l’uomo può sentirsi vero filosofo, religioso o scienziato allo stesso modo. In virtù del fatto che ogni uomo è creatore: creatore della sua vita giorno per giorno; creatore delle infinite domande che ognuno si pone e che spesso restano senza risposta; e creatore delle mutevoli risposte che ognuno dà a se stesso.

La filosofia, in quest’ottica, viene intesa come ricerca di un senso universale dell’essere e per questo come costituzione di una possibile saggezza.

Nell’Etica Eudemea Aristotele parla della filosofia come ricerca dei fondamenti e addirittura come contemplazione del divino che in se stessa è principio di vita.

Questa prospettiva viene poi ripresa nel Medioevo dove, in quanto scienza del divino, la filosofia è intesa come disposizione e come riflessione interna alla vita di fede, philosophia ancilla theologiae. La situazione più equilibrata del nesso filosofia-fede si trova in Tommaso d’Aquino, per il quale la filosofia esercita, sì, la sua funzione ancillare, ma operando nell’autonomia e nella proprietà del suo metodo.

L’idea platonico-aristotelica della filosofia come ricerca del fondamento dà vita, in epoca romantica, alla concezione della filosofia come sapere assoluto.

Hegel dice infatti che le diverse scienze devono scomparire nella “necessità del concetto”, in lui troviamo dunque la filosofia intesa come unico vero sapere.

Questa prospettiva viene ripresa nell’ambito dell’idealismo italiano in cui, con B. Croce e G. Gentile, il dettato hegeliano raggiunge le sue estreme conseguenze: le scienze positive sono allora intese come una funzione meramente strumentale e pratica, mentre soltanto la filosofia può valere come vero e proprio sapere, proprio in quanto in essa viene raggiunta la dimensione assoluta del reale.

Virando ora lo sguardo, e soffermandoci sull’evoluzione del termine «religione», notiamo che da una parte abbiamo la filosofia, che nel tempo ha cercato di imporsi come un oggettivo sapere assoluto; e dalla parte opposta c’è invece la religione, che nasce sostanzialmente come relazione tra Dio e l’uomo, il mio “io” di fronte al “tu” che mi pensa e mi fa esistere, ma che col tempo si concretizza, anch’essa, come verità assoluta, con la pretesa di imporsi al di sopra di ogni altra concezione.

Ne deriva che religione e filosofia, durante l’evolversi di tutta la loro storia si sono eternamente battute per avere entrambe il predominio assoluto l’una sull’altra; e se ci soffermiamo su questa visione, chiusa e senza vie d’uscita, scopriamo (con estrema tristezza!) che ancora oggi scienziati, studiosi e teologi sono ad una tavola rotonda con la convinzione di porre la propria ideologia sul gradino più alto della scala della cultura, poiché tutti, allo stesso modo, pretendono che l’uomo o sia completamente filosofo, o si professi ateo dalla nascita fino alla morte senza mai alcuna esitazione, oppure si proclami credente in un Dio e ne osservi tutte le regole, senza però nessuna alternativa, né alcuno spiraglio di dialogo tra le diverse ideologie.

In questo modo, però, nessuno si è reso conto che la pretesa di possedere tutta la verità ha portato finora soltanto alla chiusura, all’esclusione di tutto ciò che è diverso, altro da noi e dal nostro pensiero.

In realtà, nessuno può ritenersi unico interlocutore di Dio, come nessuno può ritenersi unico detentore della verità. Tutti, credenti e non credenti, dovrebbero riconoscere una varietà di percorsi seguiti dal divino, dall’assoluto nel suo significato più astratto, cioè dalla verità, per comunicarsi agli uomini: lo splendore del cosmo, le vicende della storia, i segni dei tempi, il progresso, la tecnologia, il carisma profetico, i testi sacri di un popolo, i testi filosofici di un’epoca.

Anche se a molti non sembra, in fondo, si tratta di forme identiche e sovrapponibili tra loro, in grado di ritenere possibili altre parole, altre ideologie che hanno illuminato il cammino di qualcuno altro e testimoniato la presenza del suo Dio. «Dio», voglio ripeterlo, non in quanto protagonista di una religione, ma in quanto credo, speranza e gioia per l’esistenza umana, che diviene lentamente il senso ultimo per il nostro spirito: per cui può essere il Dio cristiano, musulmano, o di altre religioni, ma anche l’uomo stesso, il sapere, la donna amata, l’amore in sé, o semplicemente la vita.

L’accusa rivolta alle religioni monoteistiche di aver favorito – in virtù della loro fede in un unico Dio – il moderno totalitarismo culturale, l’arroganza della verità, l’assolutismo del potere, la prevaricazione di una civiltà e di una razza sulle altre, nasce, innanzitutto, da una visione globale e totalizzante, arrogante ed esclusiva. Per cui unica è la verità, unico è Dio, unico è lo Stato, unica la storia del progresso e della rivoluzione, unico il linguaggio che si parla, unica la grammatica che ne regola l’uso.

Da qui deriverebbero le ragioni dell’intolleranza. Nella coscienza secolarizzata dell’uomo contemporaneo permane la logica “monoteista”, la fede del primato dell’Uno sui molti, di una classe dominante, di un interesse economico e religioso. Dal momento che il valore è uno e il credente l’ha compreso, chi esprime un diverso parere, non si pone solo contro di lui, ma contro la verità, la giustizia, la libertà. Contro Dio stesso, supremo garante di ogni valore.

Il passo dall’unità alla totalità e infine al totalitarismo è breve. La supremazia dell’Uno annulla ogni distanza, ai suoi piedi è immolato ogni residuo di diversità, di molteplicità. La sete di totalità diventa così aggressiva e vorace da non ammettere nulla al di fuori di sé. Non tollera alcuna resistenza e pretende di spiegare e programmare l’intera realtà. Non sopporta alcuna interruzione, esorcizza l’inquietudine della singolarità, non lascia spazio allo stupore della differenza e alle sorprese del futuro.

La professione di fede in un solo Dio, o comunque in un’unica verità, è un’applicazione particolare di una mentalità generale che vede nell’unità la sintesi di ogni valore e nella molteplicità la radice di ogni male. Non si possono concepire più fedi, dal momento che Dio è unico; analogamente, non possono esserci diversi approcci alla verità, perché essa è unica. Una verità “plurale” è un’incongruenza logica. Così come più giustizie generano anarchie e confusione sociale. Più libertà rendono ingovernabile la vita sociale, dove tutto deve essere pianificato e gestito con estrema lucidità.

A questo punto, se vogliamo ritrovare la nostra vera essenza di umanità, esistente solo all’interno di una pacifica convivenza collettiva, dobbiamo soffermarci e riflettere sulle meravigliose parole di Volli che, meglio di chiunque altro, scorge il rimedio per quello che è oggi il male moderno dell’individualità. Egli afferma che «noi abbiamo oggi bisogno per comprendere il nostro mondo e agire eticamente in esso di uno strumento intellettuale, di una metafora che ci permetta di riconoscere la pluralità del sacro, l’irriducibile differenza dei punti di vista, la forza trasformatrice della disomogeneità dei valori, la ricchezza del conflitto»[24].

La teologia, alla mercé della filosofia, e di ogni altra scienza, dovrebbe prendere le distanze e superare una visione del sapere come mono-logo, privilegiando una ragione particolare piuttosto che un’altra, e affrettarsi a diventare dia-logo: dialogo significa porre sullo stesso piano la propria posizione o la propria fede (che è lo stesso) e le convinzioni degli altri, cosicché tutto si riduce ad uno scambio tra posizioni fondamentalmente soggettive, ma soprattutto relative, con lo scopo superiore di raggiungere il massimo di collaborazione e di integrazione tra le diverse concezioni. Non si tratta di eliminare ogni legittima esigenza di unità, ma di evitare di farla prevalere ad ogni costo, sacrificando le altrettante legittime esigenze di pluralismo.

Ogni ambiente culturale deve sentirsi strettamente concatenato e dipendente dagli altri. Solo così si sentirà ininterrottamente spronato a confrontarsi sulla rispettiva concezione del mondo, dell’uomo, della religione, della vita.

Da questo costante confronto scaturisce, di conseguenza, un maggior apprezzamento delle risorse presenti nelle altre tradizioni e insieme una più chiara coscienza dei propri valori e della propria identità.

L’incontro tra le diverse culture provoca, infatti, un’interessante fusione di orizzonti. Le rispettive concezioni della vita e le diverse esperienze storiche, raffrontandosi, provocano un potente impatto sulle coscienze di tutti. Ne scaturisce successivamente un processo tendente a reinterpretare quei significati primari che stanno alla base dei propri modelli di vita e danno luogo ad una nuova originale concezione della realtà.

In questa prospettiva, la tendenza a considerare l’uomo inserito in un universo ordinato per gradi gerarchici, unitario e compatto nella sua struttura, è superata da una nuova visione, più articolata, capace di valorizzare le esigenze della pluralità e di articolarle con quelle tradizionali dell’unità. In maniera analoga, la conoscenza non è più percepita come un evento d’illuminazione e una forma di partecipazione ad un sapere superiore. E’ vista come il risultato di processi logici. Non è monopolio di una classe privilegiata. Può essere ottenuta mediante l’esperienza concreta e pertanto è accessibile a tutti, senza alcuna esclusione.

A questo proposito, in virtù di tutto quello che ho scritto finora, ed in parte sfruttando il fatto di trovarmi in un capitolo dedicato anche alla religione, ci tengo a sottolineare, ancora una volta, la forza dello spirito, quella particolare sensazione di libertà che è parte di ogni individuo, e che ci permette da una parte di esprimere senza esitazione il nostro pensiero e dall’altra di ascoltare senza pregiudizi il pensiero altrui.

Ora, ripercorrendo per un momento il quadro della storia, soffermandoci a riflettere su epoche sconosciute e remote, immaginando di camminare su terreni che sono stati floridi campi di vegetazione in grado di sfamare genti d’ogni razza o, caso mai, lande deserte e suoli sterrati ove è caduto il sangue innocente delle atroci battaglie del potere; rivivendo quindi il passato tutto ci appare come un miracolo: il miracolo della vita! Quella vita di cui alcuni ne hanno saputo fare un paradosso: Cristo, il paradosso dell’amore, l’amore eterno e verso tutti, senza distinzione alcuna; Socrate, il paradosso della saggezza, egli è stato la saggezza fattasi persona consapevole della propria ignoranza. E poi? Non è possibile che il quadro della storia della coerenza, dove i colori sfumati del pensiero lentamente diventano vita nei lucenti colori dell’arcobaleno, finisca qua! Voglio credere che nel mondo ci sono stati, e ci saranno ancora, infiniti altri paradossi in grado di rappresentare il simbolo da prendere come esempio per l’uomo del progresso che, troppo spesso, nella sua corsa verso il possesso del mondo, retrocede convinto invece di avanzare.

A questo punto, non possiamo assolutamente permetterci di dimenticare un altro paradosso, un altro personaggio della storia che ha fatto del suo pensiero lo scopo della sua vita, che si è lasciato torturare e bruciare sul rogo senza mai negare le sue idee: Giordano Bruno.

Egli è stato denominato l’uomo dalla “doppia verità”, e forse oggi lo definiremo il rivoluzionario, colui che va controcorrente, che non accetta nessun ordine etico impartitogli senza logica, ma che segue soltanto il suo spirito e che vive nella libertà del suo essere.

Citare un uomo quale Giordano Bruno ci serve non solo per ricordare le sue accuse contro le ormai ammuffite teorie della Chiesa cattolica, teorie che purtroppo non sono affatto cambiate, ma ci serve innanzitutto per sentir vibrare nelle nostre membra l’energia del sapere, la libertà del dialogo ed il coraggio di morire per un’idea. Proprio come Socrate. Proprio come Cristo. Proprio come molti altri; ovvero proprio come chiunque crede e vive della sua fede.

Queste emozioni vengono meravigliosamente espresse da G. Drewermann[25], che ce le fa vivere attraverso le parole pronunciate proprio dallo stesso Giordano Bruno come fosse il suo testamento scritto il giorno prima di morire, o meglio, come l’ultima arringa, non però di un avvocato, ma di un imputato che non ne approfitta per dichiarare la sua innocenza ed avere salva la vita, ma bensì la usa per gridare la libertà dello spirito, quella che mai nessuno potrà portargli via, quella che vivrà anche dopo la sua morte; e che gli fa dire, con ardore:…

«Lo spirito è anelito alla verità, è respirare nell’infinito, è un desiderio infinito di comprensione e conoscenza, e solo la misura dell’amore di un essere umano determina le dimensioni del suo sapere.

Voi, uomini di Chiesa invece, terrorizzate voi stessi e i vostri allievi con un’insensata varietà di teorie polverose, di dogmi difesi nella superstizione, e di quelle che voi spacciate per rivelazioni divine. Non avete mai bisogno di cercare, sapete sempre tutto; non siete mai sfiorati dal dubbio, avete certezze; non vi siete mai sbagliati, il vostro giudizio è consolidato.

La differenza fra voi e me è una differenza che riguarda il temperamento, la linfa, l’amore, la passione. Non mi piace imparare qualcosa che non amo; non voglio conoscere qualcosa che non mi riguarda; disprezzo un sapere che non mi renda saggio. Voi non fate che amministrare un museo dello spirito, del quale fate parte mentre ancora siete in vita; il mio obiettivo fu ad ogni istante di dissolvermi per l’infinito e nell’infinito. Anelo solo ciò che amo, e solo ciò a cui anelo voglio conoscere, e solo ciò che conosco posso amare. La conoscenza è amore che trova compimento, desio appagato, ebbrezza dei sensi, consumarsi dell’Io, fallire e naufragare, schizzare di spuma.

Infinito anelito, infinita ricerca, infinito desiderio dell’infinita verità dell’universo in cui si specchia la verità di Dio – questo è l’uomo, questo il mio essere.

E’ il pensare che mi distingue da tutti gli altri; ed è allo stesso tempo questo pensare che mi unisce a tutti gli altri; solo nella mia coscienza sono un Io in cui si specchia l’universo.

Il pensiero mi venne spontaneo, e corrispondeva in modo curioso al dormiveglia con cui l’iniziale sensazione di freddo lentamente si trasformò in ardore interiore: tutte le cose sono allo stesso modo importanti e non importanti. Sono e non sono. Vengono e svaniscono. Godimento e dolore non sono che stati in noi. Lo stesso vale per le determinazioni di bene e male, di alto e basso, di sublime e meschino. Persino i palazzi di Roma necessitano delle cloache. La pantera più bella non vive senza la crudeltà dei suoi artigli. Ogni essere umano viene al mondo fra sangue, feci e urina. Cosa ci attende quindi? «Male», «volgare» o «meschino» è solo ciò che si rifiuta alla vita e si sottrae al circolo. Ogni cosa si rigenera in ogni cosa; persino la rosa non potrebbe fiorire senza la putrefazione dell’humus. Putrefazione, decomposizione, corruzione – tutto ciò è necessario, e nell’ordinamento interno della natura, furfanti e vigliacchi evidentemente sono altrettanto utili e necessari quanto santi ed eroi. Ciascuno deve fare ciò che sa. Non abbiamo nulla da rimproverarci l’un l’altro – non i vermi agli uccelli, nei cui escrementi essi vivono, non gli uccelli ai vermi, che essi avidamente mangiano. Ogni progresso è solo relativo – l’innalzarsi dell’onda, che noi, a seconda della prospettiva, vediamo immersa in un bagliore dorato o nell’oscurità, altro non è che l’inizio della discesa e ciò che essa porta con sé sono le conchiglie con cui i bambini giocano sulla spiaggia.  

Nulla si può vedere se non si ha un punto fermo sotto i piedi, ma tutto ciò che un essere umano potrà mai vedere è determinato dal punto di osservazione. Ciò che a questo apparirà buono, a quello apparirà malvagio, ciò che a questo apparirà chiaro, a quello apparirà scuro, ciò che a questo apparirà grande, a quello apparirà piccolo. Ma se così stanno le cose, nessuno è in possesso del punto di osservazione «giusto», dell’unico vero, «cardinale». Tutti i punti di osservazione sono teoricamente possibili e realizzati nell’infinità dell’universo; quel che conta tuttavia è vivere il proprio punto di osservazione con la maggior decisione possibile. Perché la vita stessa ha evidentemente il proprio senso solo in questa infinita peregrinazione dell’anima attraverso l’infinita molteplicità dei punti di osservazione. L’universo è infinito e perfetto; ogni particolare in esso è tuttavia particolare e finito, e perciò deve percorrere tutti i gradi dell’essere per diventare partecipe dell’infinità e in questa divenire esso stesso perfetto. L’uomo in quanto spirito è una potenzialità infinita che attua se stesso in successioni temporali infinite e così facendo giunge a essere una degna immagine dell’infinito. Tutto è transizione. In nessun luogo è requie. In ogni cosa è insita quella potenza formativa che con espressione approssimata definiamo anima.

Bisogna considerare l’universo come un organismo armonico, in cui ogni parte stabilisce un nesso interiore con il tutto. Ne consegue che la legge dell’analogia fra il finito e l’infinito non determina più il rapporto fra creato e creatore, fra Dio e mondo, ma deve invece essere intesa come filo conduttore di una ricerca tesa alla comprensione di un mondo di progressive figurazioni e similitudini ai diversi gradi dell’essere. L’universo stesso è qualcosa di simile a un Dio in divenire, un’infinita abbondanza di possibilità costrette a realizzare e perfezionare se stesse.

Sino a oggi, nessuno dei sei giorni della creazione si è concluso. Ciascuno prosegue, si compenetra, si mescola con altri processi creativi, e non cessa mai.

Colpire con gli argomenti, con la parola e l’arguzia, darci dentro con le mie buone ragioni e vincere nella schermaglia verbale per me era un divertimento, ed è per questo che riuscivo a trasformare ogni aula in un’arena, ogni piazza del mercato in un campo di battaglia di ondeggianti legioni del pensiero. Ogni fare artistico consiste nell’immaginare le cose in maniera diversa da come sono; negazione, contraddizione, mutamento, formazione, ricreazione, questo solo è spirito. Non ho mai capito come gli eruditi da tavolino possano confondere la loro paura dei conflitti con la pensosità e la saggezza. Lo spirito è la forza di resistere alle obiezioni. Disgustoso, ottuso e rozzo mi pare invece voler definire i conflitti con strumenti estranei allo spirito. Ogni violenza è un difetto di spirito – e un difetto di compassione. La mia obiezione di fondo nei confronti del Cristo dei cristiani è che egli ha fatto passare per qualcosa di contrario a Dio l’istinto naturale di fuggire il dolore e di cercare la felicità e di avere portato agli uomini un Dio la cui giustizia vendicativa come atto di espiazione necessita della sofferenza degli innocenti.

La maggior assurdità dei cristiani consiste tuttavia nel credere che Dio non si faccia «uomo» sempre e ovunque, così come nel corso della creazione si fece pietra e fiore e stella, ma che si sia fatto uomo un’unica volta e per sempre esattamente 1600 anni orsono nella persona di Gesù di Nazaret.

Voi, padre inquisitore, accusate di presunzione gli uomini che pensano autonomamente. Credete che sia sufficiente ottenere un titolo per essere voi stessi la verità. Ma è una verità che non vi è costata niente: nessuna notte insonne, nessun tragico errore, nessun tormentoso interrogarsi, nessuna invidia da parte delle moltitudini, né la persecuzione dei governanti.

Voglio dirvi una cosa: con il vostro Dio trino volete solo acquistare prestigio agli occhi della gente. Considerate un atto di superbia pensare autonomamente, ma volete possedere la verità senza pensare e volerla amministrare senza spirito in una carica non è solo un atto di superbia è anche una menzogna criminale, infame, è autentico orgoglio contro Dio.

La rivelazione? Dio non ha bisogno di voi per rivolgersi agli uomini. Quando vuole parlare con i  fiori, fa splendere il sole, quando vuole parlare con i vermi impregna il suolo di umidità, quando vuole parlare con le nuvole fa soffiare i venti: ogni cosa ha la sua lingua nella quale Dio le parla. Tutto ciò che corrisponde alla natura di un uomo, di un fiore, di un verme o di una nuvola parla a lui di Dio che l’ha creato. Nell’impulso di ogni individuo verso le forme più compiute della propria esistenza trovate il modo in cui Dio parla. Dio non si è mai rivelato, si rivela costantemente e ovunque, tutta la sua creazione è un’unica rivelazione, ed essa dura dall’eternità come l’Eterno medesimo.

«Messer Bruno, negate la particolare rivelazione di Dio in Suo Figlio, nostro Signore Gesù Cristo?»

No, padre inquisitore, non nego la particolare rivelazione di Dio in suo Figlio Gesù Cristo; nego invece che Dio possa rivelarsi pienamente in un uomo limitato; Dio è più grande, infinitamente più grande di ogni uomo, anche dell’uomo Gesù di Nazaret. Da un punto di vista filosofico…

«Non sto chiedendo al filosofo ma al teologo. Non potete separare le due cose?»

Non mi sono mai considerato un teologo. Fra la teologia e la filosofia non vedo alcuna comunanza se non nella inquietudine determinata dai medesimi interrogativi. Cosa è il Bene, cosa il Male, come si arriva all’esistenza di un mondo, il cosmo è eterno o ha avuto origine nel tempo, l’uomo è libero o il suo agire è sottoposto a determinate leggi, esiste una vita eterna o la morte mette fine a ogni cosa, in cosa consiste la verità delle religioni e quale religione è quella giusta: tutti interrogativi che i teologi si pongono al pari dei filosofi; profondamente diverse sono le risposte. Ammetto apertamente di non aver mai avuto la stoffa del teologo; come avrei infatti potuto, alla stregua dei teologi, considerare una prova le opinioni di persone che sono vissute oltre un millennio orsono e alle quali si deve credere ciecamente solo perché la santa Chiesa li considera i suoi santi padri? Nell’ambito della filosofia, quando la si intende rettamente, non ha molta importanza citare un’autorità e avere sempre sulle labbra Aristotele. Fu un delitto contro l’intelligenza umana, un grave blocco del pensiero che a partire dal II secolo dopo Cristo i teologi della Chiesa abbiano letto i filosofi greci come loro simili: come maestri dogmatici. Anziché pensare dall’interno le loro idee, essi dichiararono come dato da Dio e indubitamente vero tutto ciò che serviva ai loro scopi. Il mero risultato di una riflessione decideva su verità e falsità; non importava sapere come ci si fosse arrivati, perché essi già sapevano cosa era vero e cosa era falso; prendevano in prestito solo le motivazioni. Con le idee dei grandi filosofi giocavano quindi come un bambino con i pezzi delle sue costruzioni e chiunque non si fosse schierato con i princìpi da essi stabiliti era considerato uno spirito contrario a Dio che andava combattuto ed eliminato con tutti i mezzi.

Una cosa vi dico: filosofare non è seguire meccanicamente autorità estranee, santificate dalla Chiesa; filosofare significa prestare fede esclusivamente alle ragioni e rigettare un’opinione nel momento stesso in cui gli argomenti più convincenti sono dall’altra parte. Filosofare significa lottare, significa combattere, significa essere liberi. Filosofare significa abbandonare il padre e la madre e non abitare mai in una casa finita. Filosofare significa sentire Dio nel cuore di tutte le cose, nello spirito degli uomini, nella grandezza dell’universo. Filosofare…

Io dico: conosce Dio solo chi osa pensare; risulta degno della rivelazione di Dio solo chi oltrepassa i confini del sapere tramandato e si spinge in direzione di ciò che è ignoto e celato; per questo motivo ogni epoca e ogni cultura ricevono le proprie rivelazioni dal divino.

Con la mia morte mi sconfiggeranno?

E’ l’ultimo interrogativo aperto. Il fatto che mi privino della vita non equivale certo a una vittoria, e anzi è forse testimonianza della loro debolezza. Quanto deve essere forte un uomo se sono costretti a ucciderlo per continuare ad agire come in passato? Non posso impedire che loro continuino ad agire come in passato. Ma su di me avrebbero «vinto» solo nel momento in cui io considerassi giustificato il loro verdetto, solo allora sarei smentito una volta per tutte – sarei un errore tracciato nottetempo nella rena che la granata, al mattino, cancellerà con un sol colpo.

Sono colpevole?

No, non sono colpevole. Non potranno mai convincermi del contrario. Certo vi sono molti motivi per cui devono dichiararmi colpevole; ma nessuno di questi regge.

Avrei bestemmiato Dio? Al contrario. Ho rivelato loro un Dio assai più grande, interiore, misterioso e benevolo di quello che essi potevano anche solo intuire nella loro parola d’ordine trina.

Avrei negato la loro dottrina? Anche questo solo in senso letterale. Naturalmente hanno ragione a respingere in quanto farsesco il mio rifarmi alla dottrina della doppia verità. «Poiché, come dite, le vostre verità sono a tal punto sublimi da risultare imperscrutabili allo spirito umano, io preferisco mettermi alla ricerca delle verità perscrutabili. Incapace di scrutare l’imperscrutabile, mi sono preso a cuore la filosofia.» Una posizione tanto semplice sarebbe un peccato grave e una colpa eterna? Vi offende – giusto! Ma la libertà di pensiero è un peccato al cospetto di Dio? Dimostra solo fino a che punto voi stessi deformiate l’immagine divina, attribuendole la vostra smorfia. Non devo ritrattare nessuna di queste idee; di esse vado fiero!

Come ho vissuto quindi?

Solo a partire da qui posso capire perché vengo condannato.

Le accuse teologiche, lo ripeto una volta di più, sono del tutto insensate. Riesaminandole non posso che ribadire, per l’ultima volta con estrema decisione: non colpevole! Il mio punto di vista non cambierà nemmeno in queste ultime ore di vita. Anzi, non cambierà proprio perché sono le ultime!

Non credo nella Chiesa, d’accordo! Ma non ho più voglia di rivolgermi ai suoi rappresentanti come se fossero dei bambini ai quali, per farli addormentare, ogni sera bisogna raccontare con le stesse parole la stessa favoletta. La mia filosofia è in funzione del «risveglio». Se coincide con la dottrina della Chiesa, per me va bene; se non coincide, che diritto ha questa Chiesa di estirpare interrogativi e dubbi con la tortura e l’omicidio, anziché confrontarsi onestamente con essi? No, se di colpa si tratta, è tutta dalla parte vostra, di voi che uccidete lo spirito che presumete di possedere.

«Lo Spirito di Cristo ha fondato le Chiesa?» «Lo Spirito di Dio è il costante sostegno della Chiesa?» «Lo Spirito di Dio introduce la Chiesa in ogni verità del Divino?»

Ma di quale «Chiesa» si sta parlando? Non certo della vostra! Non certo di questo gruppo d’azione frantumato dalle prepotenze di arcivescovi-principi dominati dall’odio! Ricordatelo: non è più la Bibbia a stabilire ciò che è vero; ciò che è vero deve trovare conferma al cospetto della ragione umana. A determinare ciò che è bene e ciò che è male non è più una commissione composta da cardinali e teologi; a decidere è invece il grado di umanità che vive nel cuore di ciascuno.

Questa stessa notte brucerete il frate Giordano Bruno; ma dalle sue ceneri emergerà Filippo, l’uomo che io ero quando nacqui dalle mani di Dio.

Siete ormai pronti a uccidermi. Ho negato la Santissima Trinità, è vero; e tuttavia credo di non essere mai stato vicino al mistero del Divino come in questa ora. Mi uccidete perché a vostro parere avrei negato Cristo; è vero soltanto che ho sempre anteposto il sapere al credere; ma ho anche sempre saputo che si può solo sapere se si vive, e non ho mai negato che si può essere vivi solo essendo uomini che amano. Anche alla persona del Cristo non sono forse mai stato tanto vicino come in questo momento. Se aveste detto: l’uomo di Nazaret venne a noi da Dio perché era un uomo che amava autenticamente: vi assicuro che non mi sarei mai preso gioco della sua figura. Dovevo invece distruggere con la forza delle mie parole il vostro mito cristologico, un mito assetato di potere.

Ho considerato sacro sempre e solo l’amore. Per il fatto di non averlo vissuto davvero merito che mi uccidiate; e che il fuoco del supplizio che mi imponete attraverso il mio corpo penetri a fondo nella mia anima affinché possa rinascere in una fiamma inestinguibile. Sì, ardere d’amore – se questa fu la mia colpa, sia anche la mia purificazione!

Ma voi cosa siete, miei probi giudici e carnefici! Avete mai sentito quel canto dell’amore che, inaudibile, risuona nel mondo? Io per lo meno ho cercato di prestare orecchio a questa melodia, di seguirla con tutte le mie forze.

Adesso resta da fare un’unica cosa: entrate pure in questa cella: non salverete la mia anima – a voi irrimediabilmente folli non è concesso né al cospetto di Dio né al cospetto degli uomini – ma la libererete dalle spoglie del suo errore e non da ultime dalle grinfie della vostra stessa corruzione.

E’ arrivata la fine. Tutto ciò che dovevo dire, l’ho detto. Adesso non mi resta che amarmi affinché domani sia abbastanza forte per sopportare i dolori che vorrete infliggermi.»

La vita di Giordano Bruno, quella che dovrebbe essere la vita di ogni studioso, di ogni amante del sapere, non è altro che l’espressione del dialogo alla ricerca della verità, del dialogo socratico che non ha affatto la presunzione di prevalere sulle altre voci, ma ha bensì l’umiltà di ascoltarle tutte per farne propria la parte migliore.   

L’uomo infondo è eternamente alla ricerca della verità, della sua verità. E non è importante lo strumento che egli utilizza, se la religione, la filosofia, l’ascetismo, o chissà cos’altro, ciò che ha davvero senso, lungo il suo cammino nel raggiungimento dell’assoluto, è soltanto la sua fonte di energia, ciò che gli permette di alzarsi e continuare a camminare ad ogni esitazione: l’amore infinito per un sapere.

Dice bene il senatore Simmarco, senatore romano del tardo sec. IV, il quale, durante un discorso tenuto nel 384 davanti all’imperatore Valentiniano afferma che “E’ la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola quella che pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda; che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via”.

Ed è esattamente ciò che sostiene oggi la razionalità, ciò che ha sostenuto Giordano Bruno con la sua stessa vita, o meglio con la sua stessa morte, proprio come Cristo e Socrate, ed è esattamente la sintesi di tutto il nostro discorso: la verità in quanto tale non la conosciamo; nelle immagini più diverse, in fondo, miriamo alla medesima cosa. Mistero più grande, la verità non può essere ridotta a una sola figura che esclude tutte le altre, a un’unica via che vincolerebbe tutti. Ci sono molte vie, ci sono molte immagini, tutte riflettono una parte del tutto e nessuna di loro la totalità.

L’ethos della tolleranza appartiene a chi riconosce a ciascuna di essa una parte di verità, a chi non pone la sua più in alto delle altre, ma si inserisce tranquillamente nella poliforma dell’eterno inaccessibile.

Soltanto adesso, possiamo finalmente comprendere che l’opera a cui si appresta giornalmente il filosofo è quella di diffondere con tutte le sue forze che la fede, come entità spirituale, e la ragione, come entità strettamente razionale e materiale, devono essere entrambe viste e utilizzate come strumenti essenziali con i quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità.

La filosofia vuole portare alla comprensione dell’uomo evoluto che tutto il mondo che lo circonda e la vita stessa che egli progetta e vive è verità; una verità che diviene assoluta soltanto quando la mente umana diventerà capace di osservare il mondo intero da un unico piano: dal punto di vista della filosofia, della ragione, della fede, della scienza,… ma senza la pretesa di prelevare l’uno sull’altro. L’uomo deve, insomma, diventare un agglomerato di prospettive parallele e da lì tirar fuori le risposte alle proprie domande.

La conoscenza umana non preclude la conoscenza di Dio, ma solo con la consapevolezza della “dotta ignoranza” di cui parla Cusano e del “sapere di non sapere” di Socrate, è possibile intuire l’infinità. E nell’infinità l’intelletto vede e percepisce la “coincidenza degli opposti”, cioè l’unità di tutte le conoscenze, anche di quelle contrapposte tra loro, poiché è finalmente in grado di guardare l’intero, e non più la parte.     

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

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[1] G. Vattimo, Vocazione e responsabilità del filosofo, Premessa, Il Melangolo, pag. 7.

[2] N. Merker, Atlante storico della filosofia, Editori Riuniti, pag. 19.

[3] G. Reale, Filosofia antica, Jaca Book, pag. 11.

[4] Flores D’Arcais, Etica senza fede, Einaudi, pag. 182.

[5] M. De Bartolomeo – V. Magni, Filosofia. Elementi di filosofia: percorsi tematici, metodo e strumenti, Tomo 0, Atlas, pag. 10, da Pietro Pini, Introduzione critica alla storia della filosofia, Armando Editore.

[6] G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, pagg. 26-28.

[7] Ivi, pagg. 31-32.

[8] N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, voce Infinito, Utet, pag. 589.

[9] G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, pag. 41.

[10] Ivi, pag. 48.

[11] Ivi, pag. 81.

[12] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, pag. 65.

[13] F. Cioffi – F. Gallo – G. Luppi –  A. Vigorelli - v  E. Zanette, Il testo filosofico, Vol. 3/2, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, pagg. 450-484.

[14] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, pag. 24.

[15] P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, pag. 48.

[16] G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, pagg. 469-470, da Platone, Simposio, 203 B 2 – E 5.

[17] Platone, Fedro, 249 d, Mondadori, pag. 59.

[18] Vangelo secondo Giovanni 1, 1-4, 14.

[19] P. McGgrath, Il morbo di Haggard, Adelphi, pag. 95.

[20] Jean-Paul Jouary, A cosa serve la filosofia?, Salani Editore, pagg. 124-125, da R. Descartes, I principi della filosofia.

[21] M. De Bartolomeo – V. Magni, Filosofia. Elementi di filosofia: percorsi tematici, metodo e strumenti, Tomo 0, Atlas, pag. 17, da Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b.

[22] Ibidem.

[23] E. Ferrero, N., Einaudi, pag. 57.

[24] U. Volli, Per il politeismo, Feltrinelli, pag. 19.

[25] G. Crewermann, Giordano Bruno. Il filosofo che morì per la libertà dello spirito, Rizzoli.