RACCONTI DI ALDO ZECCA www.aldozecca.net

 

1. LA PAURA pag. 1

2. IL SESSO 10

3. L'ENERGIA 13

4. LA RIVOLTA 16

5. IL CONFLITTO 24

6. LA CREATIVITA' 34

7. LA FOLLIA 39

8. IL SOGNO 47

9. IL CORPO 52

10. L'ABORTO 57

11. UN SUICIDIO CRUENTO 64

12. LO SCORPIONE 66

13. LA LAVATRICE 68

14. ROCCO 70

15. UN AMORE SBAGLIATO 73

16. LA DONNA MACCHINA 77

17. NICO E MARISA 81

18. ILLUMINATO DA DIO 91

19. QUANDO IL CORPO TRADISCE 97

20. UN UOMO LIBERO 105

 

1.LA PAURA

 

 

Acqua. Acqua. Mi sento bene nell’acqua. Non c’è paura. Non c’è il peso del mio corpo. Nessuno mi vede. Una spinta, con il piede contro il muro, e volo nell’acqua a braccia aperte. Gli occhi chiusi, chiusi, chiusiii&ldots; Leggero. Leggerooo&ldots;.. Ma voi sapete cos’è la paura? Dico: la paura vera, quella che ti fa tremare, che ti fa restare con gli occhi aperti, sbarrati, che fissano la porta, vigili. Parlo della paura di un bambino, e poi di un uomo, la paura che non passa anche quando diventi grande, perché è dentro, in fondo. Ero piccolo, avrò avuto quattro anni. Una sera mio padre e mia madre si trovavano sulla poltrona verde di finta pelle e stranamente erano sereni. Chiesi: “andiamo al cimena?” (sì, “cimena”, ma non c’è niente da sorridere). Mi arrivò un ceffone. Forse fu quel ceffone che mi insegnò come esistesse un’associazione tra il mio dolore e la loro serenità. Se mi ferivo, loro smettevano di litigare. Sì, voi direte: quel primo episodio espresse una concatenazione di eventi contraria, cioè loro non stavano litigando, e tu, poi, sei stato ferito. Non lo so. Sto formulando un’ipotesi. Il fatto è che forse fu quello l’inizio di una consapevolezza, fu il cominciare ad associare “io sto male – loro stanno bene”. Cosa ne sa un bambino? Io avevo paura dei loro litigi, questo sì, lo sapevo benissimo. Avrei fatto di tutto per fermarli. Incominciai presto a farmi del male. Anzi, (parlo così per libere associazioni, come in una psicoterapia) la prima ferita me la inflisse la mia triste sorellastra, quando perse il controllo della carrozzina, con me dentro, sulle scale. Non è che io abbia un ricordo preciso, netto, di quell’episodio. Credo di ricordare vagamente una discesa tumultuosa lungo una scalinata, e credo di sentire le grida di preoccupazione e di spavento di mia sorella. A cinque anni appoggiai l’orecchio sinistro sulla stufa a legna: volevo sentire il rumore del fuoco (l’acqua e il fuoco mi sono sempre piaciuti, provo una vera attrazione, non toglierei mai lo sguardo da un lago o da un falò). Comunque l’orecchio rimase attaccato alla stufa. Altre grida della mia sorellastra: accorre la vicina di casa, mette olio sull’orecchio, l’orecchio si stacca. Per un po’ di tempo i miei genitori si occupano di me. Non posso dire che si disinteressassero completamente di me. Avevo vestiti fatti su misura, grazie alla nonna, matrigna di mia madre, ero addirittura un elegantone. Ma c’era un modo di pensare a me fatto di cose concrete, di attenzioni particolari, in un contesto nel quale c’era, tuttavia, al primo posto, il bisogno dello scontro tra loro (dico: i genitori) o comunque l’inevitabilità dello scontro. Così, dicevo, imparai a farmi male: il taglio di un sopracciglio con una lamiera, il taglio di una mano con un coltello, la frattura di una gamba, la frattura di un braccio, la distruzione del mio viso e degli incisivi superiori per una caduta in bicicletta. Apparentemente, tutto casuale. Apparentemente. In verità, ogni ferita era una pausa, per qualche giorno era sospesa la guerra e ci si occupava di me. Ma, a guardare bene dentro le cose, arrivo a dire che non cercavo tanto l’attenzione nei miei confronti, quanto il silenzio, la pace. C’era una preghiera nel sangue, un sacrificio, davo una parte di me, e pericolosamente mettevo a rischio il mio corpo, vendevo la mia integrità per un pezzo di armistizio tra loro. Il papà espletava la propria funzione di educatore con pochi ma chiari concetti: tenere i capelli corti, portare l’orologio, avere il portafogli, avere la fede. Da sempre non ho niente di tutto questo, non faccio niente di tutto questo. La fede. Ecco il papà in prima fila, in chiesa, che canta, il collo teso, come un gallo. Il papà tutto contento di avere salvato con un tuffo gli occhiali del prete, caduti dalla balaustra del pulpito durante la predica della domenica. Il papà che mi chiede “ ma quando canto si vede che sto perdendo i capelli, si vede dalle file dietro?”. Io vado dietro, poi più indietro, fino all’entrata, e dico “no, non si vede”, anche se non è vero. Avere fede significa naturalmente credere nei dieci comandamenti, nei peccati, nella confessione, e purtroppo anche nel diavolo. Il papà dice: “fino a sei anni i peccati non si contano”. Io penso che fino a sei anno sono a posto. Ma poi si contano, e si confessano. Ma, dico io, se ho sei anni e mezzo, e tiro fuori il pisello per pisciare, e lo tengo in mano, e magari lo guardo anche, e poi vado a confessarmi, il sabato, e, dopo avere elencato una serie di peccati molto più credibili e meno gravi, dico che “ho commesso atti impuri”, cazzo, dico, possibile che nessun prete si sia preso la briga di chiedermi quali erano questi atti impuri? Eppure è andata così. Mio nonno materno si incazzava di brutto, gli veniva la schiuma alla bocca, da buon palermitano era istintivo e furioso, al caso. Urlava “ma vai a dire a quel mezzo prete di tuo padre che se non tieni l’uccello in mano ti pisci addosso!!”. Io confessavo i miei atti impuri, venivo guardato male e mi prendevo la mia solita penitenza. Il problema era il diavolo, è ancora il diavolo. Il diavolo non è qualcosa che puoi controllare. Non è nemmeno l’aspetto che preoccupa. Sei vigile nella notte, hai gli occhi spalancati e le orecchie pronte, perché lui può essere improvvisamente seduto al tuo fianco, sul letto, in frac e cilindro, con tanto di guanti bianchi e bastone con il pomello a forma di aquila o di teschio, e sorriderti amabilmente, ma tu sai che ti farà del male, ti porterà via. Non è facile capire quale sia la miscela di ingredienti che porta un bambino prima, e un adulto ateo , poi, ad avere paura del diavolo. Da grande ti difendi, non dormi mai solo, e non c’è bisogno che chi dorme con te sia grande e grosso, basta un bambino, un tuo figlio, anche il più piccolo, e la paura va via. Se sei fuori casa e dormi in albergo barrichi la porta con l’armadio e il comodino per tenere fuori i ladri e gli assassini, e ti imbottisci di sonniferi (dovrei chiamarli “ induttori del sonno”), in modo tale da addormentarti, prima o poi. Ma se sei un bambino, come cazzo lo affronti il diavolo? Se avete bisogno di una serie di consigli per tenere sotto controllo il diavolo, rivolgetevi a me. Comunque, eccone alcuni. Disponete sempre il letto in modo che sia appoggiato ad una parete (così da quella parte non potrà arrivare niente; sì, è vero, il diavolo attraversa i muri, ma per sedersi sul letto dal lato della parete dovrebbe abbatterla, farci un buco, e poi non dimenticate che siamo nel mondo dell’irrazionale, in cui sono ammessi anche ragionamenti e calcoli apparentemente razionali). Disposto il letto contro una parete, state sdraiati bene sotto le coperte (il diavolo tira i piedi, quindi devono essere protetti), e su un fianco, con lo sguardo rivolto verso la porta: in questo modo controllerete la più facile via di accesso, finché vi abbatterà il sonno, finalmente. Poi tenete una croce, o un rosario, o un’immaginetta, o la statua di plastica della madonna di Lourdes, tutto assieme, se l’avete, tenetelo tra le mani, sotto le coperte. Le mani devono stare davanti al volto, congiunte, perché la cosa più tremenda è che il diavolo ti accarezzi il volto sorridendo. La testa deve sbucare appena dalle coperte. Poi bisogna pregare, e promettere, dentro la paura è utile pregare e promettere. Io promettevo di tutto, di non guardare il pisello mentre facevo la pipì, di non dire parolacce, di&ldots;.. Ma cosa dovevo promettere? A scuola ero il migliore, quello che si indicava come “il primo della classe”. A proposito: si usa ancora dare questa definizione? Per il papà era importante. Quando portavo la pagella o riferivo un voto mi chiedeva cosa avevano meritato gli altri, quelli pericolosi per il mio primato. Io ci tenevo a fare contento il papà. Lui si sentiva meno fallito, forse addirittura un bravo papà, se io mantenevo la mia posizione. A casa facevo tutto, la domenica passavo anche i pavimenti con la lucidatrice. Andavo persino in cantina a prendere il vino e le mele. Per me era un incubo, una missione portata a termine con il cuore che martellava e gli occhi come due palle puntate sul buio, pronti a captare ogni movimento, ogni uomo con il frac e il cilindro. Cosa dovevo promettere, dentro la paura? Ditemi voi: cosa deve promettere a Gesù, a Dio, alla Madonna, un bambino che a dieci anni se la fa ancora addosso e a quaranta si volta continuamente indietro, se è sera, o notte, e sale una scala? La mia psicoterapeuta dice che una persona dorme bene se ha vissuto bene, se la sua giornata non ha contenuto niente di cui pentirsi. Oggi non posso dire che le mie giornate non abbiano mai dentro niente di cui pentirmi, ma allora, allora, a sei anni, a otto anni, pronto in tutto a soddisfare i bisogni dei miei genitori, ad anticipare le loro richieste, pronto a dare il mio sangue per una tregua, di cosa dovevo pentirmi, cosa potevo promettere, soprattutto? In definitiva non avevo merce di scambio, moneta per la trattativa. Così passava il tempo, notte dopo notte conquistavo il sonno sfinito dal terrore e dal mettere in atto i miei meccanismi di difesa. Spesso non ce la facevo a controllare la paura, mi alzavo dal letto e andavo dietro la porta a vetri della sala. I miei genitori stavano guardando la televisione. Vedevano la mia ombra. “Vai a letto!” mi intimavano. Io tergiversavo, prendevo tempo, finché uno dei due si alzava dalla poltrona e mi strattonava verso il letto. Poi arrivarono le immagini televisive. Io ho quattro “opere” televisive che mi hanno terrorizzato. La prima è una pubblicità del Carosello, in cui Nicola Arigliano aveva due facce, credo che facesse la réclame per una lametta o una schiuma da barba. Prima si vedeva il suo volto (già non molto bello, nella realtà), poi lui si girava, e dove doveva esserci la nuca con i capelli c’era un altro suo volto. Forse sul primo c’era un po’ di barba, mentre il secondo era perfettamente sbarbato. Quando vidi quella scenetta mi rifugiai di corsa sotto il tavolo di cucina. Un’altra mazzata, la seconda, venne dal vedere qualche frammento del film tratto dal libro “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”. Stavo forse dando la buonanotte, già in pigiama, o (è possibile) i miei genitori mi avevano tenuto con loro qualche minuto, in un momento di magnanimità, rivelatasi poi deleteria oltre l’immaginabile. Fatto sta che quando vidi l’uomo che si trasformava in mostro (in quella versione si trasformava proprio in una bestia orribile) persi il sonno per anni. Da quel momento occorsero veramente anni per ammortizzare il colpo. Molto più tardi (ero ormai sedicenne) fu la volta del film “L’esorcista”. La mia psicoterapeuta dice che ha terrorizzato parecchie persone. Il problema per me fu questo: quel sabato sera, prima di uscire per incontrarmi con gli amici davanti al cinema, mio padre mi disse “tieni presente che tutto ciò che vedrai è vero”. Per provare ciò che diceva mi parlò di un libro in cui erano raccolte diverse testimonianze sull’esistenza del diavolo, e me lo diede da leggere. Lì si spiegava come una suora venisse violentata ogni notte, nella sua cella, dal diavolo, e poi inchiodata al muro, per ritrovarsi poi sana nel letto ogni mattina, senza ferite, dolorante ma in estasi per il sacrificio. Si raccontava di un frate sulle cui mani e sui cui piedi il diavolo produceva buchi allo scopo di farlo bestemmiare, ma lui no, non bestemmiava. E via di seguito, con una serie di racconti attraverso i quali persone presumibilmente vere descrivevano episodi relativi a possessioni e presenze demoniache. Ora, immaginatevi cosa avesse poi significato per me assistere alla proiezione del film. Non so se lo avete visto. E’ il racconto di una ragazza posseduta dal diavolo, che compie tutta una serie di atti orribili e viene salvata da un prete che sacrifica la propria vita. Quella sera non tornai a casa. Alle quattro di mattina suonai il citofono del nostro medico di famiglia. Sua figlia era mia compagna di scuola ed era venuta al cinema con me. Mi fecero entrare in casa, mi prepararono un bicchiere di latte, dormii su un divano. Non credo di avere ancora superato, oggi, dopo venticinque anni, quell’esperienza terrorizzante. Dunque, eccomi lì, che cresco, con un bel po’ di problemi. Ci sono i miei genitori che litigano, c’è il primato a scuola da mantenere, mi faccio la cacca addosso, mi faccio male, ho i tic (scuoto la testa e graffio i muri) e ho le orecchie a sventola. Dal momento che una delle leggi di papà prevedeva che tenessi i capelli corti, come i bravi ragazzi additatimi a esempio, ecco che le orecchie si vedono, eccome, e io, guardandomi allo specchio, mi domando se mai una donna non dico accetterà, ma penserà di sposarmi. Dentro questa crescita ci sono le cotolette con le patate fritte della nonna Carla, e la collezione di cravatte a farfalla che mi aveva regalato, e le vacanze a Bordighera, e la voliera con i canarini del nonno, e i film di Totò, e la radiolina con la protezione di pelle marrone. C’era la casa degli altri nonni, quelli paterni. Potevo usare la bicicletta grande, nera, e il nonno mi portava in moto a comprare la cupèta, c’erano i giovedì, e il giovedì negli anni sessanta era un giorno festivo. Il giovedì lo passavo appunto nella casa dei nonni paterni. Il nonno era un buono. Sapeva che avevo paura ad andare in bagno e mi lasciava fare la pipì nel camino, di nascosto dalla nonna, proprio nel camino in cui si preparava da mangiare. Io facevo la pipì e lui faceva la guardia. Bello il nonno, alto e con i baffi bianchi, sempre pronto a ridere. Una volta mi chiuse in gabinetto dopo avere messo nella vasca cinque o sei ragni. Io battevo i pugni sulla porta, lo pregavo di aprire, e lui era fuori che rideva a crepapelle. Probabilmente fu una tecnica terapeutica. Oggi non ho paura dei ragni. Ma il nonno era un buono, dicevo, mi lasciava pasticciare con la sua macchina da scrivere, nello studio disordinato, e, la sera del mercoledì, mi permetteva di vedere alla televisione "Belfagòr, il fantasma del Louvre”. Ancora adesso, mentre scrivo, mi guardo alle spalle, tanto è la paura. Andavo a dormire tremando letteralmente. Aspettavo la mattina. All’alba la nonna si alzava e io potevo sgattaiolare nel letto grande con il nonno, e godermi prima lo spettacolo degli angeli dipinti sul soffitto che guardavano in giù, appoggiati alla balaustra di un balcone rotondo, sorridenti, con il cielo azzurrissimo alle spalle, e poi il sonno. Ricordo la pianta di cachi, lo zio che non si laureava mai e si radeva la barba all’aperto, con il pennello e tanta schiuma, ricordo la Sangemini, il tomato, il prestino dove andavo a fare la spesa, il colore azzurro per le foglie di vite. Tutto ciò che mi piace è legato ai nonni. I sapori, il “puciare” nelle padelle, i profumi, quello di Chanel numero cinque della nonna, quello delle Turmac del nonno, i colori, l’oro del portasigarette, il miele del gembro: nessuno però capiva la mia paura. Era qualcosa di strano, di incomprensibile, per mio padre di vergognoso. Una volta, in una notte in cui continuavo ad uscire dalla mia camera, senza pace, più angosciato del solito, ecco che lui entra e mi dice, alzando una mano con le dita allargate e tese: “ma tu credi?!?!”. Non ha mai capito che proprio quella fede, quel credere fatto di diavoli e punizioni erano la mia rovina, e che sarebbe stato meglio proprio non credere a niente, a nessun satana e a nessun lucifero. L’aspetto più interessante è l’immagine che ho del diavolo, perché l’uomo elegante e sorridente mi preoccupa molto più del mostro con il forcone e la coda. C’è un sottile minaccioso sottinteso pericoloso alludere, nel sorriso dell’uomo in frac, ed è un alludere non tanto alla morte, ma al male, al fatto che ha scelto te, è lì per portare via te, con calma, con eleganza, ma ti porta via, non c’è niente da fare. Poi c’è la voce. Un bisbiglio. Nella notte la paura è un’attesa della sua voce. Anche quella non contiene una minaccia esplicita, è un invito, un gentile sussurro che ti condanna. Sei lì lì per sentirla, adesso arriva, tra un secondo, tra un attimo si fa viva. Io sto bene nell’acqua. Forse perché l’acqua spegne il fuoco, e l’inferno è fuoco. Ma non sto bene nelle grandi acque, nei mari o nei laghi. Sto bene nelle piscine. Sono come acquasantiere, contenitori controllabili, dai quali è difficile che escano mostri. Più precisamente, sto bene sott’acqua, dentro un mondo azzurro. C’è l’azzurro del soffitto dei nonni, con gli angeli, c’è l’azzurro del paradiso, c’è il silenzio. C’è il silenzio, non devo farmi male per avere quel silenzio. Acqua, e quando sono seduto sul fondo della piscina e guardo in alto verso la luce mi sento protetto. La mia psicoterapeuta dice che la paura si vince con la razionalità. Io ci provo, a volte ci riesco, ma ogni tanto me ne sto sott’acqua, dove nessuno mi chiede di cambiare.

 

2. IL SESSO

 

 

 

 

 

Mettete in una casa dove vive un adolescente una ragazza bella e provocante, e quello impazzisce. Non ci credete? E’ successo a me. Dunque, mia madre lavorava, per cui c’era bisogno di una cameriera, che badasse anche a me e ai miei fratelli. Una cameriera a tempo pieno, dal mattino alla sera. Nel corso della mia infanzia di cameriere ne ho viste passare tante. C’è stata quella piccola, grassa e cattiva, a cui ho versato il Sidol nella scollatura. C’è stata quella che rubava alla mamma le borse e i vestiti, e se li metteva pure, fuori dall’orario di lavoro, in giro per la città. Ci sono state quelle che sono rimaste due giorni, quelle raccomandate al papà dai piccoli politicanti di paese, c’è stata la cameriera non tanto sana di mente che beveva lo sciroppo per la tosse quando aveva sete. Ho visto mia madre fare i letti, e servire a tavola la cameriera per non perderla, e sono stato male per questo. Ho sentito i miei genitori litigare anche per le cameriere: la mamma le voleva cambiare, ma il papà non voleva inimicarsi il vicesindaco o l’assessore. Lui era un amministratore comunale. Comunque, un giorno è arrivata lei. Me lo ricordo bene quel giorno. Ricordo il papà che la fa scendere dalla Simca mille, e lei che attraversa in minigonna il cortile del condominio. Silvia aveva i capelli cotonati, passava tanto tempo in bagno a gonfiarseli. Aveva i reggicalze, gli stivali sopra al ginocchio, era truccata, con le unghie lunghe e laccate. All’inizio non ci feci caso, ero troppo piccolo per esserne attirato. Ma Silvia restò da noi parecchi anni. Quando arrivava in casa nostra, con la corriera pagata dai miei genitori, accendeva subito la grossa radio e faceva i mestieri così, poco a poco, cantando e ballando. Mi faceva il budino alla vaniglia o al cioccolato. Arrivavo da scuola alle quattro del pomeriggio e dopo il budino mi godevo la tivù dei ragazzi: “La nonna del corsaro nero”, “ Robison Crusoe”, “I ragazzi di padre Tobia”. Silvia aveva la corriera alle cinque e venti, ma già alle quattro e mezza si chiudeva in bagno per cotonarsi i capelli. Trascorsero così alcuni anni. Nei suoi confronti passavo da sentimenti di gratitudine per le attenzioni verso di me alla rabbia nel vedere mia madre servirla a tavola. Poi traslocammo, io diventai più grande, andai alle medie, e incominciai a rendermi conto di chi c’era in casa. I suoi stivali, in bagno, i suoi stivali alti sopra al ginocchio non mi erano più indifferenti. Dopo pranzo c’era un momento, c’era qualche minuto in cui passava lo spazzolone sul pavimento della cucina, si piegava in avanti e le vedevo le cosce, e i reggicalze, e le mutande. Facevo cose spericolate. Mi sedevo al tavolo, a merenda, con l’uccello dritto, e duro, e fuori, nascosto sotto il maglione, e a tavola c’era lei, vicino a me. Oppure mentre lei stirava io passavo e ripassavo in corridoio sempre con l’arnese impennato sotto la camicia o la maglia, guardandole le gambe. Era bella, veramente bellissima. Una volta si addormentò con il mio fratellino, sul letto, e io restai lì impalato, a guardarle quei reggicalze, quelle calze sottili color carne, quelle unghie dipinte di rosso, per un tempo infinito. Garzoni ed elettricisti facevano i galanti, nessuno era immune al suo fascino un po’ volgare, da paese, ma indiscutibilmente efficace. Quante volte ho pensato di addormentarla con il sonnifero e spogliarla, tutta, tutta, piano, fino al reggiseno, e agli stivali, e alle calze. Ho almanaccato su dosi di veleno per topi, pastiglie del papà per dormire, messe dentro il tè della merenda. Ho spiato dal buco della serratura. L'ho amata tutte le notti con il pensiero spogliandola per ore. Non ho mai trovato il coraggio di fare niente. Se almeno fossi stato capace di masturbarmi, in quel periodo, avrei trovato pace, invece no, imparai a farlo solo nell’estate dopo la terza media, e così le mie sere erano lunghissime, lunghissimi rituali del pensiero, attraverso i quali spogliavo quel corpo curando ogni dettaglio. Da allora il mio ideale di donna è quello e il reggicalze è il massimo dei miei pensieri erotici.

 

 

 

3.L’ENERGIA

 

 

 

 

 

Dicono che ho una quantità di energia superiore alla media, ed è vero, faccio tante cose assieme, continuo a progettare. Io penso che sia per tenere lontana la depressione. Durante il giorno prendo tre Lexotan da 1,5 e alla sera un Roipnol per dormire. Perché altrimenti non dormo, e senza le medicine, durante il giorno, sono in ansia. Dormo sei ore. Al mattino, quando mi sveglio, il giorno mi saluta con una tenaglia nello stomaco. Sento l’angoscia. Mi vengono in mente gli errori che ho commesso nel mio lavoro. Le persone che non vengono più da me e hanno scelto altri (sono un avvocato), poi penso alla giornata che mi aspetta. Io vorrei essere un pittore, un artista, uno scrittore. Come mi piacerebbe alzarmi per bere un bel caffelatte con pane burro e marmellata, e poi mettere su una tela il giallo, e l’arancione, il rosso, l’azzurro. Scriverei romanzi, e racconti, e poesie. Mi piacerebbe vedere trascorrere le ore, e i giorni, creando qualcosa che resta. Ho sempre avuto questa mania: creare qualcosa che resti dopo la mia morte. A otto anni, guardando alla televisione i telefilm di Lassie o Rintintin e vedendo i ragazzi-attori, mi dicevo “ho otto anni e non sono ancora famoso!”, e lo dicevo sentendomi preoccupato e triste, sentendo il tempo che stava passando. Ho continuato a dirmelo: a quindici, a venti, a trenta, a quarant’anni. Il papà diceva “sarai un grande avvocato, con la tua limousine”. La limousine era per lui il simbolo del successo, una grande macchina che parlasse a tutti della mia importanza. Non sono famoso. Al mattino mi aspettano l’angoscia e la prima pastiglia. Dicono che ho tanta energia e che devo imparare a ricordarmi che gli altri non sono come me. Metto tutta la mia energia nel lavoro e nella famiglia, ma vorrei essere da un’altra parte. Vorrei dormire in un letto morbidissimo, ascoltando i grilli. Potrei stare in mezzo alla campagna, ma non è necessario: anche in un grattacielo. Vorrei prendere il sole e stare nel verde, mettendo sulla tela i colori forti e lucidi che amo tanto. E vorrei leggere, e scrivere, e ancora leggere quello che mi piace. Invece sono qui, dentro la gabbia. Il massimo del successo, per me, è non rispondere in modo sgarbato, essere gentile, non offendere, non aggredire. Ho sempre due compresse nel taschino, due Lexotan da mandare giù nei casi di emergenza, quando mi accorgo di avere pronunciato una frase non perfettamente controllata. Sono un animale dentro la gabbia, un animale socialmente accettabile. La mia vita non è questa. Questa è la vita che mi hanno detto di fare, non la mia. A quattro anni si è stabilita la mia professione, poi basta, non se n’è più parlato. Faccio la psicoterapia, sono all’ottavo anno. La mia psicoterapeuta mi ha trasformato in un uomo inserito nella società, che controlla l’aggressività, che sta attento a quello che dice, che cerca di non ferire la moglie e non creare preoccupazioni nei figli. Lei è preoccupata quando perdo il controllo. Nella seduta successiva al fattaccio apre gli occhi spaventata, li fissa su di me, aspetta le mie parole, aspetta il racconto. Alla fine si riprende: no, non ho ucciso nessuno, anche questa volta è andata bene. E’ brava, e mi è affezionata, ma è una mamma, ormai, una seconda mamma che mi ha salvato dalla galera e dal manicomio, insegnandomi cosa la società si aspetta da me, cosa si aspettano da me i miei figli, mia moglie, mia madre. Poco a poco ho obbedito. Il mio sforzo di adattamento è stato ciclopico. Dal teppista violento che ero mi sono trasformato in un professionista affidabile. La mia aggressività, tanta, sterile, si è trasformata in tutta questa energia, che rende difficile agli altri lo starmi dietro. Ma in realtà mi stordisco di lavoro per non pensare. Rimando la mia vera vita: quando avrò da parte più soldi, quando i figli saranno grandi, allora potrò fare ciò che voglio. Intanto passano gli anni. Io incomincio a pensare a tutto ciò come ad una violenza. Voglio dire: se un uomo deve arginare la propria volontà, deve controllare il proprio autentico spirito con quattro compresse al giorno, la psicoterapia ed un continuo controllo, si dovrebbe pensare all’ipotesi che si stiano controllando le conseguenze, non curando le cause. Se ne parlo alla dottoressa, dice che sbaglio, perché non devo credere che sto facendo tutto questo sforzo per adattarmi ad una vita che non è la mia, e l’adattamento ci deve essere e ci dovrà essere sempre, anche con un pennello in mano o con una penna da scrittore, perché la vita è adattamento, e le persone, le cose, i fatti lo richiedono. Sarà. Cerco di capirlo, di dirmelo. Mando giù un altro Lexotan e tengo in piedi la gabbia. Per me è così. Io sento la gabbia.

 

 

 

 

 

4. LA RIVOLTA

 

 

 

 

 

Per me scrivere significa compiere l’azione più naturale che esista. Preferisco scrivere, piuttosto che parlare, e così spesso la gente resta sorpresa dal mio modo di agire, perché uso poco il telefono o il computer, preferisco la vecchia lettera, addirittura il foglio, il singolo foglio, per comunicare anche con persone che, in definitiva, si trovano a pochi metri di distanza. A scuola questa vicinanza rispetto alla parola scritta mi è servita sempre, e tanto, e ogni giorno io scrivo, fornisco spiegazioni attraverso parole su carta, e le persone lo apprezzano. A volte si concretizza però un effetto collaterale, cioè il fatto che gli altri, meno abituati di me ad usare la penna, vedono nella busta che ricevono un atto ufficiale, e così il mio bisogno di chiarezza, il mio divertimento, il mio credere che per gli altri sia meno faticoso e più concreto valutare e ricordare le parole scritte, piuttosto che un dialogo diretto o una telefonata, si trasformano in qualcosa di negativo, qualcosa che spaventa o crea un sospetto. Scrivere con facilità mi è servito al liceo classico. Dunque, adesso spiego come sono andate le cose. Non vi preoccupate , lo faccio volentieri, a me piace spiegare sui fogli. Fino alla terza media sono stato il primo della classe. Era necessario per fare contento il papà, l’ho già detto. Non ho detto, però, che avevo anche il problema di difendermi da ragazzi più grandi di me. Ne ricordo tre in particolare, il Mozzi, il Brusa e il Massetti. Avevano dentro una violenza brutale che riesco ad accettare e forse a capire, oggi, solo ascoltando i racconti del mio bambino più piccolo, che mi fanno capire come probabilmente i violenti siano sempre esistiti. Uno di loro tre è diventato un assassino, poi si è suicidato buttandosi dalla finestra quando le guardie lo portarono all’ospedale a trovare la nonna morente. Mi aspettavano fuori da scuola. Se potevo, li evitavo con lunghi giri del quartiere. Il Brusa mi sputava addosso e per tutti e tre ero comunque un sacco a cui dare pugni. Mi sono domandato spesso perché fossi io il bersaglio, o uno dei bersagli. Ascolto mia moglie che dice al nostro bambino, che ha lo stesso problema, anche se in misura minore, “sei uno stuzzicone, se vai per la tua strada nessuno ti fa niente”. Già, forse è così. Che il nostro figlio più piccolo sia dispettoso è vero. Probabilmente, a certe persone, a certi ragazzi, se si offre un minimo aggancio, se ad una minaccia si risponde con uno sberleffo, si dà anche l’opportunità di vederti come una vittima, per sempre, o come un antagonista, un ribelle, uno che non riconosce la supremazia della forza. Perché non so dire esattamente se ero un coraggioso o un vigliacco, ma so che il mio bambino più piccolo non ha paura. Quando siamo in piscina si fa la lotta. La mamma e la nostra gemellina sbuffano, si lamentano, si fanno da parte, e noi tre maschi facciamo inevitabilmente la lotta. Paco, il ragazzo più grande, ha 15 anni, è alto come me, è pure cintura nera di Karaté, è sicuramente forte, ma sta attento, è prudente, e sa che un mio sberlone fa male (io sono grande e grosso). Chicco, invece, che ha 11 anni ed è mingherlino, si butta, le prende, ma ride e si butta. Secondo me non è proprio un vigliacco. Allora, guardandolo, pensando a come è lui, io credo di potere dire che anch’io non lo ero, perché tutti dicono che lui e io siamo uguali, e “uguali” significa dispettosi, poco inclini a rispettare le regole, e aggressivi. Allora, torniamo agli anni ’60. C’erano i tre pianeti della violenza, che mi ruotavano attorno, più altri satelliti, meteore con le quali mi scontravo occasionalmente. Una volta uno di loro chiamò addirittura un amico più grande di molti anni, e questo amico me le suonò così forte, me ne diede così tante che, arrivato a casa sanguinante e stracciato, produssi un tale spavento nei miei genitori, che telefonarono al parroco per sapere se chi mi aveva pestato era normale o no. Probabilmente li stuzzicavo, in qualche modo. O mi odiavano perché ero elegante, e perché ero bravo a scuola. Oppure c’era in me una forma di autolesionismo che provocava i pestaggi. Insomma, avevo problemi anche sulla strada. Ad un certo punto mi ribellai. L’ho capito da poco. Mi ribellai alle regole, alla fatica di essere il primo, al lavoro in casa, ai genitori che egoisticamente continuavano a non vedere, a non capire le mie sofferenze, e mi ribellai ai ragazzi violenti, all’aggressività gratuita. Divenni una persona pericolosa. Avevo imparato come aggredire. I miei amici divennero giovani che infrangevano la legge, ladri scippatori. A 15 anni avevano abbandonato la scuola e lavoravano o cercavano lavoro, oppure frequentavano le scuole professionali. Io ero diverso perché studiavo al ginnasio, e non andavo neanche male. Al mattino ero seduto ai banchi di scuola, con i figli di professionisti, deputati e insegnanti, mentre nel pomeriggio trascorrevo le ore con ragazzi più grandi di me, le moto parcheggiate fuori dal bar Italo, progettando colpi. Non mi hanno mai interessato il gioco di azzardo e la droga. C’è stato chi invece è entrato fino in fondo dentro queste abitudini, e ha perso la macchina, l’orologio, i risparmi o la vita. Per me c’erano il mattino buono e il pomeriggio cattivo. Mi chiamavano “distinto” perché si vedeva che non ero come loro. Erano ragazzi semplici, ai più bastavano i soldi per la benzina e per il bar, ma c’era chi, come me, era assetato di cose, di segni di ricchezza, voleva prendere ciò che riteneva il mondo non gli avesse dato. Così determinati eravamo in pochi. I più si intontivano con il biliardo, le carte e le chiacchere, qualcuno con gli spinelli, e poi con l’eroina. Divenne mio amico un bel ragazzo, alto, moro, elegante. Il suo nome era Franchino. Solo dopo vent’anni, e dopo che non lo vedevo più da tanto tempo, venni a sapere, in occasione del suo funerale, che era omosessuale, e aveva vissuto a Milano con un coreografo. Ai tempi della nostra amicizia non me lo fece mai capire. E’ morto di AIDS. Questo non mi stupisce, perché era un imprudente, anche se durante i nostri colpi lui diceva che il più spericolato ero io. Veniva a prendermi con una grande macchina color smeraldo, e rideva sempre quando incrociavamo il farmacista del quartiere con la stessa auto, perché, diceva Franchino, il dottore lo guardava domandandosi “come si permette questo pivello di avere la macchina uguale alla mia?”. Veniva a prendermi sotto casa verso le due del pomeriggio. Mia madre era preoccupata perché non riusciva a capire o a sapere come trascorressimo il tempo, e soprattutto perché un giovane di 18 anni provasse interesse per me. Qualche garanzia era data dal fatto che il padre di Franchino era un poliziotto, anche se, in realtà, era un piccolo papà inascoltato, e umiliato dal fatto che i colleghi gli raccontassero che tipo di persona fosse suo figlio. Ma evidentemente anche lui era un padre che non voleva vedere. A tavola rimproverava e minacciava, ripeteva quali dovevano essere le regole di una vita giusta, ma poi, impotente, impaurito dall’idea di sapere la verità, non indagava, non vedeva. Io non capii mai che Franchino era omosessuale. Mi ha sempre rispettato, probabilmente ha avuto paura di perdermi come amico. Ripenso a tante situazioni in cui uscivamo con le ragazze e lui non combinava mai niente. C’era sempre una scusa. Una era troppo magra, l’altra troppo pulita (sì, troppo pulita), l’altra era troppo sua amica. Siccome era un bellissimo ragazzo, alle donne piaceva. Ma lui sembrava avere in testa solo i soldi. Voleva avere tanti soldi, e subito. Buttò lì la proposta di andare a Milano per frequentare un bar dove, diceva, le vecchie danarose pagavano i giovani per portarseli a letto, ma non realizzò mai quel progetto. Era amico di un personaggio famoso nella nostra città negli anni ’60 ’70. Si trattava di un piccolo imprenditore gay che esternava il proprio interesse per gli uomini con grande vitalità ed esibizionismo. Era stato un ladro, era un ricettatore, un informatore della polizia, e soprattutto era una persona chiassosa e volgare, dal linguaggio impietosamente scurrile e offensivo. Franchino era attirato da questo abominevole personaggio, e mi raccontava con occhi avidi come l’amante di questo individuo avesse ricevuto in regalo una Kawasaki 500. Franchino diceva che avrebbe preso volentieri il posto di quel ragazzo. Io pensavo che fosse una spacconata, e, al massimo, che il mio amico si dichiarasse disponibile per un puro assatanamento nei confronti del denaro. Non è che mi ponessi molte domande. Vivevo pericolosamente, senza pensare alle conseguenze. Qualche anno più tardi il chiassoso omosessuale morì accoltellato proprio dall’amante di turno, ma in quel periodo era uno dei nostri ricettatori. Pagava poco, ma a noi bastavano i soldi per uscire la sera e andare al ristorante. Ciò che potevamo procurarci in modo diretto, lo prendevamo. Ancora oggi rabbrividisco pensando ai rischi corsi. Una volta stavamo uscendo dalla Standa con una decina di 33 giri ciascuno, sotto i loden. Si trattava di dischi che avremmo rivenduto. Io notai una commessa che ci aveva osservato, e aveva capito le nostre mosse. Feci appena in tempo ad avvertire il mio complice. Tornammo verso gli scaffali dei dischi, facemmo scivolare il nostro bottino da sotto il cappotto, e pochi secondo dopo la commessa ci chiese di aprire i loden. Se ne andò delusa. Un’altra volta scassinammo una chiesa di montagna per rubare le offerte e qualche candelabro. In altre occasioni svaligiammo appartamenti, e ogni volta portavamo via un televisore, una radio, un Brionvega, qualche gioiello, per ricevere dal ricettatore cinquanta o centomila lire, il necessario per pagarci una cena da signori. Con scaltrezza e abilità entravamo in un negozio di abbigliamento per uscire con golf di cachemire, o facevamo mostrare alla povera commessa scarpe, e scarpe, per poi sottrarne due paia nella confusione. Eravamo spericolati. Una volta mettemmo un bidone della spazzatura su un cassonetto, per entrare in pieno giorno in una villetta. Un’altra rubammo un’Alfa sottraendo le chiavi da un armadietto degli spogliatoi dei campi da tennis, e scippammo un’anziana signora in pieno centro, davanti alla questura. Facemmo appena in tempo a percorrere qualche stradina e a mollare l’auto: subito dopo sopraggiunsero le auto della polizia. Franchino, del resto, era un ottimo pilota. La giovanissima figlia di un giornalaio era innamorata di lui, e così, quando non avevamo niente di più sostanzioso tra le mani, andavamo a trovarla, e mentre lui la baciava e la abbracciava (adesso, ripensandoci, mi rendo conto di non capire completamente quale e come fosse la sua sessualità) io arraffavo qualche banconota dalla cassa, e l’ultimo numero di Vogue. A volte l’entità del rischio era inversamente proporzionale al risultato. Capitò che rischiassimo tantissimo per rubare ad un sospettoso commerciante un telecomando, completamente inutile. Sceglievamo le gioiellerie in cui il proprietario o la proprietaria erano soli e anziani, e lì non era difficile sottrarre qualche braccialetto o una catenina d’oro. Non abbiamo mai messo a segno grandi colpi. C’era la destrezza e c’era l’imprudenza, il disprezzo per il pericolo e il rischio, ma non c’erano grandi ambizioni, perché un paio di mocassini alla moda, da rompere in pochi giorni sulle moto, o i Ray-ban, e trentamila lire in tasca, ci bastavano. La polizia sapeva. Sapeva più di quanto credessimo, ma non voleva rovinarci. Lui era il figlio di un collega e io il figlio di una buona famiglia, di un papà devoto alla chiesa e di una mamma che lavorava in un ufficio pubblico. Il maresciallo Monti parlò a mia madre, parlò a me. Fece capire bene che stavo rischiando grosso, che io avevo un futuro, mentre “quell’altro” era un pazzo spericolato. Mia madre pianse, mi implorò più volte di non rovinarmi; ormai era chiaro cosa facessi di pomeriggio, e lei era spaventata, e doveva tenersi tutto dentro, per non peggiorare il rapporto con mio padre. La polizia interrogò anche la mia ragazza, figlia di un architetto molto famoso in città. Lei era eccitata dal sapere quale fosse la mia vita non ufficiale. Me lo disse, incredulo e scandalizzato, il maresciallo, che aveva ottenuto da Barbara solo espressioni di meravigliata ammirazione nei miei confronti, ma nessuna informazione, perché lei sapeva poco. Forse anche lei non voleva vedere e sapere. Riceveva gioielli ed era contenta, ma non si poneva domande. Un venerdì sera, tornando a casa, trovai una convocazione da parte della polizia, per il lunedì. L’aveva messa la mamma, sulla mia scrivania. Trascorsi un fine settimana d’angoscia. Il maresciallo Monti aveva fatto apposta, voleva scuotermi con

un breve periodo di paura. Non dormii per tre notti. Continuai ad ascoltare sul giradischi un quarantacinque giri malinconico. Si intitola “Sereno è” e mi faceva pensare alla libertà perduta, alla serenità che avrei potuto avere e non avevo, ai professori del liceo che avrebbero saputo della mia incarcerazione, a Barbara, che non avrei rivisto. Il lunedì ci furono un interrogatorio e una predica, ma non venni arrestato. Ogni volta, dopo uno scampato pericolo, mi ripromettevo di smettere, di vivere nel grembo relativamente tranquillo della famiglia, ma non c’era niente da fare, ero in rivolta, volevo prendermi ciò che il mondo non mi aveva dato, contro ogni forma di autorità, contro ogni regola. E poi c’era la questione del primato. Fino a quattordici anni ero stato il primo. Al liceo incontrai compagni duri da battere, per cui, piuttosto che essere nessuno, scelsi il primato negativo. Di quel periodo ricordo le notti fuori, le cene fredde che trovavo tornando a casa tardi, la gran confusione, l’irrequietezza. Eppure ho superato un liceo difficile senza essere mai bocciato, e la scuola mi ha salvato. Mentre qualche amico finiva in prigione e due morivano di overdose, io partii per l’università. Torino mi ha salvato, la scuola mi ha salvato. Franchino venne a prendermi alla stazione, il venerdì sera, per qualche mese, ma poi io scelsi di tornare a casa raramente. Lo rividi al terzo anno di università, in un locale, la notte di Capodanno. Era con un gruppo di delinquenti. Mi apparve triste, il viso rideva, ma il volto no. Mi salutò scherzando e abbracciandomi. Al proprietario disse che avrei pagato io il loro conto.

 

 

 

 

 

5. IL CONFLITTO

 

 

 

 

 

Quando ti coglie l’amore, veramente ti raccoglie, sei dentro un canestro, una cesta, che è dentro la tempesta. Non voglio parlarvi d’amore, perché già se n’è parlato tanto, per gli artisti è pena, e pane, ma vi voglio parlare della lotta, di un vero conflitto, perché l’amore vero, quello unico nella vita, trasforma chi non lo è in lottatore, e chi già lo è in potenziale assassino, disposto a tutto. Io già avevo capito che lei sarebbe stata la mia donna. Lo capii quando avevo dodici anni e le nostre mamme si fermarono a parlare fuori dalla chiesa, una domenica mattina. Mi ricordo che sua mamma spiegava alla mia come fosse negativo avere la moquette in casa perché quando ci si vomita sopra poi è un grosso problema pulirla, e io la guardavo, lei teneva gli occhi bassi, aveva già i suoi lunghi capelli folti castani. Forse molti di voi credono che non sia possibile capire a dodici anni che quella è la tua donna, potrai non rivederla per un periodo di tempo anche lungo, ma c’è, sai che la rincontrerai, prima o poi starete insieme. Io vi dico che è possibile, è capitato a me. Ogni tanto la rivedevo in chiesa, o fuori dalla chiesa, così, occasionalmente e per brevi istanti. La ritrovai nella mia classe, in quarta ginnasio. Mi sembrò naturale. Era bellissima, alta, molto magra, con grandi occhi castani, gli zigomi prominenti, e la carnagione scura. All’inizio non fu amore. Nel corso del primo anno avevamo altro per la testa, eravamo ancora bambini, e poi c’era il professor Grazioli che martellava col greco e con il latino. La sua migliore amica Franca, mi faceva il filo. Un giorno, mentre preparavo la borsa alla fine dell’ultima ora, restammo nell’aula solo lei ed io, e mi disse “lo sai che sei bello?”. Io arrossii, senti arrossire anche le radici dei capelli. Sono sempre stato un timido. Non sapevo ancora che poi, negli anni, Franca, non corrisposta, sarebbe diventata una nemica. Trascorse il primo anno. Io intanto avevo fatto amicizia con Marco, un cinico compagno di classe, figlio disinibito di ricchi genitori divorziati. Viveva solo, in un ampio appartamento, andava a mangiare dai nonni, era molto bravo a scuola, ma la sua bravura dipendeva dalle tante ore di studio, trascorse anche di notte ad imparare le lezioni praticamente a memoria. Lui comprò la moto, alla fine della quarta ginnasio, un bel modello di Gilera cinquanta, giallo, costoso. Per lui era un premio: era stato promosso con voti alti. Io dovetti accontentarmi del modello più economico, per poi trasformarlo ed elaborarlo e arricchirlo all’infinito, allo scopo di renderlo pari a quello di Marco. Lui aveva molti soldi, i genitori si contendevano il suo affetto e sedavano i propri sensi di colpa a suon di banconote e assegni. Aveva diverse paia di stivaletti Barrows, i jeans Levi’s, una collezione di Lacoste, andava a sciare a Saint Moritz e d’estate in Inghilterra o al Club Mediterranèe. Non potevo competere con lui sul piano dell’eleganza e del denaro, ma sul piano della bellezza sì, perché non era bello. E in quinta ginnasio si scatenò la lotta. A tutti e due piaceva lei. Un giorno, un pomeriggio, Marco ed io andammo a Milano. Lui mi portò in un negozio alla moda. Io mi ero procurato un po’ di denaro e comprai un paio di Levi’s, un dolcevita grigio e un giubbotto di camoscio marrone. Stavo bene, ero elegante. Il giorno dopo, avendo perso il pomeriggio, ci presentammo alle lezioni tutti e due con la mano destra fasciata, raccontando di un incidente motociclistico. Non ci credettero, ma evitammo l’interrogazione di matematica. Quel giorno c’era assemblea generale. Negli anni ’70 la scuola era molto politicizzata, era di moda essere di sinistra, i professori erano in gran parte di sinistra, lo erano anche gli studenti del liceo classico figli di notai e con le fuoriserie. Le assemblee erano comizi politici con mozioni a favore del Cile e della classe operaia. Noi eravamo dichiaratamente di destra. Io non ho mai tradito, in seguito, questa mia posizione politica, anche se non ero e non sono di certo uno sfegatato. Beh, quel giorno andammo all’assemblea, c’era il solito capo dei rossi con il megafono, c’erano i figli dei primari e degli avvocati con gli eschimo. Io ero bello, avevo i vestiti nuovi, sapevo di essere attraente. Lei mi guardò, mi osservò, Franca mi fece i complimenti, mi chiese di sedermi accanto a loro, per terra, in palestra. Ecco, ero seduto accanto a lei. Mi giungevano le parole urlate nel megafono “mozione&ldots;&ldots;.. capitalisti&ldots;&ldots;&ldots;bastardi&ldots;.sciopero&ldots;”, ma non le ascoltavo, non tanto perché erano le solite menate gridate da “compagni” poco credibili, ma perché ero lì, vicino a lei, lei mi sorrideva. Lei era, credo sia ancora di sinistra, almeno teoricamente era convinta del fatto che l’idea politica giusta fosse quella. Partecipava alla vita del movimento studentesco, di cui il fratello era un rappresentante. Negli anni successivi questa netta differenza di vedute, l’intendere la vita in modo diverso, non avrebbero reso il nostro rapporto più facile, anzi, però oggi penso che fu una bella prova di amore, perché lei era al centro delle attenzioni di molti ragazzi di sinistra anche più vecchi di noi, e penso che, in definitiva, se scelse me dimostrò anche coraggio, perché è vero che al cuore non si comanda, e lei mi volle bene, ma è anche vero che quando vivi in una famiglia molto politicizzata, con un padre e un fratello maggiore che sono rappresentanti di un partito, e vivi dentro una scuola anch’essa politicizzata, e tu sei in accordo con questo sistema, e sai che gli altri, la tua stessa famiglia, chi parla a tuo padre e ai tuoi fratelli, chi ti incrocia lungo i corridoi del liceo, sanno, sapranno che colui che hai scelto ha idee politiche dichiaratamente e poco opportunamente opposte, allora nella scelta che fai c’è del coraggio, e c’è determinazione. I giorni trascorrevano. Marco ed io ottenevamo buoni risultati a scuola. Non so bene cosa significhi oggi frequentare il liceo classico, ma ai miei tempi significava dovere trascorrere tutto il pomeriggio, dopo le lezioni, sui libri, e se non era il pomeriggio doveva essere la notte. Lei faceva fatica. Allora vigeva ancora il sistema in base al quale se arrivavi a fine anno con alcune materie nelle quali eri insufficiente, affrontavi i cosiddetti “esami di riparazione”, e questo significava studiare anche durante l’estate per poi essere giudicato in settembre, e passare o non passare all’anno successivo. Lei non otteneva buoni risultati. Avere gli esami di greco e di latino fu quasi una regola, nei cinque anni di liceo. Durante i compiti in classe (le attuali verifiche) chiedeva a Marco e a me di aiutarla, e noi lo facevamo. Il professor Grazioli guardava torvo, da sopra gli occhiali, da sopra il giornale, con la sua nazionale senza filtro tra le labbra, e noi stavamo spianati sui banchi, riparandoci dietro le schiene dei compagni davanti, lei in mezzo, che riceveva, da noi, bigliettini. La aiutavamo volentieri, le volevamo bene. Poco a poco prese tuttavia piede, in Marco e in me, la necessità di sapere, di capire e stabilire chi lei volesse scegliere, chi era “il scelto”. Del resto, quel gioco a tre, pur innocente, pur ingenuo, all’inizio, riservava anche delle pugnalate feroci. La mia famiglia aveva una casa in montagna, e con la mamma, mio fratello e le mie sorelle vi trascorrevo i fine settimana. La villa di lei è in collina, proprio sulla strada che conduce al paese dove c’era la nostra seconda casa. Non potete immaginare cosa significasse per me, la domenica sera, affrontare le ultime curve in discesa, verso la città, e temere di vedere, e poi vedere la moto di Marco parcheggiata fuori dalla sua casa. Non dicevo niente alla mamma (forse lei capiva, intuiva) ma sentivo un granchio dentro lo stomaco, un gran dispiacere, per quell’intruso, quell’amico più bravo a scuola e più ricco, ma fortunatamente meno bello di me, che si poneva su una strada per noi già tracciata, per noi già decisa dal destino, e da anni, secondo il mio parere. Lo stesso accadeva quando fuori da scuola era lui a portarla a casa in moto, o al mattino, nell’andare. Ero geloso, stavo male. Intanto attorno a me, attorno a noi trascorrevano i giorni, la solita bellezza della nostra valle si esprimeva nel bianco invernale e nel giallo e rosso dell’autunno, in alto, dietro le montagne, tornava quell’azzurro gelido e deciso che io ho visto e vedo solo in Valtellina, e che mi incanta sempre, oggi, ma allora noi non guardavamo attorno o in alto, c’era il presente da affrontare, e mentre i nostri compagni vivevano la loro adolescenza in condizioni presumibilmente normali, affrontando i prevedibili conflitti con i genitori, per Marco e me c’era questa sofferenza aggiunta. Un pomeriggio Marco decise di stabilire chi fosse quello scelto. Mi disse se ero d’accordo con lui sulla necessità di chiarire chi, dei due, era il preferito. Ci recammo, con le moto, alla casa del nostro bene, e lei ci accolse con atteggiamento sorpreso, con un interrogativo negli occhi. In quel confronto, ma proprio già nei primi attimi di quell’incontro a tre, si vide la differenza tra me e Marco. Lui voleva stabilire una proprietà, io guardavo lei come si guarda una moglie, sentivo la naturalezza del nostro stare insieme, non volevo che subisse un processo e guardavo con amore il suo volto. La mossa sbagliata di Marco fu il decidere di parlare lui. Pur prendendola alla larga, arrivò al dunque, e questa sostanza si concretizzò in un concetto che praticamente suonava così: “ ma tu ci stai sfruttando per avere un duplice aiuto nella scuola, in realtà non ti interessa niente di noi e ci usi?”. Lei si scandalizzò, disse che era un sospetto cattivo, e in quel momento decise. Il mio silenzio venne da lei interpretato come un non essere d’accordo con l’impostazione data da Marco, e in effetti non ero nè in accordo nè in disaccordo, semplicemente per me era naturale che lei fosse mia e io suo, dei due ero quello che le voleva veramente bene, e il mio amore mi fece stare zitto, evitò che giudicassi, parlassi, esprimessi un sospetto, in quel momento il mio amore fece giustizia. Lei arrivò naturalmente a me, intendo dire: in modo naturale. Iniziò la nostra storia, la storia di una vera coppia. Via via il nostro rapporto divenne stretto, possessivo, immaturamente rigido. Mi telefonava in un orario variabile, tra le 20 e le 22, ma la sua non era una vera telefonata, era uno squillo, ed io, a prova del fatto che in quel momento ero in casa, il giorno dopo dovevo riferire l’orario preciso del suono. Io ero molto disturbato, ero una persona irrequieta, non era facile vivere con me. Avevo, ed ho, una notevole capacità di affetto, ma in quei tempi la usavo male. Ero aggressivo, mi rabbuiavo se mi passava una matita senza sorridermi (dal terzo anno di liceo i banchi di Marco, il mio e il suo erano uniti, nella fila in fondo all’aula), e diventarono leggendarie le nostre chiassate in classe, o, meglio, le mie. Era un rapporto così esclusivo, un sentimento così forte, che superava le inibizioni. Capitava che, spaventando i compagni di classe, io spostassi violentemente il banco per staccarmi dal suo. Capitò che lei venisse mandata in prima fila per essere sottratta ai miei istinti di aggressivo e geloso amore, e io le lanciassi un righello davanti agli occhi sbalorditi di un professore. Venivamo presi in bagno a litigare, e riportati ai nostri posti. Naturalmente, nel corso dei colloqui, i professori non mancavano di deprecare il nostro comportamento, parlando con mia madre e con la sua. Consigliavano, prima velatamente e poi apertamente, di separarci, ma non era facile. Una volta, con l’accordo di tutti, genitori ed insegnanti, venni spedito dai parenti della Sicilia, prima che finisse la scuola, a maggio, ma scappai, letteralmente scappai dall’isola dopo una settimana, trascinandomi dietro una mia sorella, che aveva l’ingrato incarico di fornirmi la compagnia e di controllarmi. Fu una storia d’amore travolgente. Io non ammettevo ostacoli, ne allontanamenti, né rivali. Una volta Marco, approfittando di uno dei tanti momenti di crisi, tornò all’attacco, le diede un passaggio in moto. Quella sera stessa appiccai il fuoco allo zerbino e alla porta d’entrata del suo appartamento. Fortunatamente, prima di andarmene, avvertii attraverso il citofono il portinaio, gli dissi che nell’attico si era sviluppato un incendio, e questo salvò la casa. Franca, l’amica della mia ragazza, non aveva digerito il fatto che in precedenza non avessi ricambiato le sue attenzioni, e trovava il modo di mettere sempre una parola cattiva. Una sera andai sotto la sua casa e lanciai un cubo di porfido contro la sua finestra. Infransi il vetro, provocai un grande spavento. Il giorno dopo mi chiamò un avvocato, mi disse al telefono che “mi conveniva andare nel suo studio”. Vi trovai il padre di Franca. L’avvocato disse che doveva difendere la famiglia della mia compagna di classe, mi disse che sapeva tutto, bleffò affermando che “dei testimoni, quella sera, avevano visto entrare me ed altri due ragazzi nel bar sotto la casa di Franca, poco prima del lancio della pietra”. Si aspettava credo che dicessi qualcosa tipo “non è vero, in ogni caso ero solo”, cadendo nella trappola. Non ci cascai. In ogni caso, oggi capisco la preoccupazione del padre, e il suo tentativo di mettere un freno alla mia aggressività. Tuttavia Franca non demordeva, fece in modo che suo padre parlasse al padre della mia ragazza, benpensante personaggio cittadino, delle mie poco raccomandabili compagnie. Misi due bombe molotov e una manciata di fiammiferi sullo zerbino della casa di Franca. Quella volta non si rivolsero all’avvocato. Capirono che era il caso che la ragazza smettesse di rompere i coglioni, perché il mio messaggio era chiaro, e faceva paura. Insomma, portavo avanti la mia vita con la determinazione che ho sempre avuto, distribuendo la mia energia alla scuola, agli amici pericolosi del pomeriggio e al mio rapporto d’amore. Sì, perché restò un amore grandissimo. Lei veniva criticata apertamente, più di una volta nei corridoi del liceo, mentre passavamo, qualche compagno figlio di papà le domandò provocandoci “ ma stai con questo fascista?”. Adesso sono quasi normale, ho una splendida, equilibrata moglie e tre figli che adoro, adesso che conosco meglio di allora i sentimenti, ripenso con tenerezza alla sua forza, perché ci volle forza per resistere, dentro un liceo difficile, osteggiata nel suo rapporto da tutti. In una situazione di quel tipo due persone mature avrebbero stretto un’alleanza, avrebbero vissuto solidali, forti l’una per l’altra, ma noi non eravamo maturi, lei era forse un po’ civetta, stimolava la mia gelosia, io ero un adolescente che viveva a muso duro ogni esperienza, ogni rapporto, e così il conflitto coinvolse ogni campo, ogni settore e momento della nostra vita. Mi viene da piangere se penso a quando, a volte, mi diceva, al mattino, salendo le scale della nostra scuola, “oggi stiamo tranquilli?”. Me lo chiedeva con occhi carichi di speranza e preghiera. Io promettevo, mi ripromettevo di tutelarla da me, ma non ci riuscivo. Momenti belli? Ce ne sono stati, sì, e tanti, ed erano momenti in cui c’era un possesso assoluto, e io avevo la consapevolezza di vivere un rapporto unico per me, non ripetibile in questa mia vita. Sapevo che, con la conclusione del liceo, sarebbe finita la nostra storia, che si era retta sulla inevitabilità dei nostri incontri, nel senso che non avevamo mai fatto qualcosa di così grave o socialmente inaccettabile da portare il mondo attorno a noi a separarci, affrontando anche disagi pratici, come il cambiamento della scuola o della città, ma per me era chiaro che, dopo la maturità, l’esaurimento del rapporto, provocato dalle lotte quotidiane, e la determinazione della sua famiglia ad allontanarla da me, ci avrebbero separati. Io fui quello, di tutta la classe, che più di ogni altro visse con tristezza la fine del liceo, la visse come l’autentica fine di un periodo irripetibile. Io ho proprio sentito molto chiaramente che finiva la giovinezza, che si stava diventando grandi, e lo percepii con grande malinconia. Il nostro rapporto, tuttavia, non finì bruscamente. Lei fu mandata presso una sede universitaria molto lontana dalla mia. Continuammo a vederci per un anno. Il nostro amore continuò a mostrarsi comunque forte. Macinammo migliaia di chilometri per stare insieme una domenica, una notte. Quando eravamo nella nostra città e arrivava il momento in cui lei partiva, dalla mansarda in cui stavo a studiare salutavo e mandavo baci al suo braccio che sporgeva dal treno. Poi tutto finì. Lei trovò un uomo non bello ma molto più vecchio, che sicuramente le diede quella serenità che non aveva trovato con me. Mi rendo conto del fatto che come ho sempre saputo che sarebbe stata mia, così ho sempre saputo che l’avrei sicuramente persa. A sedici anni pensavo a quando l’avrei rivista, magari al cinema, con suo marito ed i figli. Probabilmente non augurerei ai miei figli una storia come quella, perché di tranquillità e di spensierata giovinezza (ma esiste?) ne tolgono parecchia. Però è stata un esperienza grandissima, irripetibile. Guardo mia moglie, oggi, e penso a quella canzone di Battisti che dice, riferendosi alle ragazze precedenti, che lui le ama perché sono andate via “per lasciare il posto a te”. Mia moglie è il porto migliore dentro cui poteva ripararsi la mia nave in tempesta. La ragazza del liceo se n’è andata, come altre dopo di lei. Cosa penso quando ricordo quei tempi? Penso ad un fuoco, ad un uragano, ad un oceano, ad un coltello che taglia, ad una parte della mia adolescenza che non augurerei a coloro ai quali voglio bene, ma a me, a me, se rinascessi, sì.

 

 

 

 

6. LA CREATIVITA’

 

 

 

 

 

La creatività è l’essere capaci di produrre e costruire qualcosa di proprio, e sentirsi contenti di questo, ed essere contenti quando questa necessità trova uno sfogo e un modo per esprimersi. Una donna è creativa quando partorisce un figlio, ma anche educarlo e crescerlo portandolo verso il lavoro e verso il partner o la partner più adatta è creatività. L’essere creativi, secondo me, è il massimo di ciò che si possa avere dalla vita. Io sono convinto del fatto che le persone più fortunate siano quelle che creano, che sanno costruire e sono felici per questo, di questo. Mi riferisco ai pittori, agli scultori, agli scrittori, ai poeti, agli sceneggiatori, ai registi, ma anche agli ebanisti, naturalmente ai musicisti, a chi lavora il ferro battuto, ai fotografi, agli orafi, a chi compone una nave dentro una bottiglia, a chi disegna vestiti, a chi scrive canzoni, a chi progetta giardini, a chi inventa nuovi piatti, ai pasticceri, a tutti coloro che si svegliano al mattino e trascorrono le ore della giornata, e della vita intera, creando. Penso a loro come a persone speciali e fortunate. Il costruire un’opera, il toccarla, vederla crescere, mettere le mani dentro i materiali, sentirne i profumi, scegliere i colori, stendere questi colori, rifinire, decorare, verniciare, correggere, cancellare, copiare in bella, smussare, lasciare asciugare, cercare una rima, impregnare, martellare, mettere e togliere, addolcire o salare, sviluppare, inventare, raccogliere, incorniciare, sono tutti atti che elevano l’uomo. Lo elevano sopra la sopravvivenza, sopra le bollette della luce, e del gas, e sopra i mutui, e i debiti, le malattie e i litigi. Lasciare qualcosa dopo la morte: ecco il motore di ogni artista. Può saperlo, o esserne all’oscuro, ma questo è il vero motivo per cui costruisce le sue opere. Esorcizzare la morte: questa è la necessità. Se dopo la morte resta qualcosa che gli altri guardano, vedono, leggono, mangiano, ammirano, copiano, studiano o prendono ad esempio, allora la morte è vinta. Almeno così si pensa. Io ero un creativo, ero un poeta. A vent’anni avevo scritto alcune raccolte di poesie. Mi piacevano, abbastanza. In ogni caso, niente mi piaceva più che scrivere, e vedere accumulare sul tavolo i fogli pronti, vedere una raccolta che prendeva vita. Pensavo di vivere facendo il poeta e lo scrittore. Ma non ero felice, anzi le mie poesie erano partorite dal malessere. Ero irrequieto, asociale. Vivevo con Claudia in un monolocale. Studiavamo tutto il giorno. Ci incontravamo la domenica sera, lei veniva a prendermi alla stazione, con il cane Esmeraldo, che avevamo raccolto dalla strada. Portavamo le provviste, e poi restavamo praticamente segregati fino al venerdì sera, uscendo solo per comprare qualche scatoletta, o per un po’ di footing in primavera, a volte un film al cinema, d’inverno. Eravamo in buona fede, volevamo studiare. C’era l’esame di fisiologia, e nel corso di laurea in medicina è un esame importante, un blocco per molti. Ci avevano detto che occorreva un anno di preparazione, e così ci convincemmo che fosse giusto trascorrere un anno su quel maledetto libro. Lo leggemmo e rileggemmo, lo voltammo da ogni parte, trascorremmo mesi e mesi in quindici metri quadrati, immersi nel lavoro di metterci in testa quelle formule. Arrivò il momento in cui scoppiai. Una sera Claudia salì al piano sopra, di quella piccola casa in periferia. Vi abitava uno studente del nostro stesso corso, più giovane, ma più bravo di noi. Claudia si rivolse a lui per chiedere una spiegazione, mentre io ero ad occhi chiusi sul letto. La sentii entrare nell’appartamento al piano superiore, e sentii chiudere la porta a chiave. Attesi. Il tempo non passava mai. Trascorse mezz’ora, poi un’ora. Io pensavo di tutto: ero umiliato dal fatto di non essere io colui che poteva fornirle le spiegazioni che le servivano, e dal fatto che dovesse chiederle ad uno studente più giovane, ed ero geloso, pensavo che loro fossero a letto, credendo che dormissi (in realtà da qualche settimana assumevo dei calmanti prescrittimi per il mio nervosismo, ed ero spesso intontito). Salii le scale, bussai alla porta. Lo studente venne a aprire. Entrai cercando Claudia, la trovai seduta sul divano. La afferrai per un braccio e la trascinai verso la porta urlando “cosa facevate con la porta chiusa?!?”. Ero furibondo. Claudia si vide scaraventare fuori, mentre con una mano reggeva un lembo del libro di fisiologia, mentre lo studente cercava di spiegare dicendo in modo mite e preoccupato “ma scusa, è un’abitudine, io chiudo sempre la porta a chiave”. Claudia riuscì a liberarsi e scappò, scese le scale, io dietro ringhiando. Uscii sulla stradina sterrata. Dietro di lei il cane Esmeraldo, e poi io, che inseguivo tutti e due. Presi a calci il povero cagnolino, che volò in aria tristemente sbalordito, e in pigiama continuai la mia corsa dietro Claudia. Lei correva chiedendo aiuto, correva terrorizzata, mettendo tutte le proprie forze in quella fuga. Io come un pazzo, con le ciabatte, poi senza ciabatte, con il pigiama aperto. Attraversammo un passaggio a livello. In fondo alla strada c’erano alcune case ed un bar. Claudia entrò. Io dietro. Claudia si riparò dietro un gruppo di anziani giocatori di carte. Lei piangeva disperata e spaventata. Ricordo bene l’atmosfera squallida di quel bar immerso nella nebbia, ricordo la puzza di vino, e il fumo, e i quattro avventori che guardavano lei e me, lei e me, stupiti, due con la sigaretta tra le labbra. Claudia chiese al proprietario, che asciugava bicchieri dietro il bancone, di aiutarla, di proteggerla da me. Io facevo paura. Lui minacciò di chiamare la polizia. Mi resi conto di quanto stava accadendo, della tristezza di quella situazione, percepii tutto lo squallore di quel momento, mi girai, e, scalzo, uscii dal locale, accompagnato dalle lacrime di Claudia. Tornai lentamente verso la nostra casa, sulla stradina sterrata, accompagnato da Esmeraldo, che mi aveva perdonato, e mi guardava da sotto in su, come per chiedermi perché me l’ero presa con lui e per sapere se ero ancora arrabbiato. Preparai la borsa, andai in autobus alla stazione e tornai nella mia città. Dopo qualche giorno incontrai Manuel, il mio amico più caro, con il quale avevo trascorso i tre anni delle scuole medie e i cinque del liceo. Manuel era, ed è rimasto, una persona sensibile, dolce e generosa. Gli parlai di ciò che era successo, chiedendogli di riportarmi da Claudia, perché ero profondamente dispiaciuto e volevo il suo perdono. Lui accondiscese, non si fece pregare, anche se il viaggio di andata e ritorno richiedeva mezza giornata, ma mi ricattò, benevolmente mi pose una condizione, e cioè che io, in cambio, iniziassi una psicoterapia, come aveva fatto lui. Io accettai. Lui ricucì il mio rapporto con Claudia (non è un caso che oggi sia un grande avvocato) ed io mantenni la promessa. Il primo appuntamento con la dottoressa fu presso l’ex-manicomio della mia città, quello che veniva chiamato “la casa rossa”. Lì sarei tornato centinaia di volte, per centinaia di sedute. I matti passeggiavano liberi nei viali. Uno chiedeva le sigarette, un altro “monete di ferro”, un altro ancora mi apostrofava violentemente urlando ripetutamente “e a me non pensi?”. La mia psicoterapeuta è una donna molto magra e sempre in ordine. Ha gli occhiali. A quei tempi, sul taschino del suo camice c’era scritto “primario”. Le sedute erano al lunedì mattina, e per me duravano quattro ore. La dottoressa lavorava gratis, un paziente al giorno, perché, come mi spiegò, dopo l’apertura dei manicomi non c’era quasi niente da fare, dati i sedativi alle pazienti croniche della casa albergo restava molto tempo, tempo che lei dedicava ai pazienti che giudicava recuperabili, dotati della volontà e dell’energia necessarie per cambiare. Del resto, non avrei potuto pagarla. Dopo la seduta, partivo per l’università. La dottoressa volle leggere le mie raccolte di poesie, le analizzò con sua madre, insegnante di lettere, e le giudicarono molto belle. Mi disse che era disposta a curarmi, lo avrebbe fatto volentieri, convinta di riuscire a portarmi a vivere meglio, col tempo, ma disse anche che avrei perso la capacità di scrivere in modo creativo. Non sarei stato più un poeta. Volle dirlo anche a mia madre. Si trattava di scegliere: dovevo decidere. O essere un poeta, forse bravo, ma molto lontano dalla serenità, o un medico meno tormentato, ma incapace di scrivere. Un po’ incredulo, scelsi la seconda soluzione, e iniziarono gli anni della cura. Sono trascorsi ventitré anni, e nel corso di otto di questi ho seguito la psicoterapia. Recentemente Manuel mi ha detto “non si può dire che tu non abbia mantenuto la parola data”. Ho scritto centinaia di articoli scientifici, ma nessuna poesia. Poi, lentamente, il desiderio e la capacità di scrivere in modo creativo sono tornati. A Bologna ho incontrato una persona, Alessandro, che partecipava con mio figlio ad un corso di regia teatrale. Mi ha detto “se non fai ciò che ti senti di fare, quello che vorresti essere comunque non muore, si fa sentire, viene fuori, e soffri, stai male”. E’ vero. La mia creatività è tornata, fluisce dentro la mia penna biro, l’ho ritrovata, e mi sento meglio.

7. LA FOLLIA

 

 

 

 

 

Voi pensate come me alla vecchiaia, al progressivo invecchiamento, al fatto che si ha davanti meno tempo di quanto è trascorso? Io mi preoccupo soprattutto per l’invecchiamento del cervello. Noi sappiamo che, con il trascorrere degli anni, il corpo umano subisce dei cambiamenti, e così le arterie si irrigidiscono, le ossa diventano più fragili perché si riduce il contenuto di calcio, e il cervello, appunto, cambia. La perdita dei neuroni conosce un incremento, e il peso dell’organo diminuisce. Fino ai 25 anni una persona perde circa 10.000 neuroni ogni giorno, tra i 25 e 45 si arriva a 100.000, e dopo i 45 anni la perdita si calcola attorno alle 166.000 cellule cerebrali al giorno. Ma ci pensate? Anche il peso diminuisce. Paragonato al peso medio dell’età di trent’anni, a settanta è il 5% in meno, e a 90 si è ridotto di un quinto. I neuroni sono cellule che non proliferano e non si riproducono, lo fanno solo nell’embrione, e vanno incontro ad una diminuzione che non è uniforme. Purtroppo il sistema limbico subisce in varia misura la perdita di neuroni, e il sistema limbico è fondamentale per tutte le funzioni collegate all’apprendere, al memorizzare ed a controllare l’emotività. Quindi dopo i 25 anni noi abbiamo sempre meno cervello. E via via perdiamo decine di migliaia di cellule, ogni ora abbiamo meno cervello. Vorrei dire una battuta del tipo “ho sempre detto che ci sono tanti giovani migliori e più maturi di tante persone anziane”, e direi il vero, è una frase che ho pronunciato spesso, ma in realtà sono rattristato da questi dati, dai numeri, dalle perdite continue, incessanti, irrecuperabili, di parti del nostro organo guida, quell’organo che veramente, per ciò che contiene, ci differenzia dagli altri animali, perché se paragoniamo la nostra struttura muscolare a quella di un giaguaro, non c’è storia, se confrontiamo le nostre capacità visive con quelle di un falco siamo perdenti, e la nostra stessa dentatura, messa a confronto con quella dello squalo, continuamente in grado di sostituirsi, la nostra povera dentatura cariata esce sconfitta, e così via, perché praticamente ogni caratteristica anatomica del nostro corpo trova in natura un esempio migliore, un analogo più sviluppato, ma per il cervello no, le cose vanno diversamente, nessun cervello di animale progetta veicoli, o crea poesie, o fa quelle milioni di cose di cui è capace l’uomo. L’uomo si differenzia per il suo cervello. Vive su questa terra come un imperatore tra gli altri esseri viventi, e ciò che lo rende il grande controllore, manipolatore, creatore e trasformatore si rimpicciolisce ogni giorno. Non posso crederci. Se penso al concetto “ogni ora ho meno cervello” resto sbigottito e spaventato. E penso che c’è bisogno di una vita lunga, penso alle parole di Renato Zero che dice “il più figo, amico, è chi resisterà&ldots;&ldots;”, penso che si deve fare, in questa sola vita. E penso a Francesco. Lo conobbi all’ospedale di Chiavenna, poco dopo la laurea. Eravamo quindici medici, quasi tutti al primo incarico, e ci trovavamo lì per spartirci i turni di guardia. Francesco era più vecchio di noi di dieci anni, nell’ospedale era considerato uno sfigato, uno che quando i pazienti sapevano che c’era lui in pronto soccorso chiedevano se non era possibile essere visitati da un altro medico. Da noi era visto da una parte con soggezione, anche perché non si curava, era trasandato, e finiva col mostrare non dieci, ma vent’anni più di noi, e da un’altra con un senso di commiserazione, del tipo “povero cristo, alla sua età è ancora qui a spartirsi i turni di guardia con chi è appena laureato”. Francesco sembrava fare di tutto per mostrarsi antipatico. Diceva che lui, in qualità di titolare anziano, aveva diritto a dieci turni di guardia, mentre noi solo a otto. Spesso, nel corso delle riunioni mensili, sorrideva e faceva delle battute incomprensibili, parlando tra sé. In ogni gruppo c’è un elemento debole, sul quale si scarica l’aggressività del gruppo stesso, e per noi era Francesco, che confermò tutti i giudizi negativi che già esistevano e avevano fatto di lui lo zimbello dell’ospedale. Diventai il suo unico amico, e questo accadde perché tutti e due amavamo smisuratamente la lettura. Durante i cambi di guardia, nei momenti in cui, alla fine di un turno, un collega si preparava per andarsene e l’altro arrivava con la propria borsa e ciò che gli serve per affrontare la notte o il fine settimana, notò che avevo sempre con me alcuni libri. Così una sera aspettò che l’ospedale fosse deserto e silenzioso e venne nella camera destinata ai medici di guardia, bussò timidamente, e mi chiese cosa stessi leggendo. Come sempre, anche in quel tempo leggevo di tutto, ma quasi sempre romanzi. Francesco possedeva conoscenze sconfinate sul cinema e sulla letteratura. Preferiva la saggistica. Iniziò così un’amicizia veramente unica, destinata a concludersi in modo tragico, ma bella, com’è bello, quando si ha tutto, una famiglia, una donna che ci vuole bene, una casetta colorata, fare compagnia ad un uomo solo. Francesco era solo, lontano dai genitori, senza conoscenti. Gli unici contatti che stabiliva nelle sue giornate erano quelli con i pazienti e con i colleghi, e in ambedue i casi erano scarsi. Trascorrevamo le ore della notte a raccontarci le trame dei films e libri. Lui arrivava verso le dieci di sera, con i suoi giornali nelle tasche della giacca sgualcita, con due o tre libri sotto il braccio. Con l’andare del tempo si creò un rapporto di confidenza, per cui capitava anche che dopo un po’ ognuno riprendesse le proprie letture, interrompendosi ogni tanto per citare all’altro una parte curiosa o interessante del testo. Francesco all’inizio era sospettoso come un cane tante volte bastonato, se riceveva un aiuto mi chiedeva “perché lo fai?”, in fondo non smise mai di domandarsi quali secondi fini avesse la mia amicizia, tanto non era abituato a ricevere attenzioni gratuite. Quando squillava il telefono ed io uscivo per la visita a domicilio, lui veniva con me, e al letto del paziente elargiva consigli e suggerimenti. Imparai ad apprezzarli, e a capire che ne sapeva molto più di me, in quanto alla medicina. Era fondamentalmente avaro, ma gestiva i soldi in modo sconsiderato, come tutti coloro che non devono realmente fare i conti, e ai quali basta, in pratica, far bastare il denaro tra uno stipendio e l’altro. Non aveva una donna, gli piacevano i locali notturni, e così veniva spesso spennato, mi raccontava di bottiglie di “champagne” pagate come oro fuso, e rideva tristemente del suo stato di cane randagio, disposto a farsi prendere in giro dai soliti furbi e dalle solite furbe per quel bacio rubato, qualche carezza spinta, qualche centimetro di pelle di donna toccato con il portafogli in mano. Rideva tristemente. Dietro ai suoi occhiali spesso c’erano lacrime, che sembravano nascere dalle risa, ma erano di disperazione. Mia moglie ed io lo accoglievamo volentieri in casa, e molte volte si fermava a pranzo. Ricordo un capodanno in cui capitò nella nostra casa in montagna (noi avevamo già il nostro primo figlio) e, come un vagabondo senza nessuno sulla terra con cui festeggiare, si unì a noi per lo spumante e il panettone. Vicino al fuoco acceso nel camino, lui si riscaldava, infreddolito, ed io vedevo i suoi occhi guardare la nostra famiglia e ciò che c’era attorno, con un misto di tristezza e di invidia. Dovetti dimettermi da tutti gli impegni di lavoro voracemente messi assieme quando arrivò la chiamata per il servizio civile. Dovevo trascorrere un anno presso l’istituto salesiano della mia città. Francesco veniva a trovarmi, mi offriva una preziosa compagnia nelle lunghe ore in cui dovevo stare vicino al telefono. Io leggevo Simenon, lui Citati, e la noia mi sembrava più sopportabile. Alla fine dei dodici mesi mi chiese se volevo mettermi in società con lui per aprire uno studio medico. Accettai, smanioso di riprendere a lavorare. Gli anni successivi, di collaborazione, non furono facili. Come ho detto, Francesco era avaro, e anche disordinato, e così dovevo continuamente discutere per stabilire chi doveva comprare il kerosene per il riscaldamento e chi doveva pulire. Intanto lui cominciava a mostrare i segni di una malattia mentale. Pretendeva che leggessi pagine di giornale sulle quali, diceva, tra le righe c’erano messaggi per lui, che indicavano quando sarebbe stato ucciso il Papa o quando sarebbe stato sferrato un attacco da parte degli extraterrestri. Povero Francesco, la sua bella testa piena di cultura e di informazioni stava impazzendo, forse per la troppa solitudine, per la grande tristezza che c’era dentro. Mia moglie ed io cercavamo ogni volta di convincerlo a farsi curare, ma lui reagiva con sdegno, dicendoci che eravamo ciechi e non vedevamo ciò che lui coglieva e ci mostrava. Arrivava ad alzarsi dalla sedia in un ristorante, ed a lasciare il pasto a metà perché era convinto che i vicini complottassero contro di lui. Intanto, mendicando un po’ di attenzione o compagnia, si fece trascinare da qualche paziente poco raccomandabile a provare la cocaina, e questo non migliorò di certo il suo stato. Francesco era ammalato seriamente. La malattia si chiama psicosi ossessiva. Sentiva una voce, una voce che gli dava degli ordini. Trascorreva delle notti intere dentro la proprio auto, fuori dalle mura del cimitero della città, perché aveva ricevuto questo genere di incarico dalla voce. Peggiorava di mese in mese, ma io non potevo fare niente, gli ammalati di psicosi ossessiva non si fanno aiutare, e arrivano spesso ad individuare in una persona vicina, quasi sempre in un parente o in un amico, il responsabile delle loro disgrazie. Io abbandonai lo studio. Ormai la situazione era insostenibile. Francesco aveva suo malgrado stabilito che ero io la causa dei suoi mali, e non mi dava respiro. Rimasto solo, nello studio che era per lui anche triste e freddo alloggio, peggiorò. Un giorno, verso l’una del pomeriggio, suonò alla nostra porta. C’eravamo trasferiti da poco nella casa nuova. In giardino c’era un operaio che finiva di costruire il muretto di un’aiuola. Entrò. Mia moglie preparò il caffè. Era sempre protettiva e materna nei confronti di quel burbero e stracciato collega. Lui ed io ci sedemmo sulle poltrone della sala, l’uno di fronte all’altro. Avevo notato che aveva con sé la borsa dei medicinali, cosa che non accadeva mai quando veniva a trovarmi, ma non diedi alla cosa nessuna importanza. Bevemmo il caffè, dopo di che Francesco incominciò a parlare, e il suo monologo era in pratica una giustificazione, uno spiegare che lui riceveva ordini precisi, ai quali non poteva sottrarsi, perché se si fosse sottratto ci sarebbero state conseguenze negative, terribili per tutti, e mentre formulava queste frasi sconclusionate si chinò verso la borsa, lentamente la aprì, e prelevò una lunghissima baionetta, un pugnale da guerra appartenuto, come seppi dopo, al padre. Disse che doveva uccidermi, che era necessario, e si alzò dalla poltrona per farlo. Lo fece senza determinazione, come un lento automa, e io ebbi il tempo di aggirarlo e di fuggire verso l’uscita della casa, urlando a mia moglie “chiuditi in camera, chiama la polizia!”. In giardino afferrai un piccone. Francesco era sulla porta di casa, con il pugnale in mano. L’operaio ed io lo tenevamo a bada con due picconi. Lui accennava a fare qualche passo verso me, ma gli intimavo di stare fermo, gli dicevo “guarda che ti spacco la testa”. La polizia impiegò un tempo lunghissimo per arrivare. In quel tempo gli proposi anche di andarsene, lo tranquillizzai dicendo che mi sarei scusato con gli agenti, affermando che c’era stato un errore. Ma lui sorrideva e stava lì inebetito, con il pugnale in mano, il braccio lungo il fianco. Sembrava veramente vecchio, e stanco, e probabilmente stanco lo era, stanco di quella vitaccia, e di chi lo aveva ferito, di chi non gli voleva bene, di chi lo prendeva in giro, stanco dell’immensa solitudine della sua vita, stanco del silenzio e della voce. Arrivò la polizia. Francesco venne arrestato, con il pugnale in mano, “in flagranza di reato”. Lo vidi sorridermi, dall’auto che lo portava via. Poi la trafila degli interrogatori e delle testimonianze. Venne rinchiuso in una cella del reparto di psichiatria dell’ospedale: ricovero coatto. Quella sera andai a trovarlo. Sembrava sollevato, quella sera era meno curvo sotto il peso della sua follia. Gli portai il pigiama. Mi disse che non era stato determinato nell’uccidermi perché l’idea del pugnale nella mia pancia gli sembrò raccapricciante. Rimase nella cella una settimana, poi scomparve. Lo rividi al processo. Io non lo avevo denunciato, ma i meccanismi burocratici e legali successivi all’arresto portarono al processo. Fu condannato per tentato omicidio, ma non dovette trascorrere in prigione neanche un giorno. Poche settimane dopo si suicidò con il gas dell’auto. Ripenso spessissimo a lui, alle sue risate tristi, ai suoi occhi da cane solo, dietro le spesse lenti, e alla sua calda compagnia. Se esiste una frase fatta del tipo “il mondo non lo ha capito e lui non ha capito il mondo”, adesso è il caso di usarla. Qualche giorno cercherò la sua tomba per portargli un libro.

 

 

 

 

8. IL SOGNO

 

 

 

 

 

Esiste il sogno ad occhi aperti e il sogno notturno. Esiste il sogno di tutta la vita mai realizzato e quello realizzato. Esiste il sogno che si ripete, esiste l’incubo. Il mio sogno è di scrivere un libro dal titolo “Ai confini della città paranoica critica” (in realtà è un quadro di Dalì) o “Nel padiglione dei gelsomini in fiore” (anche questo non è mio). Il mio grande sogno è scrivere e sapere che la gente legge i miei libri. Voglio vedere la mia faccia sulle copertine, negli autobus, sulla metropolitana e nelle vetrine delle librerie. Insomma se non divento uno scrittore io è un’ingiustizia. Per me scrivere è facilissimo, non ci devo pensare, è un divertimento. Io vedo che molte persone devono sforzarsi, devono impegnarsi, per loro è un sacrificio, mentre per me è un invitante attività, un gioco. Mio padre era così. Quando lo accompagnavo alle terme lo vedevo scrivere pagine e pagine, con quella sua scrittura faticosa, uno stampatello minuscolo. Scriveva alla mamma. Era convinto del fatto che qualche periodo di separazione facesse bene al loro rapporto sempre in crisi, e così andava alle terme, per curare il corpo e il matrimonio. Ma si sa, alle terme, bevuti gli otto bicchieri di acqua c’è poco da fare, e lui scriveva seduto al tavolino di un bar all’aperto, con la musica che suonava i valzer. Ma le sue non erano lettere d’amore, noo, erano lettere di rimprovero, di invito a cambiare, erano dense di suggerimenti che in sostanza arrivavano a proporre un altro tipo di donna, a volere quella “maestrina” che mia madre non era. Il papà scriveva per ore, la lingua tra i denti. La stilografica ben salda nella mano, seduto sull’estremità della sedia. I suoi fogli erano numerati, in alto a destra, ed erano ricchi di sottolineature, di punti esclamativi. Io lo guardavo, forse è lì, se non nei geni, che si è creato il mio rapporto con i fogli, il papà confezionava poi lettere pasciute, buste che contenevano a stento i tanti fogli, e andavamo alla posta, per far pesare, per incollare e spedire. A me piace anche leggere, come al papà, piace tanto, e il fatto è che se si legge non si scrive. Se il piacere della lettura è notevole, si rischia di continuare a goderne dicendosi che serve per quando si scriverà, ma così si rischia di dedicarsi totalmente al piacere meno faticoso. Ma parlavo dei sogni. Dentro i sogni si trovano: un elemento dell’infanzia, l’appagamento di un desiderio e un elemento delle ultime ventiquattr’ore. Non lo dico io, l’ho imparato, e questa è una chiave di lettura semplice e utile, perché se non si può fare di più o di meglio, pensare ai propri sogni con questo modello di interpretazione non è difficile. Nel sogno si è straordinari registi. Ma vi rendete conto di come noi, nei sogni, elaboriamo trame complicate, sceneggiature, scenografie incredibili, in un programma che fila via liscio, neanche ci avessimo dedicato giornate per la progettazione? Tutto poi ha una sua coerenza, andando a vedere, nulla, nel sogno, è casuale. Ma non voglio parlarvi qui dell’interpretazione dei sogni. Voglio invece dire che anche un sogno ad occhi aperti è un nutrimento, si può fare, si può avere, aiuta a vivere. Non c’è niente di male nel fatto che si fantastichi, se non che, molto spesso, si fantastica e basta, per arrivare alla fine di una vita a dire “avrei voluto&ldots;”, con un aria sognante, appunto. Io mi trovo dentro una gabbia, dentro una vita che non vorrei, e così sogno. Rileggendo Steinbeck, e i suoi “Uomini e topi”, “La valle dell’Eden”, “Furore”, la convinzione del mio talento vacilla, ma saltando da “Il grande Gatsby” di Fitzgerald a “Educazione di una canaglia”, di Edward Bunker, che è un ex galeotto americano, un uomo che ha passato la vita nei penitenziari ed è uscito da quell’inferno scrivendo, arrivo a pensare che non devo preoccuparmi, perché comunque i lettori possono trovare interessanti le storie più inaspettate, più strane, a volte anche più semplici. La mia vita è una prigione, ma la vera prigione ha sfornato grandi scrittori. Cervantes scrisse una grande parte del suo “Don Chisciotte” in una cella, e Dostoevsckij, condannato a morte, venne invece mandato in Siberia, e lì passò dalla mediocrità alla grandezza nello scrivere. Ho letto Eric Fromm, ed ho trovato la conferma del fatto che dentro alla mia natura c’è la volontà forte di trascendere. Scrivo per uscire dalla quotidiana morte, non solo dei neuroni, ma anche delle speranze. A volte, se mi trovo nei guai a causa della mia intraprendenza, se non sto vivendo bene perché non mi sono accontentato (e i guai si possono chiamare in tanti modi: fisco, guardia di finanza, una casa complicata che non funziona, la salute che peggiora) invidio le persone semplici, che passano dalla culla alla bara senza pretese e senza scossoni (dalla culla alla bara, ma, meglio ancora dall’utero alla terra, dall’acqua alla terra, “Dal buio al buio”, ecco un bel titolo per un mio libro). Poi però, superata la crisi, mi rendo conto che, in realtà, non è la sopravvivenza che voglio, non è l’inanellare giorni e giorni in tutta tranquillità, che desidero, perché, lo confesso, è più forte di me: quella, per me è mediocrità. Il barbone non ha niente da perdere, tutto ciò che trova nella sua giornata è un puro guadagno. Anche questo è vero. Il fatto è che io sono un estremista, e allora, se proprio non devo essere nessuno, penso al barbone, mi appare come una scelta coraggiosa. Ma poi qui sto menando il can per l’aia. Dov’è il racconto? Eccolo qui. Avevo già i miei tre figli, e loro avevano già qualche anno. Da un po’ di tempo sognavo spesso il più piccolo. Gli altri sono più costruiti, uno vuole fare il regista, Astrid la pianista, ma il più piccolo è irrequieto, e mi preoccupa. Dunque da alcuni mesi lo sognavo spesso. Una notte sognai che io camminavo su un altopiano fatto di prati e sassi, in alta montagna, e c’era nebbia, le nuvole si addensavano. Io camminavo lentamente. C’erano pozze d’acqua. Andavo avanti senza fatica. Cominciai a percepire una presenza alle mie spalle, qualcuno che mi seguiva, e mi resi conto che era lui, il mio bambino più piccolo, quello che mi assomiglia di più, lui, che si nascondeva dietro i massi, venendomi dietro. Provai una sensazione di turbamento, nel sogno, ma proseguii, e poco a poco il mio stupore si trasformò in tenerezza, per quel piccolo che non voleva perdermi di vista, mi veniva dietro senza farsi vedere. Incominciai a rallentare, a camminare più piano, per facilitarlo, per sentirlo vicino, e arrivai ad una parete di ghiaccio, fatta di stalattiti di acqua gelata. Questa parete era come uno specchio, e dentro lo specchio vidi lui alle mie spalle, che mi guardava, era uscito allo scoperto e mi guardava, con quella sua aria preoccupata, quella sua ansia di sapere se il papà è di buon umore oppure no. La testa un po’ piegata, cercava di capire quale fosse il mio stato d’animo, fermo sulle sue gambette, con i calzoni corti, le bretelle e i sandali con i buchi. Ci guardammo attraverso lo specchio di ghiaccio, per un lungo spazio di tempo, arrivando a sorriderci in modo sempre più aperto. Mi voltai, felice di poterlo abbracciare, mentre il mio sorriso si trasformava in una risata di gioia, ma&ldots;..lui non c’era più. Camminai nel sogno, verso il luogo dal quale lui mi sorrideva e, giuntovi, vi trovai una pozza di sangue. Mi mancò il respiro, mi sentii soffocare, e mi svegliai dall’incubo. In realtà ero dentro una stanza di un ospedale, ed ero uscito dal sonno dell’anestesia. Mi avevano operato per un ernia del disco. Attorno a me, mia madre, mia moglie, le mie sorelle, che mi sorridevano. Avevo avuto un risveglio difficile e preoccupante, ero cianotico, il dottore mi controllava le mani. Tutti mi domandavano come stessi, c’era chi mi accarezzava, chi mi bagnava le labbra con l’acqua. Io balbettai qualche parola, poi chiesi “dov’è Jan?”. Lui era lì addormentato sul letto vicino. Dissero che aspettava da ore, che non aveva voluto andarsene. Nel sogno il mio cervello e il mio cuore avevano pensato a lui, anche in un momento di pericolo per me. Dico solo che fare il papà può essere molto bello.

 

 

 

9. IL CORPO

 

 

 

 

 

Il mio problema è che non penso al corpo. Lo uso come una macchina, Lo sfrutto, e mi faccio obbedire. E’ un puro strumento, che mi serve per muovermi, spostarmi, comunicare, affrettarmi, parlare, convincere, chiedere. Non lo rispetto. E’ sempre andata così. A volte penso che posso considerarmi fortunato se, a cinquant’anni, il mio corpo non si è ancora ribellato, non si è colpito per colpirmi, per esempio con un infarto o un tumore. Se ciò accadesse, in verità non ne sarei stupito, perché ci vedrei una forma di giustizia. Neanche lo vesto decentemente, questo corpo: ci metto sopra un paio di zoccoli, calzoni con elastico comprati in serie su un catalogo, una maglietta e una delle quattro giacche che ho da non meno di dieci anni. Quella blu con i bottoni d’oro ha i gomiti lisi. C’è la V di Valentino, ma è uno straccio. Poi ne ho un’altra, sempre blu, ma con i bottoni color argento, una tirolese con i ghirigori sulle maniche, il colletto verde e i bottoni d’osso, e una gialla impermeabile, con cui faccio tutto l’inverno. Negli ultimi venticinque anni non ho fatto niente per abbellire il mio corpo. Siccome è una macchina, devo fornire il carburante e così mangio, e ingrasso. Non importa molto, a me, se ingrasso, tanto esco poco, sono sempre a casa o al lavoro, non incontro gente, e se la incontro e mi dice che sono ingrassato, io rispondo velenosamente, colpisco la persona elencando i suoi fallimenti, ciò che è, quello che non è. Per esempio, qualche tempo fa ho incontrato un coetaneo, un vecchio compagno delle elementari. Si chiama Cicci, o, meglio, si fa chiamare così da sempre. Avete presente quei tipi che non hanno mai combinato niente, i classici tipi da bar, quelli che hanno smesso presto di studiare, fanno mille lavori, continuando a cambiare, e ogni volta che hanno in tasca qualche soldo, abbandonano il posto di lavoro, neanche avvertono, e vivono di rendita per due o tre settimane? Ecco, lui è così. Non nego che fisicamente stia invecchiando meglio di me. L’addome un po’ prominente, da bevitore, le rughe, però i capelli sono folti e complessivamente non è male. Beh, ogni volta che mi ha incontrato negli ultimi vent’anni, eccolo lì, subito a dirmi che sono ingrassato e ho perso i capelli. In questi casi, uno cosa fa? Sta zitto, si sente in colpa, arrossisce. E non è giusto, perché chi te lo dice non sarà grasso, non sarà pelato, ma è anche uno stupidotto che non ha mai combinato niente di buono, un parassita che vive di piccoli lavori ed espedienti, uno che, se fossero tutti come lui, il mondo finirebbe. Negli ultimi tempi ho imparato a rispondere. L’ultima volta mi dice: “vedo che hai ancora messo su pancia e i capelli se ne vanno”. E sorride. Allora gli rispondo: “Sì, ma io ho studiato, sono laureato, sono miliardario, ho una famiglia e una bella casa, se voglio rimediare ai miei difetti in poche settimane ci riesco, mentre tu resti il coglione che sei, anche se ti sforzi”. Mi ha guardato con stupore, interdetto, ha bofonchiato qualcosa del tipo “credevo di potere scherzare con un amico”. Gli ho risposto “senti Cicci, sono vent’anni che non sai dire altro, i tuoi scherzi sono monotoni, proprio non sai dire altro, e prima di parlare pensa a quello che sei”. Non l’ho più incontrato. Se ciò accadesse, credo che ci penserebbe bene, prima di offendere, e se lo facesse ho la risposta pronta, posso rincarare la dose. E’ successo qualcosa di simile due anni fa, con un altro ex amico che vuol fare il politicante, ma è sfigato sotto ogni aspetto, non sa parlare, mi viene a chiedere il voto e non sa dire altro che sono grasso. Ma si può essere cretini? Ma tu a uno al quale vai a chiedere il voto dici che è grasso? Gli ho risposto che se vuol fare il politicante dovrebbe sapere parlare, e spingersi un po’ più in là di queste considerazioni e l’ho mandato a fanculo. Adesso schiaccio chi mi offende. Tanto, non conosco chi ha fatto più di me. Mentre gli altri si arrabattano con mutui e piccoli progetti, io sono un miliardario, ho sempre studiato e sono laureato, e se qualcuno mi offende conosco gli argomenti per colpirlo. Comunque, sono grasso. Qualche giorno fa, dopo anni di evitamento, mi sono pesato: 107 chili. E’ vero che sono alto, ma 107 chili sono tanti. Ci sono rimasto male. Mi sono detto: “non posso andare avanti così”. Io non riesco a fare diete, è più facile per me non entrare per niente in contatto con il cibo. E poi è gratificante, si cala a vista d’occhio, un chilo al giorno. Il mio è un digiuno serio, bevo solo acqua. L’ho già fatto due volte, sinora. Mia moglie in piscina mi dice “Hai le tette”. Ci sono rimasto male. Il giorno dopo mi organizzo, mi rivolgo ad un chirurgo, prendo accordi per farmi asportare le ghiandole mammarie. Mi ha detto che le mie tette caleranno del trentacinque per cento. Adesso vado avanti a digiunare. Ho preparato tutti gli esami e aspetto l’operazione. E’ in corso questo intervento sul mio corpo: è rapido, i risultati sono ben visibili, e lo saranno ancora di più dopo che sarà passato il bisturi. Se in dieci giorni di digiuno e con l’intervento del chirurgo scendo a 95 chili sono contento. Se metto in atto progetti di questo tipo, sono avvantaggiato da due caratteristiche: non ho paura del bisturi e non ho paura di digiunare. La maggior parte delle persone ha un autentico terrore della lama del chirurgo, e in quanto al cibo, dopo una giornata nel corso della quale non ne assuma, incomincia a temere la morte per fame. Io ho già provato a non toccare cibo per due settimane, prima della nascita del mio primo figlio. L’ho fatto per essere più bello, per venire meglio sulle fotografie, e forse anche perché in quel momento la nascita del mio primo bambino mi dava energia, era un atto fortemente costruttivo che mi rafforzava. Per occuparsi del proprio corpo, o comunque per intervenire su di esso, visto che digiunare o farsi portar via dei pezzi è un “occuparsene”, ci vuole energia. Quando si è impegnati e si lavora molto, e se non si lavora si devono affrontare grane, e c’è la famiglia, che porta sempre qualche problema, un piatto di spaghetti ben conditi, con ragù, olio e parmigiano, e una cotoletta con le patate fritte, più una panna cotta o un bel pezzo di formaggio stagionato appaiono come il giusto premio. E che cazzo! Lavoro come un asino, dico “va bene” e “d’accordo, come vuole lei” anche a chi dovrei far schizzare fuori dalla porta a calcinculo, assicuro il presente e il futuro ai miei figli e probabilmente ai loro figli, ascolto tutti, in più miglioro il mio carattere e studio, e dovrei sedermi controllando la dieta? Non ci penso neanche. Naturalmente il problema è che , a meno che non si abbia una tiroide che funziona come un treno o si abbia la forza di macinare ore di footing o di palestra, si ingrassa. Che poi mangiare per poi smaltire sudando su una cyclette o dentro una sauna, o correndo in calzoncini per la città con le budella che sballonzano, mi sembra assurdo. Uno dovrebbe pensare: ogni forchettata, dieci minuti di ginnastica. Voglio dire: se devo pagare sudando, il cibo che piacere è? Mangiare è un piacere, e credo che se, mentre mangio, so, comunque, anche se non ci penso, il mio inconscio sa che dovrò pagare con la fatica quel piacere, la bellezza di quell’atto si riduce di molto. Non si può neanche continuare ad ingrassare. Come si dice? Le cose stanno un minuto in bocca e tutta la vita sui fianchi. Sui fianchi, sul torace, sotto il mento, sulla pancia. Così io, ogni tanto digiuno. Se poi c’è un intervento chirurgico di mezzo, è più facile, perché il prepararsi, lo stare in ospedale, e la convalescenza, non favoriscono l’appetito. Non mangiare non è così difficile come si pensa. Il primo giorno è più difficile, poi il corpo si adatta, richiama gli ormoni necessari, trova dentro se stesso l’energia che serve. E con il passare del tempo i sensi si fanno più acuti, si percepiscono meglio i suoni, molto di più gli odori, il tatto è più sensibile. Non dico la stessa cosa per la vista, perché mi sembra uguale, e, in quanto al gusto, quello non è messo alla prova. Comunque sia, non si è certo intontiti, anzi. Si lavora benissimo, ci si sente meglio, e ci si domanda come si è potuti arrivare a gonfiarsi di cibo come si è fatto. Certo, bisogna essere molto motivati. Io sono motivato ogni sei, sette anni, e quando lo sono riesco a buttare via i risultati della noncuranza e delle abbuffate di parecchio tempo. Sto anche facendomi fare un vestito su misura. Incredibile! Buon segno, in ogni caso. Lo so, lo so, è un modo sbagliato di trattare se stessi. Gonfiarsi e poi sgonfiarsi in un colpo solo è scorretto. Ma cosa posso farci? Il mio corpo è una macchina. Quando digiuno, io sogno di mangiare, ma in questo non c’è piacere, c’è un sentirsi in colpa, cosìcchè il sogno è praticamente un incubo, ci si rende conto del fatto che si sta facendo una cosa sbagliata, e lo svegliarsi è un momento di sollievo, si dice “meno male, non è vero niente, non ho sgarrato”.

 

 

 

10. L’ABORTO

 

 

 

 

 

Quando Luca si sentì dire da Alice che era incinta non provò quel genere di sentimenti che i libri e soprattutto i films fanno credere. Non fu contento né spaventato, disse soltanto “decidi tu”. Luca era innamorato di Alice, e si trattava di un bene immenso, pronto a tutto. “Alice, fai quello che ti senti di fare. Se vuoi tenere il bambino, io sono contento, e se invece vuoi abortire, va bene, ti aiuto.”. Alice era invece terrorizzata. Restare incinta a diciassette anni, mentre si frequenta il liceo e si è figli di genitori cattolici, benpensanti, che ti hanno già pianificato la vita fino alla laurea e all’altare, è una brutta storia. Si è soli, e non c’è niente di romantico, non c’è “senti qui, si muove, il nostro bambino si muove”. Lei andava a scuola come sempre, con la Vespa, ma aveva le occhiaie, nere e profonde, per il pianto e le notti insonni. Non c’era più l’amore di prima, nei confronti di Luca, perché lei si sentiva tradita. Una ragazza di diciassette anni si sente tradita in ogni caso, quando si trova in quella situazione, anche se il futuro padre ha la sua stessa età, non ne sa niente di prevenzione, di sesso sicuro, o meglio, qualcosa ne sa, ma è dentro la spirale dell’amore totale e assoluto, il che se si accompagna agli impulsi e ai desideri sessuali di quella età, ha un effetto che è ben poco addomesticabile. Alice si arrovellava, e controllava allo specchio, di profilo, se incominciava ad apparire la prominenza dell’addome. Al secondo mese non si vede niente, ma lei era così magra, aveva un ventre così incavato, che probabilmente ogni piccolo aumento di volume si sarebbe notato. “Non voglio questo bambino! Non lo voglio!” urlava Alice a Luca. Il loro rapporto era tesissimo. Li incontravamo, la sera, lungo il Ticino, arrivavamo con le rispettive moto, e stavamo in silenzio. Alice era triste, e adirata. Un giorno disse a Luca: “Me ne vado. Adesso me ne vado da una persona che mi aiuterà”, e così facendo salì sulla vespa e schizzò via. Lei aveva l’abitudine di provocare la gelosia di Luca, e si era inventata un mondo di giocatori di scacchi, pseudo-intellettuali più grandi di lei, che, diceva Alice, frequentava nei pomeriggi, a volte, fumando e giocando. Faceva intendere di essere al centro dell’attenzione di questi fricchettoni, studenti noti in città per i loro atteggiamenti anticonformisti e per il fatto di ritrovarsi sempre davanti alla pasticceria Romana. Chiaramente a Luca questa storia non piaceva, lo faceva diventare violento, e i litigi finivano spesso in botte. Alice graffiava, Luca mollava sberle e le rompeva tra le mani gli occhiali da sole. Più di una volta i passanti, assistendo a queste scene nel bel mezzo di un giardino pubblico o sulle panchine alla stazione, si erano messi di mezzo, avevano rimproverato Luca. ”Non si picchia una ragazza! Che vergogna!”. “Ma che ragazza! Questa è una puttana!” rispondeva lui, e ci mancò veramente poco, tante volte, al passare alle mani anche contro chi si era intromesso. Comunque, quella notte Luca si mise all’inseguimento di Alice, a rottadicollo lungo le strade strette e umide dei quartieri poveri della città. Era dicembre e sul porfido la pioggia aveva formato un mantello scivoloso. Alice guidava piangendo, e pensava che se ci fosse stato un incidente forse lei avrebbe perso il bambino, e questo le andava bene. Aveva visto alla televisione un documentario in cui si mostrava la terribile soluzione che le donne di un popolo africano adottavano per interrompere una gravidanza non voluta: si buttavano dal ramo di una pianta che fosse posto a circa tre metri di altezza, e lo facevano in modo da toccare terra in posizione seduta. Non solo, ma ripetevano anche questo salto più volte, fino a che avevano forze, finchè le ossa rotte lo permettevano. Con questi pensieri Alice guidava, correva in modo spericolato, e Luca, che già di suo era tutt’altro che prudente, dietro, fregandosene dei sensi unici e delle maledizioni della gente. La corsa si fermò sotto una vecchia casa, di quelle con il cortile interno e tanti panni stesi alle lunghe e strette terrazze. “Ma dove stai andando, chi c’è qui? Chi cazzo c’è in questa casa che conosci?”. Luca era fuori di se. Per tanto tempo, praticamente da sempre, aveva considerato le allusioni di Alice circa i suoi incontri con ragazzi più grandi un modo per ingelosirlo, e solo il sentirsi gratificato da questo, l’essersi rapidamente convinto che si trattasse di un modo per confermare il suo interesse e il suo bene lo avevano trattenuto dall’approfondire. Perché lui, quei giocatori di scacchi spacconi e con atteggiamenti da intellettuali, li avrebbe anche affrontati, li avrebbe provocati senza problemi, considerata la sua violenza, che aveva un potenziale tale da potere diventare selvaggia, e portarlo a non tenere conto in nessun modo del numero, della forza, delle ragioni di chi si trovava ad affrontare. Se non lo aveva fatto era solo per non ferire Alice, in quanto la sicurezza totale che quegli incontri fossero una grande balla non l’aveva, per cui non voleva danneggiarla, e preferiva anche evitare di fare una figura da imbecille, nel caso in cui (come scoprì poi, a distanza di tempo) quella gente non conoscesse nemmeno la sua ragazza. Ma torniamo su quelle scale annerite e buie, tra quelle mura scrostate e imbrattate da scritte e da disegni volgari o inneggianti ai movimenti di sinistra. Alice correva, saliva i gradini, e Luca dietro, nell’odore di minestrone. Alice si fermò su un pianerottolo, e, stravolta, bussò nervosamente ad una porta. “Chi abita qui?! Dimmi chi abita qui!!”. Lei non rispondeva, bussava e aspettava: “Cazzo, non c’è nessuno”, disse, e con aria triste, la mano che scivolava sulla ringhiera, cominciò a scendere. Luca la afferrò avvinghiando con la sua forte mano il braccio esile di lei, ma lei si liberò. In silenzio tornarono alle moto. Luca non seppe mai, ancora non sa chi abitasse in quella casa. I giorni si succedevano, e l’angoscia cresceva. Decisero di parlare del problema a Paco, un loro compagno di scuola molto disinibito e bene informato sulle faccende di sesso e di trasgressione. Paco raccolse delle informazioni presso la sorella, più grande di lui, un tipo vistoso e conosciuto per il suo linguaggio scurrile. Saltò fuori un indirizzo di Milano, di un appartamento in cui si praticavano aborti. Paco riferì l’indirizzo e la somma necessaria: centocinquantamila lire. Nel 1969 era una grossa cifra, per due studenti. Alice era determinata, non voleva quel figlio. Luca ottenne la metà del denaro parlando apertamente con i nonni materni, che in seguito, a cose fatte, e “per il loro bene”, si mostrarono meno capaci di mantenere il segreto di quanto i due ragazzi credessero. Arrivarono a centitrentacinquemila lire mettendo insieme i risparmi e ciò che avevano dato loro Paco e Marisa, la migliore amica di Alice. La somma necessaria era stata praticamente raggiunta, anche se ormai la notizia si era diffusa, dalla classe si era estesa ai corridoi e ai gabinetti della scuola, e da lì, sicuramente, fuori. Per telefono fissarono l’appuntamento, e , da quel momento, il rapporto tra loro ritrovò un po’ di serenità. Per qualche giorno non litigarono. Passeggiarono mano nella mano, ancora per poco in tre. Luca non disse mai che quel figlio lui, l’avrebbe tenuto, per legare a sè quella ragazza stupenda e irrequieta. Luca lo avrebbe tenuto, per avere una catena, un collante che unisse un rapporto che appariva sempre destinato a rompersi. Lasciava che il destino seguisse il suo corso, immaginando con malinconia una casa con loro due e una culla. La sera precedente il giorno dell’aborto fecero l’amore in modo libero e disperato. Non c’erano recriminazioni, si era ricostituita un’alleanza che mancava da tempo, da tanto tempo, e sembrava persa. Addormentatisi, si svegliarono appena in tempo per la cena. A casa, seduti a tavola con i rispettivi genitori, nascosero la paura. La mattina successiva raggiunsero Milano in treno, e poi con la metropolitana arrivarono all’indirizzo indicato da Paco. L’appartamento era all’ultimo piano di un grande condominio. Luca suonò il campanello, e la porta si aprì rivelando all’interno, una signora sui sessant’anni elegante e cordiale. “Ma questi sono proprio due piccioncini” sussurrò facendoli entrare. Le tapparelle erano abbassate, i locali semibui. La signora li fece accomodare e chiese ad Alice: “Da quanto tempo sei incinta?”. Lei, abbassando lo sguardo, disse: “Da due mesi e mezzo”. “Avete i soldi?”. Luca tirò fuori da una tasca una busta con le cento trentacinquemila lire. Disse: “Mancano quindicimila lire, non abbiamo trovato più di così” La signora, contando i soldi, non nascose un moto di disappunto: “Potevate dirmelo, al telefono. Noi lavoriamo, non siamo qui a perdere tempo!”. Luca si controllò perché vedeva Alice tesa, sul punto di piangere. “Comunque, tu entra qui e spogliati” disse la signora alla ragazza, indicandole una stanza. “Tu aspetta qui”, ordinò a Luca. Era molto meno cordiale di come si era mostrata nell’accoglierli. Luca si mostrò calmo. Era triste: sapeva cosa stava perdendo. Dal bagno uscì un giovane uomo in camice bianco, che lo salutò, per entrare in un locale in mezzo al quale c’era un lettino verde, di plastica e acciaio. L’intervento durò pochissimo, non più di 30 minuti. Quando Alice uscì, era cadaverica, appariva stanchissima. Si buttò tra le braccia di Luca, e pianse. “Siete proprio due piccioncini” disse la signora, spingendoli verso la porta. Alla stazione Luca comprò dei panini e due lattine: erano affamati. Sul treno non parlarono, Alice si rannicchiò tra le braccia di Luca. Lui la stringeva, le accarezzava i lunghi capelli, dandole baci sulla testa. Era pensieroso, guardava il paesaggio nebbioso. Il giorno dopo, quando presentarono alla professoressa di matematica i loro libretti per la giustificazione delle assenze con la scritta “motivi di famiglia” e la firma falsa, i compagni si guardarono con aria di intesa. I maschi sghignazzarono, e le femmine ammiccarono, con un’aria tra lo scandalizzato e l’aggressivo, del tipo “che razza di gente!”. Alice e Luca non si sono sposati, la loro storia è finita. Adesso hanno una loro famiglia, e dei bambini. Come sarebbero andate le cose se avessero tenuto quel figlio? Molto probabilmente male. Forse è il caso di dire che, nella loro disperazione, hanno fatto la scelta giusta. Chi sono io? Sono il compagno del primo banco, entrando a sinistra. Avete presente la terza A? Non ho mai smesso di amare Alice e di invidiare Luca. Io no, della loro storia non ho mai riso, né mi sono mai scandalizzato. Ricordo i loro litigi, il nodo alla gola che provai quando li vidi per la prima volta mano per mano. Ricordo due ragazzi stupendi, i capelli al vento, sulle moto. Ricordo Alice e il suo coraggio, e ricordo Luca, il giorno dopo, quando entrò con lei nella nostra aula: nei suoi occhi c’era una grande tristezza, perché dopo essere stato parte di una famiglia di tre persone, di un piccolo nucleo bellissimo e disperato, sapeva già che sarebbe rimasto solo. Io? Io sono un tipo tranquillo, ho il mio posto all’ufficio di collocamento, una moglie e due gemelli. Non so cosa sia l’amore burrascoso e totale, non l’ho provato, però l’ho visto, ho visto cosa è, e sono grato a quei due miei compagni, perché dal mio banco, nell’angolo, ho seguito una storia che non dimenticherò mai, no, non la dimenticherò mai.

 

 

 

11. UN SUICIDIO CRUENTO

 

 

 

 

 

Una sega circolare ruota lentamente e seziona l’alluce del mio piede destro rispetto al dito adiacente, poi sale, e la vedo proseguire nel suo lavoro, mentre il dorso della mia estremità sanguina e schizzano schegge di osso, e frammenti di pelle, e segmenti di tendini. Il bianco e il rosso. Su, verso la tibia, il lavoro del metallico cerchio va avanti. La rotula è un punto particolarmente sensibile. Ahia! Mi fa più male! Nella coscia il grasso si apre, sotto c’è il muscolo, il grosso femore si divide. Tutto è sangue, ma, rispetto al dolore, prevale la sensazione sgradevole del contatto tra metallo rotante e carne, un metallo che non rispetta, prepotente, consapevole della sua superiorità su un corpo che è quasi tutto d’acqua. Dopo il bacino, l’addome, ma deviando verso il centro, passando attraverso l’ombelico, in un rutilante spandersi di adipe. L’odore si fa veramente sgradevole. Prima era di bruciato e di sangue, adesso è di feci. La sega seziona l’intestino come se fosse un budino di lamponi, e, in modo preciso, affetta il piloro, ed entra nello stomaco: sul mio volto una poltiglia maleodorante di riso, prosciutto, fagioli e banana. Si avvicina. La gabbia toracica è aperta, come uno scrigno, e lo sterno è sezionato esattamente, è uno scudo in due metà: una a destra e una a sinistra. Squartati esofago, trachea, faringe e laringe, la lama è vicina ai miei occhi. Apre la mandibola, passa tra gli incisivi centrali inferiori e superiori, apre il naso, i miei occhi la osservano mentre rotea verso la fronte e finisce il suo lavoro tra i due emisferi cerebrali. Si ferma. Sono morto così, in uno sconquasso di rumori, colori, odori. “Non è detto che sia così squilibrato come dice” Qualcuno non mi credeva. Eccomi qua. Per qualche secondo i miei occhi afferrano ancora le ultime immagini di un corpo svilito a liquame, brandelli e puzza. Guarda che sfacelo, quanto sporco! La stanza è imbrattata all’inverosimile. Ho scelto questa morte proprio io, che sono un maniaco della pulizia e dell’ordine. Oggi toccherà ad altri sistemare le cose, io finalmente riposo.

 

 

 

12. LO SCORPIONE

 

 

 

 

 

“Psicopatico asociale con tendenze depressive e marcata propensione a comportamenti violenti”. Quando ho risposto a quelle centinaia di domande non credevo che il tutto si concretizzasse poi in una diagnosi così spietata. Il test Minnesota sembra innocente e infantile, ma porta a formulare dei risultati che suonano come condanne. Se ti trovi davanti a un bel mucchio di tessere che riportano affermazioni tipo “vorrei essere un cantante”, o “penso che qualcuno mi voglia fare del male”, e le devi mettere in uno dei tre contenitori con la scritta ,VERO, FALSO, NON SO, vai avanti per un paio d’ore a fare la scelta, ad incasellare, ma non pensi in modo diretto che stai costruendo una tua immagine di ammalato. Io nella scatola con la scritta NON SO non metto mai nulla. Io so sempre. So che non sono normale, che odio la società e che se qualcuno mi attacca io lo sbrano. Quando voglio ottenere qualcosa faccio paura: il mio volto è un libro aperto, i miei occhi grigi hanno dentro l’avvertimento “sono un potenziale assassino”. E non c’è niente da fare. Come Alex di Arancia Meccanica, dopo un trattamento che mi intontisce e mi riduce a un buon diavolo momentaneamente incapace di fare del male, io risorgo, e la violenza ricomincia a pulsare nelle mie vene. E’ la mia natura. Conoscete la storiella della rana e dello scorpione? Un giorno una rana ed uno scorpione si trovarono a dovere attraversare un fiume. Per la rana non c’erano problemi, ma per lo scorpione sì. Allora quest’ultimo chiese alla rana “se salgo sulla tua schiena mi porti sull’altra sponda?”. L’anfibio rispose “va bene”, e lo scorpione salì. Giunti ormai alla riva opposta, lo scorpione punse la rana, condannandola alla morte. La rana, sbalordita, chiese, “perché l’hai fatto?”, e lo scorpione rispose “è la mia natura”. Quindi, se vi pungo, sappiatelo: è la mia natura.

 

 

13. LA LAVATRICE

 

 

 

 

 

L’edificio bianco e scalcinato, con il tetto grigio e le ringhiere arrugginite, accoglie la sezione di psichiatria. Io lo guardo, qui, dal mio reparto. Ricordo quando la mamma mi ci portava, tanti, tanti anni fa. No, non che fossi ammalato di mente. Una volta lì c’era la pediatria. Adesso c’è rinchiusa una giovane mamma, che ha ucciso il proprio piccolo bambino mettendolo nella lavatrice, e facendola funzionare. Tutti vogliono dare una loro interpretazione. C’è chi parla di un “rimettere nell’utero”, chi di un “lavare qualcosa di sporco” chi di “guardare immagini che si muovono dietro ad un video”, come risultato di un condizionamento televisivo. Io dico che quella povera crista viene da un paesino in alta montagna, dove la noia ti inebetisce, dove il tempo non passa mai, e se non c’è un funerale o il matrimonio di un parente, i giorni trascorrono proprio tutti uguali, tutti uguali. Vai al negozio, ti attardi il più possibile parlando del tempo e della salute, e, quando torni a casa ci sono i giochi a quiz alla tivù, qualche rotocalco, le faccende domestiche. Ma ci pensate ad anni ed anni trascorsi così? Per sopravvivere si beve, vino scadente da quattro soldi, dentro bottiglioni tenuti nascosti al marito. Ma anche abbruttendosi con l’alcool la vita è difficile. Chi vede le cose da fuori, e da lontano, pensa alla bellezza dei prati in fiore o all’incanto della neve che cade presto, ma questa neve da ottobre ad aprile stringe le maglie della rete che hai attorno, e sei più prigioniera di prima, ti è tolto anche quel minimo svagarsi con una passeggiata. Non ci trovo proprio niente di bello nel vivere in quei paesi. C’è l’isolamento totale. La retorica della chiesetta col campanile, del sentiero tra i boschi o degli uccellini sui rami si sgretola nei lunghissimi silenzi, nell’attesa di non si sa cosa. Io credo di capire, senza ricorrere a Freud o ad interpretazioni strane. Molti, da quelle parti, si impiccano. Questa mamma ha voluto essere generosa: ha liberato il figlio, anziché se stessa.

 

 

 

14. ROCCO

 

 

 

 

 

Rocco era un bambino timido. I compagni si divertivano chiamandolo a scuola o per strada, perché lui subito arrossiva. Bastava dirgli “ehi, Rocco!”, e subito diventava di fuoco, e gli “amici” giù a ridere. A scuola andava piuttosto bene, il maestro Bassoli, cinico e duro con tutti, sapeva valorizzarlo. Nelle gare di calcolo rapido a memoria Rocco di solito era il primo. Funzionava così: dieci minuti prima della campanella di mezzogiorno e venti, richiusi gli zaini, il maestro diceva “facciamo la gara di calcolo”, e proponeva un primo conto, tipo “centoventisei per nove”. Chi riteneva di conoscere il risultato si alzava in piedi e lo annunciava; se era giusto, restava in piedi, sfidato dai compagni nella domanda successiva. Naturalmente, ogni volta, il diritto di non essere seduto era attribuito a chi sapeva il risultato giusto. Rocco manteneva il record, e quasi sempre la sfida si riduceva ad un confronto tra lui e Athos. In italiano era veramente bravo, non c’è che dire, sapeva scrivere, e in storia, geografia, scienze, musica e religione meritava sempre voti ben sopra alla sufficienza. Tra lui e il maestro c’era un rapporto di reciproca stima. Rocco ci rimase male solo quella volta quando stava salendo le scale con i calzoni da sci blu con le fasce bianche sui lati (era giovedì, il giorno in cui si andava all’Aprica a sciare) e il maestro gli disse “ con le righe bianche vai più veloce?”. Nel pomeriggio frequentava l’oratorio, ma era un oratorio particolare. Don Giovanni doveva tenere a bada un centinaio di scatenati, e, nonostante il carisma, aveva il suo bel da fare. Era una scuola di duri, in cui il più duro era quello che sputava (“ciccava”) più lontano. Si fumava, si bestemmiava alla grande, giravano giornali porno, e c’era anche gente come il Tarca, che rubava in chiesa. Dal piano superiore dell’oratorio, quello dei tavoli da ping pong, si poteva spesso godere di uno spettacolo che faceva sollevare grida di incitamento, strabuzzare gli occhi, creare resse davanti alle finestre: il condominio di fronte ospitava al secondo piano una famiglia, che affidava il bambino ad una ragazza, diciamo disinibita. Lei si metteva alla finestra e, tolti gli indumenti sopra alla cintura, restava in reggiseno sorridendo e dondolandosi in modo malizioso. Poi, quando le grida di incitamento diventavano uno schiamazzo incontenibile, toglieva anche il reggiseno, e lì tutti, dai sei ai sedici anni, restavano a bocca aperta, gli occhi spalancati, muti. Una sicura occasione erotica si creava quando Alberto, il bambino più ricco del quartiere, assenti i suoi genitori, invitava un gruppo di prescelti nella propria casa, dove c’erano vere e succulente prelibatezze: il filmino del padre, con lo spogliarello in cui la donna, dopo dieci minuti di svestizione e contorcimenti, resta con tre stelline d’oro, sui punti proibiti; le mutande e i collants della bellissima Martina, prelevati avidamente dai cassetti della sua camera (Martina è la sorella maggiore di Alberto, e quando passeggiava in minigonna la nostra cittadina si fermava); la raccolta di Playboy (una volta il padre di Alberto scoprì il figlio e Rocco mentre si beavano davanti al paginone centrale con Silvia Koscina, e quando il padre, scherzosamente minaccioso, chiese “chi lo ha preso?!”, Alberto disse “lui!” additando Rocco, che stette zitto); infine la cameriera Wanda, piccola e sempre pronta e ridere, soprattutto disposta a giocare, e giocare significava, alla fine, fare la lotta, quindi vederle le cosce, toccarle il seno. Erano i primi approcci al sesso. Una volta Rocco venne avvicinato da un losco individuo, più grande di lui di parecchi anni. Disse di far parte di una grossa banda che aveva subito il furto di molte macchinine, per cui progettavano di sferrare un attacco per riconquistare il bottino. Ci sarebbe stato un premio per tutti, in macchinine. Rocco voleva essere dei loro. Accettò, e fu portato, dal ragazzo più grande, in una cantina, con il pretesto che si doveva verificare la sua capacità nella lotta. Il ragazzo più grande incitò Rocco a sferrare pugni e calci, poi disse “bene bene, adesso vediamo come te la cavi con i morsi”, e gli ordinò di morsicarlo. Rocco, titubante, gli si avvicinò, e morse delicatamente il maglione dell’altro, a livello del braccio. “No, no, più forte, e più in alto, sul collo, in faccia!”. Rocco, impaurito, timidamente obbedì, e il ragazzo ne approfittò per mordergli le labbra, per serrarle tra i propri denti, facendo uscire la lingua in un viscido bacio. Rocco si spaventò, capì che la storia della macchinine e delle bande era una gran balla, indietreggiò e si trovò tra le mani uno sci, di quelli pesanti con le lamine metalliche sui lati, come si usava una volta. Colpì l’aggressore, che, dopo il primo fendente ricevuto sulla fronte, vacillò sanguinando. Rocco, piangendo, lo colpì ancora, e ancora, fino a fracassargli la testa. Erano la paura e l’umiliazione, a muoverlo. Si è fatto quindici anni di prigione per l’omicidio. Adesso è magazziniere all’ipermercato. Peccato, poteva diventare qualcuno, magari un bravo scrittore. In Italiano era veramente bravo, non c’è che dire, sapeva scrivere.

 

 

15. UN AMORE SBAGLIATO

 

 

 

 

 

Gaia era una bambina sensibile e altruista. Purtroppo, a dispetto del suo nome, non aveva proprio di che essere allegra, perché il padre, rimasto vedovo quando lei aveva solo sette anni, la mise in collegio, e dai collegi non sarebbe più uscita se non molto più tardi. Tornava a casa una volta al mese. Il padre andava a prenderla con l’automobile, e scambiava qualche parola con le suore, prima di portarsela via senza entusiasmo. Le suore tiravano sempre fuori la storia del “potrebbe fare di più, non si applica”. Gaia galleggiava sopra il filo del minimo risultato necessario per non essere bocciata. Una volta fece arrabbiare molto il papà, durante la silenziosa cena del sabato sera, quando gli mostrò un barattolo di latta contenente poche matite colorate, mezze consumate. Lo aveva barattato con una compagna, dandole in cambio il proprio astuccio nuovo, completo di colori, righello, gomma, temperino e due penne a sfera, una blu e una rossa. Era generosa. E poi il rumore delle matite dentro il tubo di metallo le era piaciuto tanto. Gaia cresceva senza affetto dentro un mondo di preghiere, atti di penitenza, fioretti, immaginette, confessioni, comunioni. Dopo la terza media passò all’istituto magistrale, sempre in un collegio religioso. Le suore tenevano appese al muro, all’entrata, un libro aperto, fatto di pietra, sul quale scrivevano col gesso, ogni inizio del mese, la graduatoria delle allieve migliori. Erano scritti i nomi e i cognomi delle tre alunne che, nel corso del mese appena concluso, avevano ottenuto la media più alta, facendo il calcolo dei voti meritati in ogni materia. Il nome di Gaia su quel libro non finì mai, e a nulla serviva il fatto che il padre, in occasione di ogni visita mensile, si soffermasse con lei a leggere i nomi delle più brave, dicendo “prima o poi ci sarà anche il tuo!”. In un collegio di sole ragazze, di giovani che non incontrano mai altri maschi se non il Cristo sulla croce, è facile che si crei o una determinazione a fare della religione il proprio motivo di vita, in un innamoramento entusiasta e senza riserve nei confronti di quel Gesù esaltato in tutti i modi, e persino attraente, i lunghi capelli biondi e l’aria triste, che non fa certo paura a chi teme gli uomini, o in un’amicizia morbosa, un legame esclusivo e geloso con una compagna. Gaia imboccò ambedue le strade. Probabilmente era così sola e triste, nel profondo, che soltanto una duplice scelta così impegnativa (se di “scelta” si può parlare) poteva riempire il suo bisogno di dare e ricevere attenzione. Decise di farsi suora. Lo disse al padre, e da quel momento egli stesso, e le insegnanti, e la direttrice del collegio incominciarono a guardarla con occhi diversi, come se si accorgessero che esistesse, elargendo addirittura qualche scarno complimento. Gaia era sempre tra le prime, alla messa mattutina della sei, e cantava infervorandosi, e sgranava le sfere del rosario ogni sera, prima di dormire, si occupava personalmente della manutenzione e della pulizia della finta grotta di Lourdes, non dimenticando mai di baciare i piedi della Madonna prima di andarsene. Aveva acquisito un’identità: da “nessuno” era diventata “la nostra allieva che si farà suora”. Come dicevo, tuttavia, diede spazio anche all’altro sentimento caratteristico del collegio, e se parlo di “un legame esclusivo e geloso con una compagna” so quel che dico. La compagna era quella il cui nome compariva costantemente al primo posto sul tragico libro delle più meritevoli, all’entrata del collegio. Tutti noi abbiamo presente la classica “secchiona”, praticamente l’abbiamo incontrata e avuta in classe a tutti i livelli della scuola. Ecco, la Trabucchi era la secchiona. Occhiali spessi, lentiggini e muso lungo, esercitava comunque su Gaia un forte potere di attrazione, la affascinava, probabilmente per la sua determinazione e per il fatto di essere ciò che il padre avrebbe voluto che lei fosse. La dinamica del rapporto mostrava tutte le connotazioni di un’unione tra fidanzati. C’erano litigi e riconciliazioni, scenate di gelosia e abbracci riappacificanti. Una trovava nell’altra colei che avrebbe voluto essere, l’altra, isolata a causa del pessimo carattere e del costante primato, trovava nell’amica un affetto, un uscita dalla propria nicchia di ragazza capace e intelligente, ma non cercata, non voluta dalle altre. Arrivarono addirittura a chiedere alle rispettive famiglie di non prelevarle dal collegio (evidentemente nessuna delle due aveva, a casa, una calorosa accoglienza o un caldo focolare) per godersi periodicamente un sabato sera o una domenica tutta per loro. Dal collegio, a Lecco, si arrivava in pochi minuti alle case di Renzo e Lucia, e poi sui luoghi in cui è ambientato “I promessi sposi”, e quelle furono spesso le loro mete domenicali, raggiunte naturalmente con l’accompagnamento di un gruppo di suore. Gaia migliorò i propri risultati scolastici, non tanto perché l’amica la aiutasse, ma perché prese ad impegnarsi di più, per non sfigurare, per avvicinarsi a quella compagna dai risultati ingombranti. Così trascorrevano i mesi e gli anni. L’estate era una separazione riempita da chilometriche lettere, e il periodo scolastico una sequenza di giornate che Gaia trascorreva tra atti di devozione, estasiati colloqui con il crocefisso e la propria amicizia. Una sera il padre di Gaia ricevette una telefonata da parte della direttrice del collegio: la figlia aveva tentato il suicidio ingerendo una grossa dose di barbiturici, che si era procurata nell’infermeria, e si trovava ricoverata nel reparto di rianimazione dell’ospedale. Il padre salì in macchina e raggiunse l’ospedale. I medici dissero di avere effettuato la lavanda gastrica e che il pericolo era scongiurato. Quando uscì, giorni dopo, pallida e magra, tartassata dalle suore e dal padre confessò di avere compiuto quel gesto a seguito di un litigio con l’amica, che, nelle ultime settimane, mostrava qualche attenzione nei confronti di una comune compagna (la terza della lista sul libro di pietra: ah, se si fosse staccato dal muro, cadendo finalmente sulla testa della direttrice e frantumandosi!). Gaia venne espulsa. Si diplomò, si sposò ed ebbe un figlio, ma a 35 anni morì per un cancro al seno, dopo lunghe sofferenze. Di anni normali ne ha conosciuti pochi. Di esperienze normali ne ha vissute poche. Quando penso a lei la vedo con il barattolo di latta contenente le matite colorate, mentre lo scuote per sentirne il rumore. In quel momento sorride. Se ci penso bene, dico che in quel momento quasi ride.

 

 

 

 

16. LA DONNA – MACCHINA

 

 

 

 

 

Conosco una donna – macchina. Questo significa che conosco una donna che controlla completamente tutto ciò che la riguarda, e che riguarda la sua famiglia, o che le transita vicino o la tocca. La conosco da trent’anni. Quando frequentava l’università (naturalmente si è laureata con centodieci e lode) si è sempre spostata a piedi, da un istituto all’altro, rifiutando l’autobus “per camminare e risparmiare”. Questa scelta non avrebbe nulla di strano se, concretamente, non si trattasse di molti chilometri ogni giorno. Ha sempre seguito puntualmente le lezioni, dando gli esami nei tempi stabiliti, “per avere l’estate libera”. Sposatasi, ha avuto tre figli, ognuno a distanza di tre anni, e il primo a tre anni dal matrimonio. Sembra che diversi libri di specialisti autorevoli indichino che questo periodo di vita coniugale prima di avere il primo figlio sia ideale, che l’avere tre figli sia altrettanto auspicabile e che i tre figli debbono venire al mondo a distanza di tre anni l’uno dall’altro. Ma la donna – macchina ha fatto di più. Non ha partorito a caso. No. Ha evitato di partorire nel fine settimana o negli orari in cui fosse più probabile non avere al fianco i medici voluti, cioè ha assunto ogni volta dei farmaci per indurre il travaglio a partire da un’ora scelta e precisa. Quando le hanno diagnosticato un cancro, se l’è tenuto da maggio a novembre, perché un intervento sarebbe stato sconveniente nei mesi immediatamente successivi alla diagnosi, densi di impegni per i figli e per il marito. Non l’ha detto a nessuno, s’è tenuta il suo tumore nascosto, dominando la paura (io sarei corso dal chirurgo a gambe levate) e dopo che matrimoni, lauree, viaggi e congressi si erano esauriti, se l’è fatto asportare. Ah, ho dimenticato di dire che ha portato avanti il lavoro sino ad un giorno dal parto e, con lo stesso controllo del corpo e della mente, dopo l’asportazione della massa tumorale è tornata a casa entro tre giorni, dedicandosi alle faccende domestiche con la flebo sull’asta spostabile e l’ago nel braccio. La donna – macchina non si prepara propriamente un pasto, lo fa fare per i componenti della famiglia, e ronza attorno al tavolo con mille attenzioni, cibandosi di avanzi e di parti di pietanze avanzate. In questo modo mantiene una linea invidiabile. Non prepara personalmente il cibo in virtù di un calcolo preciso, e cioè per non essere sottoposta a eventuali critiche, visto che non è un’abile cuoca. Ha eretto un’altissima siepe attorno alla propria casa, “per non essere disturbata” e si tiene rigorosamente a disposizione del marito quando quest’ultimo torna a casa. A questo scopo, per un’esclusiva disponibilità nei confronti del coniuge e per il loro bene, ha mandato a letto i bambini entro le otto di sera fino ai dodici anni, evitando così che assistessero a spettacoli televisivi sconvenienti. Ma, prima della cena, ogni sera di ogni settimana, di ogni anno, ha fatto personalmente il bagno a tutti e tre, credo sino al loro decimo anno di età, “per interrogarli sulle materie del giorno dopo e per mantenere con loro un rapporto dialettico costante”. Ha avuto decine di colloqui con gli insegnanti, “per capire cosa volessero, per conoscere le loro aspettative, fornendo poi ai figli consigli precisi e mirati”. Ha una casa al mare e una in montagna, e questa scelta nasce da due affermazioni: "in un albergo non si è liberi di educare i figli come si preferisce, né di vivere in base agli orari scelti nel corso di tutto il resto dell’anno” e “quando i figli hanno le proprie famiglie, avendo una casa al mare e una in montagna si possono offrire le vacanze preferite, stando tutti assieme”. La donna – macchina va a trovare la propria madre ogni giorno alle diciassette e ogni giovedì mattina fa la spesa all’ingrosso. Sceglie personalmente i vestiti del marito, abbina i colori, annoda le cravatte. Nella sua casa ogni angolo ha una funzione, perché lei ne ha seguito la costruzione proprio ogni giorno, personalmente. Naturalmente è sempre elegante, e anche adesso, che è una nonna in pensione, si mantiene quotidianamente impeccabile. Ho scritto questa poesia per lei.

 

Donna – macchina

è bello averti

ma è difficile imitarti.

Sei di carne o di bulloni?

Non manifesterei

grande meraviglia

se un giorno esplodessi

proiettando nell’aria

molle e micro – cips.

Esempio di robotica,

manifesto di eubiotica,

sono sicuro che nel tuo cervello

c’è un computer,

c’è un calcolatore,

un programma su dischetto.

Da dove vieni?

Chi ti ha costruita?

Mi spaventa

il controllo

che hai sulla vita.

 

 

17. NICO E MARISA

 

 

 

 

 

Nico e Marisa si conobbero all’esame di diritto privato. Erano seduti ai banchi semicircolari dell’anfiteatro e aspettavano con grande ansia di essere chiamati per affrontare quella che è una delle prove più dure del corso di studi della facoltà di legge. Nico era piegato sugli appunti, le mani unite e strette in un pugno tra le gambe, e ripeteva, come in una ciaculatoria, senza emettere suoni ma muovendo le labbra, i passaggi più importanti del programma. Era convinto del fatto che il potere ripetere rapidamente il testo dei libri e degli appunti di un esame in un’ora, prima dell’esame stesso, fosse essenziale, confermasse il fatto di avere in pugno la materia, e poi lo tranquillizzava. Marisa, invece, affermava “ prima di un esame non capisco più niente”, e se ne stava tesa, chiaccherando a fasi alterne con una compagna al suo fianco ed emettendo risatine nervose. Quel giorno le cose non andavano molto bene. Dei primi dodici, cinque non avevano superato la prova, (e, tra questi cinque, uno, ascoltato il verdetto della bocciatura, si era alzato dalla sedia con calma, aveva riposto il libretto nella ventiquattrore e aveva detto “è la quarta volta che provo; adesso vado al ponte sul Ticino e mi butto”, ed era uscito dall’aula con un’espressione cupa), cinque erano passati con il diciotto, uno con il ventidue e una con un ventiquattro. Marisa era iscritta con il numero diciotto, Nico con il ventidue. Nell’attesa, Nico le chiese “scusa, tu hai studiato anche la dispensa del Menghini?”, e lei rispose “no, guarda, so a malapena il testo” (intendeva il libro di diritto privato). Continuò Nico “no, perché vedo giù il Menghini che tiene sotto parecchio e sicuramente farà domande sul suo testo”. “Non m’importa. Ormai sono qui: o la va o la spacca”. Chiamarono Marisa, che scese timorosa, sugli stivaletti con i tacchi alti, i jeans attillati e una maglia di angora color rosa. Era molto femminile, e Nico non potè fare a meno di notare come fosse sensuale, nel camminare come nello stare seduta. Alla sedia, nel corso dell’esame, teneva il sedere indietro e il busto in avanti, accentuando le proprie forme, estremamente provocanti. Dalla sua posizione, Nico non percepiva esattamente le domande e le risposte, però era chiaro che Marisa aveva instaurato un clima colloquiale, esercitando il proprio fascino su una commissione d’esame totalmente maschile. Ogni tanto lei rideva, in modo improvviso e spontaneo, piegandosi da un lato. Da lontano sembrava una conversazione tra amici, al bar, più che un esame difficile. Lo superò con un ventisette. Risalendo le scale per raggiungere l’amica e il posto dove aveva le proprie cose, stringeva tra le mani il libretto, sorridendo. Si infilò nello stretto spazio del banco e sussurrò a Nico “forza, non è difficile, ti aspetto”. A Nico questa incitazione servì senz’altro, anche se formulò due pensieri, uno negativo e uno positivo. Il primo era “grazie tante, hai superato l’esame facendo quella che ci sta, io non posso farlo” e l’altro era “ comunque vada, ho conosciuto una bella ragazza”. Non era più concentrato. Pensava che se lei fosse diventata la sua donna, lui avrebbe salito un gradino, perché era evidente che Marisa apparteneva ad una classe socio – economica più alta rispetto a quella di Nico. Poi pensava a quel corpo sinuoso, a quel movimento arrapante. Lo chiamarono. Nico era uno che non si dava mai per vinto. Riuscì a vendere bene ciò che sapeva, e superò l’esame con un ventidue. “Bravo!” disse Marisa, scendendo le scale e andandogli incontro, con i libri di lui sottobraccio. “Andiamo al bar Teresio a festeggiare!”, e così dicendo spinse fuori dalla porta l’amica e Nico, che, sentendo il palmo della mano di lei sulla propria schiena, si disse che quello era già un bel premio per le lunghe ore trascorse per mesi nello studio del diritto privato. Al bar Teresio tutti e tre ordinarono la famosa cioccolata con la panna, tanto celebre per la sua bontà e per il fatto che se si metteva un cucchiaino nella cioccolata al centro della tazza, restava dritto, grazie alla densità della bevanda. Teresio, il proprietario, era conosciuto da tutti gli studenti della città, e fuori dal suo piccolo locale c’era spesso la ressa per entrare. Piccolo, cicciottello, armeggiava tutto il giorno con barattoli di cacao, sacchetti di zucchero, farina, latte, gelati, frullatore e scaglie di cioccolato. Quando Nico si alzò allontanandosi pochi minuti per salutare un conoscente, che frequentava ingegneria, l’amica di Marisa che faceva la massaggiatrice, le disse “che figo, me lo farei subito”. Anche a Marisa Nico piaceva. Non sembrava un tipo molto docile o estroverso, ma aveva un atteggiamento deciso, di chi arriverà dove vuole arrivare. Non era ben vestito, ma in compenso aveva magnifici occhi azzurri, ed era alto e robusto. Sara , la massaggiatrice, manifestò subito il proprio interesse verso di lui. “Sei fidanzato?”, gli chiese. “No, adesso sono solo”. “E dove vivi?”. “Abito in strada Nuova, con tre amici, in un bilocale”. “Ci porti a vedere la tua casa?”. “Va bene, andiamo” rispose Nico. Quando giunsero nel piccolo appartamento, c’era solo Angelo, al terzo anno di filosofia. “Come è andata?”, chiese. “Ventidue” rispose Nico, come sempre laconico. “E vaiii!” fece Angelo, dandogli qualche pacca sulle spalle. “Adesso faccio a pezzi tutto il materiale di diritto privato, lo stendo sul pavimento e lo calpesto per un’oretta” disse Nico. Tutti scoppiarono a ridere. “Angelo, offri qualcosa a Marisa e Sara”. Lui aprì il frigorifero e tornò con una bottiglia mezza vuota di Pepsi. “E’ rimasta solo questa”. “Va bene lo stesso”. I quattro bicchieri vennero riempiti e i ragazzi brindarono. “Fanculo diritto privato” urlò Marisa, e uscì sul piccolo balcone che si affacciava su strada Nuova. “Bello qui!” disse. Sotto di lei fluiva un fiume di persone, molte entravano o uscivano dai negozi, altre semplicemente passeggiavano guardando la fila ininterrotta di vetrine. Nico la raggiunse, e stettero così qualche minuto, guardando verso il basso, contenti di avere sbolognato l’esame e, all’insaputa l’uno dell’altra, di essersi incontrati. “Cosa fai stasera?” gli chiese Marisa. “Mah, niente di speciale, andrò in mensa al Cravino con i miei compagni, oppure faremo una carbonara qui”. “Io faccio la baby – sitter in una famiglia, dalle otto e mezza a mezzanotte. Vieni a trovarmi?”. “Va bene, dammi l’indirizzo”. Lei lo scrisse, strappando poi il foglietto da un’agendina rosa che teneva nella borsa. Verso le sei di sera si salutarono. Sara aveva lasciato il campo libero a Marisa, avendo notato l’interesse reciproco tra i due, e si era concentrata su Angelo. Alle otto di sera Nico si fece una bella doccia, si buttò addosso una grossa quantità di profumo DRAKKAR e, vestitosi, si mise in strada. I compagni seduti intorno al tavolo di quello strano appartamento (il bagno aveva la finestra che si apriva sulla cucina) erano al secondo giro di carbonara. Quando passò Nico, in un alone di profumo e con la sua giacca di renna, Cesare emise un lungo fischio di apprezzamento con due dita fra le labbra, e felice esclamò “stasera si cucca!”. Nico percorse a piedi i tre chilometri circa che separavano la sua casa, al centro, da quell’indirizzo in periferia. Si sentiva leggero e quasi felice: dopo mesi di sacrificio aveva messo a segno in poche ore due grossi colpi. “Del resto, fare l’università e questo” pensò “mesi di isolamento e di sacrificio che si giocano in un momento”. Certo, il premio costituito dal conoscere Marisa non era previsto. L’aria di Pavia era mite e profumata e aveva un odore di mare, il mare della Liguria, a meno di due ore di auto. Su questo fatto molti non erano d’accordo, escludevano che il mare si facesse sentire fino a lì, ma Nico invece quel profumo lo sentiva, e se lo gustava particolarmente in quella morbida sera di aprile. Trovò la villetta a schiera. Suonò al citofono con la scritta “Ghisolfi”. “Chi è?” fece Marisa. “Sono io, Nico”. “Scendo ad aprirti”. Salirono e si sedettero sul divano della sala. La bambina dormiva. “Metto un po’ di musica”. A basso volume scivolarono nella stanza le note di “Figli delle stelle”, di Alan Sorrenti. Sarebbe diventata poi la loro canzone. “Cosa vuoi da bere?” “Vedo che c’è il Martini rosso: a me va benissimo”. “D’accordo: due”. Erano seduti l’uno vicino all’altra. “Oggi gli assistenti, all’esame, ti facevano il filo” disse Nico, già geloso. Marisa scoppiò in una allegra risata, portandosi subito una mano alla bocca per non svegliare la bambina. “Ma vaa, figurati, li ho solo fatti ridere. Prima, quando mi hanno chiesto se avevo studiato sulla dispensa del Menghini e io ho risposto che l’ho cercata in tutte le librerie, ma è esaurita, e poi quando il professore Patriarca ha detto che non mi ha mai visto alle lezioni e io gli ho risposto che all’inizio dell’anno c’ero, poi sono stata ammalata di polmonite e ho studiato a letto. Sicuramente hanno mangiato la foglia, ma hanno preferito riderci sopra piuttosto che approfondire”. Concluse la frase con una risata cristallina. “La solita tecnica della donne, agli esami: far credere di essere disponibili. Per non parlare di quelle che disponibili sono veramente, e prima degli esami”. Marisa non si offese. ”Ma dai, alla fine agli esami è sempre la stessa storia: donna o uomo, passi se metti assieme le risposte”. “Questo lo dici tu”. Nico non potè trattenersi dal dire ciò che pensava da sempre. “Se togliamo le belle ragazze, i leccaculo sempre in prima fila alle lezioni, i figli dei baroni, gli amici dei figli dei baroni, i raccomandati dai preti e dai politici, quelli che hanno mandato la mamma a parlare con il professore e, probabilmente, chi ha pagato, chi resta da segare? Le ragazze brutte e i maschi che non appartengono a queste categorie!”. “Suu, diritto privato è andato, ed era una bella rottura di palle. Questa sera dobbiamo essere allegri”. Così dicendo, Marisa gli aveva avvolto le spalle con un braccio. Nico era infervorato. “Una volta ho visto il Porti fuori dallo studio del professor Santanastasia. Il bidello gli ha preso il libretto, l’ha portato dentro, il libretto è uscito con il voto, sicuramente un trenta, e il Porti l’esame non l’ha neanche fatto”. Il Porti era un noto raccomandato del loro corso, che in effetti filava via come un treno senza molta fatica e senza troppi scrupoli. “Adesso basta, Nico, ascolta questa musica”. Con una mano voltò verso di se il volto di lui, e lo baciò a lungo. I muscoli di Nico si rilassarono. Era il bacio più bello che avesse mai ricevuto. Trascorsero più di due ore su quel divano, abbracciati, baciandosi ed esplorando i propri corpi, finchè sentirono la chiave dei genitori della bambina girare nella serratura. I due coniugi li trovarono piuttosto scomposti e spettinati (Marisa aveva fatto appena in tempo ad accendere la luce, anche se i proprietari della casa, vedendo dalla strada che tutto era spento, avevano comunque salito le scale con un certo sospetto). Imbarazzati, i due giovani si sistemarono alla bell’e meglio e, salutarono. Marisa ricevette il compenso dovuto, ma perse il posto: lì non venne più chiamata. I mesi successivi furono indimenticabili. I due giovani erano sempre assieme, studiavano assieme, mangiavano assieme, e quando calava la notte facevano l’amore sul prato di una scuola materna in periferia, dopo avere scavalcato il recinto. Con l’inizio del nuovo anno accademico, a novembre, trovarono un locale tutto per loro. Marisa aveva qualche risparmio. Comprarono un letto a castello, che alla sera adattavano a letto matrimoniale, portando a terra la parte superiore. Nico era determinato negli studi, e faceva da elemento trainante. Il loro divenne un rapporto esclusivo e strettissimo: niente amici, solo loro due, nel lavoro e negli svaghi. Comprarono due biciclette di seconda mano, con le quali si spostavano dalla casa agli istituti. Nico aveva abituato Marisa a seguire le lezioni. In quanto al fatto di prendere tutti gli appunti, lei, più pigra, evitava di farlo, tanto poteva contare su quelli di lui, sempre completi e scritti con una bella grafia. Gli appunti di Nico erano cercati da molti compagni di corso, e fotocopiati di continuo. Nico fece conoscere a Marisa il suo migliore amico, Giuseppe, detto Peppe, uno studente perditempo che aveva superato due esami in tre anni. La simpatia di Nico verso Peppe contagiò anche Marisa. I due ragazzi si conoscevano dal liceo, che avevano frequentato nella stessa classe. Peppe aveva sempre molti soldi in tasca. Ricercato nel parlare e nel vestire, si alzava tardi, attorno a mezzogiorno, nel pomeriggio si dedicava quasi sempre alla scala quaranta con altri sfaccendati, e solo di tanto in tanto, quando aveva l’ispirazione, toccava un libro, lo apriva con un grande sospiro di rassegnazione e, il gomito sul tavolo, la testa sostenuta da una mano, sfogliava annoiatissimo le pagine. Nico, invece, trascinava Marisa in un lavoro serio, che prevedeva solo la domenica come giornata di svago. Dal lunedì al sabato, oltre alle lezioni, c’era un programma intenso, sei ore di studio. Ad ogni ora corrispondeva una crocetta sul foglio, e sinchè non c’erano sei crocette , per Nico, e di conseguenza anche per Marisa, la giornata di lavoro non si poteva considerare finita. Sui libretti, il numero degli esami superati cresceva. Com’era bello aprire il libretto dalla copertina color bordeaux, con lo stemma dell’università, e leggere l’elenco degli esami fatti, rendendosi conto che il numero di quelli ancora da affrontare era inferiore. Ma, come si dice, non tutte le favole durano per sempre, o finiscono bene. Marisa incominciò a ribellarsi. Voleva, sì, laurearsi, ma anche divertirsi. Decise che non avrebbe più frequentato le lezioni (“tanto gli appunti li porti tu”), poi arrivò a ridurre le proprie ore di studio pomeridiano da sei a tre. Nico era rattristato, ma andava avanti con le sue crocette. In quella occasione, come in altre, prima e dopo, nel corso della sua vita, una caratteristica del suo modo di reagire ai problemi era e sarebbe sempre stata quella di tenersi stretto al lavoro, impegnarsi a testa bassa per reagire. I litigi tra i due giovani erano ormai quotidiani, e, del resto, non poteva essere diversamente, perché Marisa rallentava il ritmo di studi di Nico, e pretendeva di ottenere in tre ore al giorno ciò a cui lui dedicava circa dieci ore. Un pomeriggio, dopo un litigio particolarmente aspro, Marisa uscì di casa e si allontanò, inforcando la bicicletta. Nico si costrinse a studiare. Dopo le sei crocette si poteva anche fare una baraonda, ma non prima. Addirittura, se una discussione portava via venti minuti, lui si imponeva venti minuti di recupero. Quella sera Marisa dormì fuori. Nico la attese tutta la notte, dentro la casa, camminando fuori avanti e indietro, cercandola nel quartiere. Telefonò persino ai genitori di lei, che già non vedevano di buon occhio questa relazione, ottenendo solo brevi risposte scorbutiche e molte domande cariche di apprensione. Marisa non tornò per cinque giorni, durante i quali Nico mise tutta la sua straordinaria determinazione nel vivere una vita normale e non perdere tempo. Alla sera del quinto giorno, lei bussò alla porta della loro casa. Quando Nico aprì era travolto dal desiderio di abbracciarla, dalla rabbia, dal sospetto, dalla tristezza. “Porto via la mia roba” disse Marisa. “Perché, cosa ti ho fatto?”. “Nico, non ti sopporto più, non tollero più i tuoi ritmi, dentro questa casa soffoco. Io voglio anche divertirmi, andare in discoteca, vedere gli amici. Non c’è solo lo studio!”. “Ma non avevamo progettato di laurearci presto e lavorare assieme?” “Sì, ma una vita con te sarebbe la stessa cosa: solo sacrificio, solo sgobbare”. Nico si sedette e la guardò riempire la borsa. Portò via anche le sue tazze per la tisana e il peluche sul televisore arancione portatile. “E dove andrai?”. “Da una mia amica”. “Chi è? Posso sapere l’indirizzo?”. “No, e poi non la conosci”. Quando Marisa richiuse la porta, Nico non ce la fece proprio ad andare avanti a studiare. Si sdraiò sul letto inferiore e, a notte inoltrata, vinto dalla stanchezza e dallo sconforto, dormì un sonno pieno di incubi, in cui una volpe dal bellissimo mantello (era forse una delle pellicce di Marisa?) lo rimproverava, accusandolo di perdere le cose importanti per l’eccessiva dedizione al lavoro. Venne poi a sapere che “l’amica” presso cui Marisa si era trasferita in realtà era Peppe. Il giorno in cui lo seppe, Nico salì sulla bicicletta, attraversò la città pedalando come un pazzo, salì fino alla porta dell’amico e, siccome nessuno apriva, la sfondò. Cercò le tracce, le prove di quanto gli era stato riferito. Trovò solo un disegno a matita del volto di Peppe, firmato da Marisa. I due, come venne a sapere a distanza di alcuni mesi, conoscendo quanto fosse pericoloso farlo arrabbiare, si erano trasferiti in una pensione. Nico lasciò quella casa, lasciò Pavia, sul treno pianse. Non lo sapeva ancora, ma aveva imparato che il lavorare non è sempre e solo positivo, e può far perdere valori più importanti. Restò nella sua città di origine un mese, sempre aggrappato allo studio, e alle sue crocette, che erano diventate dieci al giorno. Per molte notti sognò di calpestare le mani di Peppe con scarpe dotate di grossi tacchi, quelle mani che toccavano Marisa.

 

 

 

18. ILLUMINATO DA DIO

 

 

 

 

 

Il dottor Giorgi ogni mattina consumava una sana colazione a base di succo di arancia, due fette di pane tostato con marmellata di albicocche e una mela, poi si recava all'ospedale dopo aver baciato sulla fronte la moglie Anna e i tre figli e avere scritto un promemoria per la cameriera Mariuccia, con annotazioni del tipo “dica al giardiniere di potare meglio la siepe di ligustro sul lato verso la strada”, oppure “stiri di nuovo il mio completo marrone e, per piacere, stia più attenta: è stirato male”. Aveva tutto sotto controllo. Conosceva il grado di consumo delle pastiglie di cloro negli skimmers della piscina, procurava personalmente i prodotti per la manutenzione dei mobili antichi, chiamava l’elettricista ogni qualvolta fosse bruciato anche solo uno dei centoquattordici faretti incassati nel controsoffitto del salone nel seminterrato, il controsoffitto costituito da pannelli di legno riportanti lo stemma di famiglia. Lo stemma di famiglia se lo era inventato lui, affermando “perché devo farmi prendere in giro da chi ricostruisce le tue origini a pagamento, dichiara che sei un marchese e ti stampa tanto di logo: il mio stemma me lo disegno io, perché deve avere un significato per noi”. Dal momento che aveva conosciuto la moglie Anna durante la raccolta delle mele (lei aveva sedici anni, lui diciotto) e siccome da quell’incontro era nata una famiglia con tre figli, disegnò uno stemma così concepito: al centro di uno scudo adornato da rami di alloro c’era una G, e agli angoli della scudo c’erano cinque mele rosse, cinque come erano loro. Andava molto fiero del suo stemma, riportato anche sulla carta intestata, sulle porte dei suoi studi privati, su armadi e grucce per gli abiti. Si era fatto da solo, con caparbietà. Immaginate un bambino timido, schivo, che cresce in una famiglia di sei fratelli. Penultimo dei sei, si rese conto ben presto che la vita significava prendere ordini. “Antonio, vai a fare la spesa”, “Antonio, butta via la spazzatura”, “Antonio, sveglia, quand’è che mi porti la minerale?”. Aveva studiato sodo, e, conclusa la scuola di specializzazione in chirurgia toracica, sgomitando era entrato nella scuola di specializzazione in chirurgia generale. Nel contempo, era entrato come assistente nel reparto di chirurgia del policlinico della sua città, fino ad arrivare alla carica di primario. Adesso era lui a dare ordini a tutti, ed esercitava questo potere con fermezza, spinto soprattutto dal bisogno di tenere tutto sotto controllo e di sapere che ogni medico, ogni infermiera, ogni segretaria o addetto alle pulizie del suo reparto faceva esattamente ciò che lui voleva. A questo scopo lasciava bigliettini un po’ ovunque: “mi prepari questa lettera in sei copie entro le sedici e trenta”, “faccia pulire meglio i bagni”, “il paziente della camera sedici tiene il volume del televisore troppo alto: provveda”, “se vuole fare carriera nel mio reparto arrivi puntuale”. I temuti biglietti gialli adesivi punteggiavano molto spesso scrivanie, porte e armadietti degli spogliatoi. Ma voglio riportarvi alla sua mattina. Dunque, baciata la famigliola e salutatala con un “buon lavoro” percorreva il viale del suo giardino. Quasi sempre si soffermava qualche minuto, la borsa in mano, ad ammirare le aiuole curate, la magnolia centrale, i vetri colorati della veranda, le casette per gli uccelli, il portico rivestito di legno. Sorrideva, e apriva con il telecomando il portone dell’autorimessa. Salito sulla sua Jaguar S-type tremila avviava il motore, allacciava la cintura, regolava specchietto e climatizzatore, accendeva la radio per ascoltare il telegiornale e a quel punto, avendo riscaldato sufficientemente il motore, usciva dall’autorimessa, perlinata con liste di pino. Non voglio annoiarvi descrivendovi il suo modo di catalogare i vecchi pneumatici usati, o le etichette sulle damigiane di olio fatte spedire dalla Puglia, o come allineasse stivali e scarpe fuori uso sugli appositi scaffali: tutto il suo mondo era catalogato. Ho fretta di raccontarvi quale fosse la vera peculiarità della sua vita. Dunque: eccolo che esce di casa, se è primavera abbassa il finestrino della Jaguar e aspira profondamente il profumo dei suoi fiori, con il telecomando chiude alle proprie spalle il cancello (anch’esso riporta lo stemma di famiglia) e si dirige verso l’ospedale. Timbrerà il cartellino alle otto precise. Quanto gli piaceva vedere da lontano, sulla porta a vetri del suo reparto, la scritta “REPARTO DI CHIRURGIA – DIRETTORE DOTTOR ANTONIO GIORGI “! A questo punto del racconto dobbiamo entrare nella seconda parte, quella che descrive la sfera mistica della sua esistenza, quella che spiega come il nostro protagonista fosse il punto di arrivo d’un religioso pellegrinaggio di ammalati, di senza speranza. Prima di varcare la soglia del reparto di cui era comandante assoluto, piegava a destra, per raggiungere la cappella, e lì già lo attendevano pazienti con le famiglie, suore, ambiziosi assistenti desiderosi di mostrargli la propria fede, e, di tanto in tanto, anche giornalisti. Lui procedeva imperturbabile fino all’inginocchiatoio più avanzato, più vicino all’altare, e lì, steso il fazzoletto per non sporcare i calzoni, si componeva in una figura che esprimeva una straordinaria concentrazione, la fronte appoggiata sulle mani, una a pugno accolta nel palmo dell’altra, i gomiti sul legno di quercia, il volto piegato verso il basso, gli occhi chiusi. Dopo dieci minuti di assorta preghiera si alzava e, spalancando le braccia, diceva ad alta voce: “Dio, dai alle mie mani la tua forza e la tua sapienza, guidami nel mio lavoro, entra nelle mie dita, affinchè come un pastore che soccorre le pecorelle ferite del suo gregge, io possa guarire chi si rivolge a me!”. E ancora: “Entra dentro me, Signore dell’universo, conducimi nelle tenebre, sii la guida dei miei gesti, illuminami nel guarire e nel salvare!”. Mentre pronunciava queste parole tutti si inginocchiavano e facevano il segno della croce, lui le ripeteva voltandosi verso il pubblico, con gli occhi spiritati, dilatati in un’accorata richiesta di aiuto. Negli anni sono state raccolte testimonianze di ogni tipo. C’è stato chi ha detto di vedere, nel mistico momento, un fascio di luce avvolgere il dottore (una variante è: avvolgere le mani e il volto). C’è stato chi ha affermato di vedere sopra a lui un’aureola, chi le stigmate sui palmi delle mani, chi una colomba bianca, quasi trasparente, che si è calata su una sua spalla. C'è stato chi ha visto il dottore piangere sangue e chi lo ha visto levitare. Così si è creata la leggenda. Questo medico, cicciottello, piccoletto e calvo è diventato un santo, e la lista di attesa dei suoi interventi è rimasta, sino al suo pensionamento, nella media dei tre anni. Temuto dai subalterni, odiato dai colleghi che lo hanno sempre definito un buffone e un megalomane, idolatrato dai pazienti e dalle suore dell’ospedale, il dottor Giorgi ha portato avanti la sua “recita” (come la chiamavano e ancora la chiamano i detrattori) per un ventennio. Era anche frequentissimo che desse vita ad estemporanee manifestazioni di fede durante un intervento chirurgico, o al letto di un malato grave. Si inginocchiava, anche con il bisturi in mano, pregava, invocava l’aiuto dell’Altissimo, imponeva le proprie mani sul volto dei pazienti, dicendo “Queste mani sono guidate da Dio”. Quando ciò accadeva in corsia, era tutto un farsi il segno della croce, recitare il rosario, piangere sommessamente. Non più solo primario e padrone, ma signore e prescelto, nel suo reparto. Il fatto è che ci credeva veramente. Lui diceva che tutto era incominciato quando, a quarantacinque anni, mentre eseguiva un intervento difficile, che presentava molti gravi imprevisti, sudando copiosamente nel tentativo di strappare il paziente ad una morte ormai sicura, pregò dentro sè con grandissima intensità, e sentì le tempie e le mani farsi bollenti. Diceva che le sue dita acquistarono in quel momento un’autonoma abilità del tutto particolare. Effettivamente il paziente si salvò. Nel corso del tempo ai colleghi della psichiatria venne chiesto, da un folto gruppo di medici dell’ospedale, che aveva preso l’iniziativa “per salvare il buon nome del policlinico”, di studiare il caso. Lo fecero, da lontano, in modo discreto. Analizzando i dati, il numero delle morti e degli interventi riusciti era sovrapponibile a quello degli altri nosocomi, di male il dottor Giorgi non ne faceva, sicuramente attirava verso la clinica un gran numero di malati, per cui, fanatico ed esibizionista, o sincero credente che fosse, in definitiva alla comunità dell’istituto faceva sicuramente più bene che male. Venne lasciato in pace, tollerato. Riceveva una cinquantina di lettere di raccomandazione e di preghiera ogni giorno. Tra i pazienti giravano reliquie gestite dalle suore, tipo fili di cotone del camice, frammenti di sue ricette, penne biro esaurite e da lui gettate nel cestino, immaginette toccate dalle sue mani. Quando andò in pensione, poco a poco tutto rientrò nella normalità. La lista di attesa arrivò ad imporre non più di trenta giorni prima dell’intervento. Adesso il dottor Giorgi è un pensionato, apparentemente sereno. Riceve ancora qualche lettera, da parte di pazienti da lui curati che attribuiscono la guarigione alle divine proprietà delle sue mani. Aiuta spesso il vecchio giardiniere Saro, godendosi le amate rose gialle. Dei figli, nessuno ha percorso la sua strada: La bambina è diventata una pianista, uno fa il regista alla RAI e il terzo ha un allevamento di ciuaua. A lui va bene così, si sente più che realizzato. Da bambino timido e obbligato a servire tutti è diventato un primario – santo. Cosa poteva chiedere più dalla vita? Il giorno del pensionamento le suore gli anno regalato una medaglia d’oro che rappresenta due mani rivolte verso l’alto nell’atto di liberare una colomba: la tiene sempre al collo.

 

 

19.QUANDO IL CORPO TRADISCE

 

 

 

 

 

Moreno era un bel ragazzo. Alla scuola media la preside Vaninetti lo chiamava “il bellissimo Gegè”, probabilmente citando un testo letterario o un film. Analizzando le vicende di quei tre anni di media si conferma il fatto che le ragazze siano più mature dei maschi, perché parecchie compagne, che già mettevano il reggiseno e si truccavano, ma anche alcune non altrettanto emancipate, gli facevano capire che a loro piaceva, ma lui era indifferente alla cosa, e si dedicava molto più volentieri alla collezione di minerali e alla pallacanestro. In particolare, due lo tampinavano: la Pirelli, già prosperosa e dotata di una certa malizia, ma, ahimè, parzialmente deturpata al viso da alcune cicatrici, conseguenza di un grave incidente, e la Parioli, molto meno appariscente, non bella, ma testarda. La Pirelli era tutta cuori disegnati sul diario, ritagli di immagini di cantanti e attori dai giornali, dischi di Mal, Baglioni, Gianni Pettenati, smalto sulle unghie e programmi radiofonici, mentre la Parioli era una ragazza “casa e scuola”, senza grilli per la testa. Probabilmente le dava anche un certo fastidio, in fondo in fondo, prendere atto di questa sua debolezza, dell’attrazione che provava nei confronti di Moreno, perché questo sentimento non aveva niente a che fare con i precisi programmi in base ai quali si sarebbe svolta la sua vita. Come si può immaginare, mentre la prima ci provava apertamente, dentro e fuori dalla scuola, la seconda assecondava il proprio amore con forzata parsimonia, andandolo a vedere durante una partita di basket, ma dietro, nell’ultima fila, per non farsi notare, e quando lui faceva un canestro si tratteneva a stento dall’unirsi alle grida di incitamento dei tifosi e dell’alzarsi in piedi per gridare “Bravo!”. Univa le mani in un leggero applauso, ma sorrideva. Sapeva di non essere bella, nonostante i lunghi capelli biondi, e Moreno restava il suo sogno, ben lontano dal realizzarsi, lo sapeva bene, considerate l’indifferenza di lui e la diversità tra loro, sul piano delle doti fisiche. Insomma , ecco Moreno, come un sole, tra tante stelline che gli ruotano attorno e due pianeti che lo pressano da vicino, l’uno discretamente, l’altro sfacciatamente (a questo punto qualche lettore potrebbe dire che, tecnicamente, se c’è il sole non ci sono le stelle, ma mi vorrete pure dare una concessione poetico – astronomica!). Una volta, durante l’intervallo, quando si scatenava tra i maschi la lotta con il lancio del cancellino, siccome la Pirelli era l’unica ragazza che partecipava a queste guerre, e siccome il cancellino era in mano al Libera, già pugile dilettante e superiore agli altri di un venti chili di peso, nello scatenarsi di un fuggi- fuggi generale in sensi contrari all’interno dell’aula Moreno andò a sbattere (rimbalzando) contro il già considerevole seno della compagna, e mentre lui restava per pochi secondi scioccato da quella prima esperienza di contatto con il morbido, materno attributo, intontito e con un mezzo sorriso da ebete sulle labbra, lei lo guardava maliziosa, e sorrideva sfacciatamente, come per dire “adesso hai capito cosa ti perdi?”. Venne svegliato dal cancellino lanciatogli con micidiale precisione sulla guancia dal Libera. Una mattina la professoressa Pedrazzoli, consegnando i compiti in classe di italiano, gli disse “va bene, ma apriti di più, apri quella porticina che hai dove c’è il cuore” e lo disse come un’affettuosa esortazione. Tornando al suo posto con il foglio di protocollo tra le mani dovette passare davanti al banco della Pirelli che lo sbeffeggiò dicendo “su, Moreno, apri quella porticina”, e lui “non certo a te”. Molti anni dopo si ritrovò più volte a pensare perché fosse così antipatico e scostante nei confronti di una coetanea tutto sommato simpatica, con qualche cicatrice sì, ma florida e disponibile. La risposta tuttavia, è semplice: non era ancora spinto da quegli stimoli ormonali che si sarebbero fatti sentire solo più tardi, e che fanno di ogni maschio un essere umano piuttosto fragile, nel senso che corre dietro ad ogni illusione erotica, ad ogni anche remota possibilità di un’avventura sessuale. Un pomeriggio la Parioli suonò il citofono dell’appartamento di Moreno. Aveva preso il coraggio a quattro mani, sì, a quattro mani, perché aveva portato con sè la sua amica più cara, che frequentava un’altra scuola, per mostrarle con orgoglio l’oggetto del suo amore. Il ragazzo scese, ma annoiato, e soprattutto in pantofole, con la camicia mezza fuori dai pantaloni, e la Parioli, delusa e amareggiata da quella chiara manifestazione di disinteresse, dovette liquidare subito la faccenda con un “ciao, volevamo solo salutarti” e levare i tacchi. Cercando di consolarla sulla strada del ritorno verso casa l’amica le disse “però è vero, è veramente bello”, e questo non fece altro che peggiorare lo stato d’animo della Parioli, che in quell’episodio vedeva solo una conferma del fatto che la sua battaglia sarebbe stata sicuramente persa. In sostanza Moreno arrivò a compiere i quindici anni in questo contesto, non attratto dall’altro sesso, e portando su di sè una bellezza che non gli serviva. Dopo l’esame di terza media intravide ogni tanto la Parioli, per le strade della città, mentre non rivide mai più la Pirelli, trasferitasi con la famiglia per seguire il padre, maresciallo dei Carabinieri. Moreno passò alle superiori, e non “passò” inosservato. Nei corridoi molte studentesse lo guardavano di sottecchi e alcune, più grandi, incrociandolo si scambiavano qualche risatina e qualche commento. Lui c’era ormai abituato. Continuava a giocare a basket e a collezionare minerali, ottenendo anche buoni risultati scolastici. Per tutto il primo anno non pensò alle ragazze, fomentando involontariamente l'invidia e la gelosia di coloro i quali a quelle ragazze ci avrebbero tenuto. Al secondo anno entrò nella classe di Moreno una ragazza proveniente da Milano. Entrò proprio il terzo giorno di scuola, presentata dal preside. Dire che Moreno venne colpito da un giavellotto in piena fronte significa utilizzare una metafora che si avvicina molto al vero, e indica le dimensioni del colpo. Edvige era bella, alta, slanciata, mora, una sorta di Moreno al femminile. Portarono un banco e lo piazzarono contro il fianco della cattedra, così tutti, per l’intera durata delle lezioni avevano davanti il bel profilo della nuova arrivata, con quel naso all’insù e le ciocche di capelli a cascata, a mo’ di tenda, per proteggersi almeno in parte dai quarantasei occhi che la osservavano. Da quel profilo Moreno staccava lo sguardo molto raramente, giusto il tempo di prendere qualche appunto importante. Edvige non conosceva nessuno, né in città, né a scuola. Venne subito presa di mira dagli studenti delle classi superiori, che si offrivano di portarla a casa, di aiutarla nei compiti, di farsi carico della borsa dei libri. Lei ringraziava timidamente, rifiutava con gentilezza. Era molto femminile, per nulla appariscente, semplice nel vestire, ma inevitabilmente bella. Moreno fu aiutato dalla fortuna. Durante una gita “d’istruzione” a Firenze (in quei tempi si chiamavano così) si trovarono fianco a fianco sul treno, per cui fu abbastanza semplice scambiare qualche parola. Moreno si era messo il maglione nuovo fatto dalla madre, con la M sul petto. Aveva una camicia col colletto grande, a macchie blu sullo sfondo bianco (allora si usava portare il collo della camicia fuori dal maglione, steso con le sue larghe falde), e i jeans Jesus. Si sentiva elegante. Le Clark ai piedi, l’orologio subacqueo, si poteva considerare al massimo della forma. A Firenze Moreno ed Edvige fecero coppia fissa. Lei trovava il compagno discreto e gentile, per nulla aggressivo, lui era intontito da quelle ore che avrebbe voluto congelare. Si scambiarono i panini portati da casa su una panchina dei giardini di Boboli. Agli Uffizi Moreno le elencò i nomi di tutti i quadri più importanti e nel duomo ascoltarono la storia della costruzione della chiesa dalla stessa cornetta: in quella occasione lui chiuse gli occhi tra i capelli di lei, inspirando il profumo più buono che avesse mai conosciuto. Era così felice che sul ponte vecchio entrò nel negozio di un orefice e investì tutto ciò che aveva in un braccialetto d’argento. Quando lo allacciò al polso di un’Edvige incredula e commossa, si strinse tra loro un patto, un accordo tacito che sanciva il loro legame. Gli altri studenti li osservavano. Ora, “corre necessità” per me, come narratore, di formulare a questo punto una riflessione, di dire il mio parere sugli “altri” appunto. Mi è stato riferito, da un profondo conoscitore del comportamento e della mente umana, che qualsiasi cosa una persona faccia, dico: qualsiasi, il 50% di chi ne viene a conoscenza se ne frega completamente, il 25% approva e il 25% disapprova. Matematicamente. Questo significa: non preoccuparti troppo del giudizio altrui. Secondo me, in quella giornata a Firenze, lo 0% di chi vide Moreno e Edvige restò indifferente e il 100% li invidiò. Ci metto dentro anche insegnanti, parenti, custodi di chiese e musei. L’invidia è una brutta bestia, è forse il sentimento più diffuso. Non dimentichiamo, poi, che, in quel contesto, tra gli spettatori c’era un nutrito numero di persone che aveva ambito ad uno dei due componenti della nuova coppia. Una nuova coppia che si mantenne tale per i successivi anni. Moreno ed Edvige trassero dal loro rapporto quotidiani momenti di felicità, si aiutavano nello studio (lui era decisamente più bravo in italiano ma era una frana in matematica, mentre lei capiva meglio l’algebra e la geometria, ma non amava i classici), traevano forza l’una dall’altro, e siccome, poi, non avevano grandi amicizie, si ritrovarono ad essere anche i migliori amici, l’una dell’altro e viceversa. Ciò che tradì Edvige fu il suo stesso corpo. Aveva incominciato ad ingrassare impercettibilmente, ma progressivamente, a partire dal terzo anno della scuola superiore, e contemporaneamente a perdere i capelli. Se voi appartenete ad una fascia di età sopra ai cinquant’anni tenderete ad attribuire scarsa importanza a questi fatti, perché l’80% delle persone, dopo il cinquantesimo anno, denuncia una calvizie e un aumento di peso pronunciati. Ma se avete anche soltanto trent’anni e pensate a voi stessi o ai vostri coetanei, vi renderete conto che ce n’è già un buon numero infastidito da tali problemi. Con questo voglio dire che l’ingrassare e il perdere i capelli sono eventualità non gradevoli, ma accettate, nella misura in cui l’età avanza. Ma a diciassette anni , quando si è sempre state prima una bella bambina e poi una bella ragazza, a diciassette anni, quando un foruncolo non fa uscire di casa, quando il tuo fidanzato è bello, stabile fisicamente, attraente, e lo vedi lì, mangiato con gli occhi da tante donne che si frenano perché ci sei tu, che sei bella (sempre meno), a cui lui vuole bene (ma te ne vorrà ancora vedendoti cambiare?), a diciassette anni è un vero dramma. Vi garantisco che è una vera tragedia. Edvige venne sballottata da psicologi a dietologi, da endocrinologi a dermatologi, da ginecologi ad internisti, ma non si ottenne niente. Il peso aumentava e i capelli diminuivano. Cadde nella rete dei truffatori autorizzati, che vendevano lozioni e impiastri totalmente inutili, inutili perché il responsabile della calvizie è un ormone, il deidroepiandrosterone, e se è presente in eccesso i capelli cadono. Oggi si può ottenere farmacologicamente qualche successo, ma non trent’anni fa. Diventò parrucchiera-dipendente, facendosi propinare trattamenti costosi e totalmente inutili, e recandosi nel salone non meno di due volte alla settimana. Ogni sera si faceva massaggiare dalla mamma, sul cuoio capelluto, una gelatina abominevole, venduta al costo dell’oro, imbrogliata da quelle dimostrazioni fotografiche che fanno vedere la situazione “prima del trattamento” e “dopo il trattamento”, così triste e ferita da credere a tutto. Controllava e contava di continuo il numero di capelli caduti sulle spalle, faceva i confronti con le compagne, verificava la quantità persa nella spazzola o nel pettine. Come i capelli diminuivano, il peso aumentava: in due anni e mezzo passò da quarantotto a settanta chili. Se vi dico che pensò seriamente di suicidarsi per morire in una condizione ancora guardabile, credeteci, perché è vero. Immaginò se stessa centinaia di volte nella bara, ancora forse presentabile, e questa possibilità, il suicidio, la consolava, perché davanti ad un improvviso, inusuale, inarrestabile declino, era pur sempre un freno, una soluzione. Sono così i giovani: benché affermino il contrario, attribuiscono un gran peso al giudizio altrui, e pensano alla morte come ad un atto denso di significati, capace di lanciare chissà quali messaggi. Invece, dopo un’ipocrita manifestazione di dispiacere e un’autentica festa di pettegolezzi, tempo due, tre giorni, la gente ha già bell’e che dimenticato, e tu sei lì, sottoterra, con le tue speranze e i tuoi progetti mangiati dai vermi, il mondo ti ha già voltato le spalle. Tra le tante diagnosi formulate in merito al degrado di Edvige, quella che prevalse (in mancanza di prove scientifiche) fu l’ipotesi psicosomatica, e cioè si attribuirono i problemi fisici ad un malessere mentale, ad una condizione psichica di sofferenza. Per una donna perdere i capelli è una vergogna, è un problema vissuto come una colpa. A diciassette anni lo è anche per un uomo, ma per una donna è peggio. Ad Edvige vennero prescritti antidepressivi e ansiolitici. I genitori parlarono con i professori, ed essi cercarono di soprassedere quando la giovane si mostrava intontita, incapace di scrivere più di una facciata di tema, impreparata e confusa nella lezioni. Non la bocciarono. Venne promossa: sei in tutte le materie e otto in comportamento e religione. Moreno non si comportò come lei temeva, non la abbandonò, e continuò a volerle bene. Si mostrò una persona leale e comprensiva. Vedeva, sì, il cambiamento di Edvige, ma attribuiva ad esso una dimensione molto inferiore rispetto a ciò che riteneva lei stessa. Non c’è altro da dire: passarono alcuni anni, lei non fu più la giovane donna che faceva voltare i maschi, mentre lui continuò ad essere un bell’esemplare di uomo. Ho sentito dire che si sposarono: forse hanno dei figli, molto probabilmente belli. Questa storia finisce bene perché, senza allontanarsi dalla realtà, ha potuto parlare di un amore leale, e di una persona leale, Moreno, che non ha visto o ha fatto finta di non vedere: per lui la sua Edvige è sempre rimasta quella del fulmine iniziale, quella entrata nella sua aula e nella sua vita al terzo giorno del secondo anno delle superiori.

 

 

20. UN UOMO LIBERO

 

 

 

 

Camillo dice di essere un uomo libero. Lo dice perché non ha un lavoro, non ha una famiglia, e a quarant’anni trascorre le giornate in bicicletta. Piccolo, magro, con radi e lunghi capelli grigi e una barba da capretta, era , da giovane , una guardia forestale. Mi ha spiegato, in modo confuso, perché se n’è andato: credo di aver capito che riteneva non tollerabili le ingiustizie e il clima di corruzione che regnavano nell’ambiente. Ha accennato a clamorose sue proteste davanti al Quirinale, delle quali diedero notizia i giornali, ma poco importa: prima dei vent’anni era già una persona “volontariamente senza lavoro, cioè libera”. Per usare le sue parole “non ha mai commesso l’errore di sposarsi e avere figli”, e vive con la mamma, la quale, con la propria misera pensione, provvede alle bollette, ai pasti e a ciò che serve anche a Camillo, il quale, vegetariano e di scarso appetito, a dire il vero vive proprio di poco, e una rapa più qualche frutto di stagione prelevato direttamente dalle piante, tra i campi, gli bastano a costituire un pasto. Per i vestiti si arrangia, perché non gli interessano, li chiede agli amici dicendo “dammi quelli che butteresti via”, quelli che ha li porta all’infinito. Lo stesso vale per le scarpe. Se lo si guardasse con gli occhi della statistica e considerando i parametri del nostro mondo occidentale si dovrebbe dire che vive al di sotto della soglia di povertà, perché escludo che arrivi ad avere in mano e a spendere più di duecento euro al mese. In realtà, Camillo non si sente povero, non è povero, perché ha tutto ciò che gli serve. Intanto non è goloso, anzi, è finito tre volte in ospedale per uno stato di anemia da denutrizione. L’ho detto, vive di poco. Siccome per avere qualche soldo in mano, per lo spazzolino da denti, un guasto della bicicletta o il dentista, fa qualche lavoretto, mi ricordo che avendo partecipato, un autunno, alla raccolta dei Kiwi, al termine dei quindici giorni di lavoro si ritrovò con i compagni presso una trattoria, per la cena tradizionale . Bene, davanti a profumate costine di maiale, prelibate salsicce ai ferri, polenta, formaggi e patate al forno, lui tirò fuori da un sacchetto un bel cipollotto dalla buccia viola, e, affettatolo, si mangiò quello. Poi è un riciclatore. Sfrutta un rettangolo di carta per gli appunti in ogni sua parte, davanti e dietro, quando è dal dentista , porta via il bicchiere di carta e il tovagliolo (il dottore lo conosce e sorride), quelle poche volte in cui partecipa ad un pranzo o ad una cena a casa di amici o al ristorante, chiede di potere portare via gli avanzi. E’ un benefico spazzino, per la società. Non gli interessano né moto né automobili. Sulla sua vecchia bicicletta percorre chilometri e chilometri ogni giorno. Io lo chiamo “l’uomo – chiocciola” perché lo vedo sempre curvo e sorridente sulla sua vecchia bici da corsa con l’enorme zaino sulle spalle, che contiene tutti suoi beni terreni, in modo che lui si possa fermare ovunque per dormire, se è il caso e se si presenta l’occasione, o per portare a casa ciò che trova lungo la via. Dopo la raccolta dell’uva, delle mele o dei kiwi, qui da noi, in Valtellina, Camillo si dedica allo spigolare: esiste infatti il diritto di passare tra i filari o tra i vigneti e prendere i frutti dimenticati o giudicati non utilizzabili. In quelle occasioni fa una bella scorta, che a lui basta per quattro mesi. Io lo invidio . Devo dire che non avrei rinunciato a farmi una famiglia, e ammetto di giudicare chi vive come Camillo una persona per certi versi egoista, approfittatrice e immatura, però devo dire che mi interessa enormemente di più la sua vita che non quella delle persone normali, casa, lavoro, vacanze in agosto. Nella sua scelta non può non esserci del coraggio, quanto meno il coraggio di vivere sapendo di essere criticato da tutti, se non dai pochissimi che vivono come lui. Non è raro che ci scontriamo. –“Non credere, Camillo, che io non abbia la mia libertà, i miei spazi in cui faccio quello che voglio. Non è che sia sempre lì a lavorare”, gli dico. –“See” ribatte lui con atteggiamento canzonatorio “di domenica e d’estate, quindici giorni al mare”. –“Però tu puoi vivere così perché c’è tua madre, e lì puoi sempre trovare da mangiare e da dormire, non paghi le bollette, non devi occuparti di niente. Questa è la situazione dell’eterno figlio. E quando tua madre morirà?”. –“ Intanto i miei genitori mi hanno voluto loro, su questa terra sporca e corrotta, poi, da quando mio padre è morto, la casa che ha lasciato è anche mia, e io non chiedo a mia madre niente, anzi, porto a casa frutta e verdura. Quando morirà&ldots;&ldots;.quando morirà non cambierà niente. Io posso vivere senza luce e senza telefono, e non pagare bollette. Mi basta una pigna”. (Da noi, in Valtellina, la pigna è una stufa a legna). –“Ma se tutti vivessero come te e facessero le tue scelte, il mondo finirebbe, gli esseri umani scomparirebbero”. –“ Meglio, perché devono esistere per forza le persone? Avide, corrotte, gelose, tutte lì ad accumulare e a sporcare il pianeta”. –“Ma se tu incontrerai una donna che ti piacerà e avrete un figlio, a questo mondo che non ti piace dovrai ricorrere, perché la tua donna dovrà essere visitata, tuo figlio avrà bisogno di cure. Tu stesso sei finito all’ospedale più di una volta, quindi non puoi rinnegare quelle realtà alle quali poi ricorri”. –“La medicina è un commercio. I medici dovrebbero curare gratuitamente, perché il loro lavoro è una missione. Invece speculano sulle malattie. Io mi curo da solo con le mie tisane e le mie erbe. Ammetto che gli esami diagnostici e la chirurgia sono una parte della medicina che serve, ma per quanto riguarda i rimedi, fanno più male che bene, preferisco i miei”. Insomma, ha sempre ragione lui. Del resto come posso dargli torto? Io lavoro tutta la settimana, e alla sera mi rincoglionisco con la televisione. Non si può negare che tra la libertà che ha Camillo e la mia ci sono anni – luce. E’ anche vero che io non potevo rinunciare a “commettere lo sbaglio di avere moglie e figli”, e, anzi, quando torno a casa, se non ci fossero loro sarebbe proprio triste, più che triste, invivibile. Quando Camillo mi annuncia di essere in partenza (perché a volte si allontana per qualche mese, spostandosi non solo in Italia, ma anche in India, Nuova Zelanda, Islanda, ovunque possa arrivare con i soldi che ha raccolto, restando poi, ospite di amici) io lo invidio, perché lo vedo come un animale libero, un uccello. Se penso a tutto ciò che devo organizzare io per andare poche settimane al mare! Tuttavia, anche lasciando perdere la sua dipendenza dalla madre, che comunque c’è, è un riferimento, e, anche se lui rinnega e disprezza, rappresenta una casa accogliente, la vita di Camillo non mi piace del tutto, perché mi sembra anti - umana, perché mi sembra che una persona non può essere senza progetti, e se tutti avessero vissuto come Camillo non ci sarebbero stati Leonardo da Vinci, Raffaello, Cesare Pavese, Alessandro Manzoni, Totò, Woody Allen. Ma una lezione da imparare nella vita è: rispettare la diversità degli altri. E poi Camillo è una speranza: la speranza di uscire da questa vita piena di zavorre, e alzarsi, prima o poi, in volo, alti e liberi nell’aria.

  Aldo Zecca, Agosto 2002


raccolta 2