Simona Busto

Scrivo da quando sono ragazzina. Ho sperimentato vari generi letterari e varie forme espressive, pur restando quasi sempre nel campo del racconto breve.

Ho pubblicato due storie in altrettante raccolte antologiche.

I miei racconti possono essere trovati su svariati siti che si occupano di raccogliere gli scritti degli esordienti, tra cui liberodiscrivere.it e scrivi.com. Ho scelto di rendere pubbliche le mie opere su questi siti anche perché ciò mi permette di conoscere i commenti di lettori ed altri autori. Un confronto che giudico molto utile al fine di crescere realmente nella forma espressiva e nella maniera in cui scelgo e sviluppo i contenuti.

In conclusione, scrivo per passione e con passione, mettendo nelle mie storie tutta la fantasia e la sincerità che sento in animo.


COLORI

Di

Simona Busto

 

 

 

Se almeno osassi scrivere il tuo nome per intero su questo foglio. Povero foglio bianco destinato a riempirsi dei miei pensieri deliranti, a raccogliere un monologo insensato ed a finire lacerato in mille minuscoli pezzetti. Dovrò distruggerlo con cura, stando attenta a renderlo indecifrabile, se non voglio che una delle infermiere riesca a leggerlo. Ho paura che il suo contenuto arrivi alle mani di uno dei medici. Non voglio nemmeno immaginare quello che accadrebbe se sapessero che la ricoverata della stanza 333 scrive lettere d’amore destinate al nulla. I medici mi sorridono, parlano di un ricovero di qualche settimana appena, solo una crisi depressiva. Ho paura a mostrare loro tutti i colori che mi si agitano nella mente. Quale sarebbe la diagnosi per una donna che in ogni istante si vede di fronte ad un essere nato dal delirio. La mia mente colora i tuoi capelli corvini di un intenso viola evanescente. Cancello il tuo pallore in una morbida sfumatura bruna&ldots;

Ho appena terminato il tuo ritratto, l’ennesimo, cercando di dare al tuo viso i colori racchiusi nella mia mente. Eppure continuo a fallire. Non riesco a convogliare su una tela bianca le tonalità che mi si affollano nel cervello. Non ce la faccio, non c’è arte nella creazione delle mie mani. L’arte è solo nella mente, inutile e sterile perché non ha forma.

Non distruggerò il ritratto, come ho fatto con tutti gli altri. Lascerò che lo vedano. Forse penseranno che ora dipingo cose normali, come ho sempre fatto. La stanchezza che mi domina non può andarsene finché resto in questo posto. Le pareti azzurre, vuote, mi fanno venire voglia di piangere. Ogni tanto sento le urla di una delle donne che sono rinchiuse nelle altre stanze. Percepisco il terrore nelle loro voci. Mi alzo nel cuore della notte e getto colori sulla tela. Cerco di usare la pittura per ripulire il mio cuore da quello sgomento estraneo che lo assale. Vorrei dipingere prati, mari, campi di grano&ldots; Ma la mia mano si muove da sola. Il risultato sono paesaggi in tempesta, mari sconvolti da fulmini che squarciano con la loro luminosità il buio cupo dell’insieme, mostri mai visti che emergono da un incubo orribile, concepiti da menti devastate. E’ in questo mondo che non posso fare a meno di ritrovarmi imprigionata.

So che quelle creazioni fanno assumere un’espressione sempre più preoccupata al dottor D., ma non distruggo mai quei quadri: sono la cosa più vicina all’arte che la mia mano abbia mai prodotto. Non posso cancellare una tale terribile bellezza, anche se non sono stata io a crearla. Le autrici sono quelle donne disperate, i casi cronici rinchiusi da anni nell’ospedale. A volte non serve neppure udirne le grida, mi basta uno sguardo che ricambi il mio e ne vengo totalmente posseduta. Vedo con orribile chiarezza quello che loro vedono, mi immergo totalmente nelle loro anime spaventose. Non appartengo più a me stessa. Ho paura.

La prima volta che ti vidi provai qualcosa di simile; un turbamento nuovo, che mi faceva sentire viva. Eri Amleto quel giorno, strano segno del destino per una donna che sarebbe finita in un ospedale psichiatrico. Vidi la tua foto che mi serviva a comporre la locandina dello spettacolo e pensai solo che eri molto bello e che avevi un viso insolito per un attore di teatro. La tua bellezza esotica faceva pensare più ad un divo del cinema, uno di quelli che fanno impazzire le teen-agers. Composi meccanicamente una locandina efficace e non ci pensai più.

La sera della prima ero seduta proprio di fronte al palco. Ti vidi avanzare con i grandi occhi neri spalancati, la mano destra spasmodicamente contratta, i capelli gettati sulle spalle. Fu allora che spiai per la prima volta l’arte nel momento in cui veniva creata. Era come vedere nascere il David da un blocco informe di pietra. Tu non stavi recitando, tu eri Amleto, percepivo la tua rabbia quando il re ti stava di fronte, la tua impotenza davanti alla richiesta del fantasma, la tua follia, che in quel momento non era affatto finzione.

Quando calò il sipario andai dietro le quinte e ti osservai mentre parlavi con una delle giovani attrici. Mi tenevo in disparte, quasi nascondendomi tra la folla che si congratulava con te. Temevo che i tuoi occhi potessero inciampare sul mio viso. Una parte di me voleva che tu mi guardassi, ma temevo che il tuo sguardo mi sfiorasse indifferente, con l’espressione di chi si imbatte in una tela bianca, su cui la mano non ha ancora iniziato a gettare il colore.

Apparivi sfinito, sembrava che da un momento all’altro le forze dovessero abbandonare il tuo viso pallido, perfetto.

Attesi finché non ti vidi sparire nel camerino, poi volai a casa a ritrarre Amleto. Sapevo che fino ad allora la mia era stata solo presunzione, sapevo che i miei quadri non valevano nulla. Sentivo che era giusto il disprezzo dei critici, che era giusto ridursi a disegnare fredde locandine composte col computer. Non c’era nulla in quanto avevo fatto fino ad allora. L’immagine di te-Amleto era la sola cosa che valesse la pena fissare sulla tela. Tentai e ritentai per una settimana, uscivo solo per assistere alle tue rappresentazioni, per spiarti confusa fra la gente, senza che tu ti accorgessi mai della mia presenza. Non riuscii a crearti. Potevo riprodurti sulla tela così come ti avevano visto i miei occhi, perfetto persino nei minimi dettagli, ma la mia mano non riusciva a plasmarti come ti vedeva il cuore. Non era Amleto l’uomo che mi guardava nei miei dipinti, ma un giovane attore bellissimo, senza anima.

Mi sono lasciata consumare a tal punto dalla mia passione frustrata da arrivare in questo posto. Rinchiusa. Terrorizzata.

Adesso posso dare forma alle immagini delle menti, adesso i critici dicono che vogliono esporre i miei quadri. Ma quelle immagini non sono mie, non sono amore. La mia arte è orrore, un orrore da cui vengo investita ogni giorno con una forza di intensità sempre crescente.

Avevo bisogno di scriverti questa lettera. Non posso dimenticare i colori caldi e dolci della mia anima. Se perderò questa parte del mio essere, ci sarà solo l’abisso ad attendermi.

Tu sei la tavola a cui mi sostengo in questo naufragio, non mostrarmi mai che sei solo un uomo&ldots; o finirò per affondare.

 

Addio.