L’OPERA IN FIABA

 

La traviata

 

 

 

C’era una volta nel gran calderone di Parigi, più di centocinquanta anni fa, una ragazza incantevole che portava il nome di un fiore: Violetta. Fiore delicato dal profumo intenso e dal colore profondo come l’animo di lei, insondabile e sconosciuto ai più. Diciamo che pochissimi o forse nessuno del suo mondo sommerso dallo champagne, stordito da sostanze innominabili e soffocato dalla noia avrebbe avuto la sensibilità di spingersi oltre la magnificenza di un involucro esteriore. Cioè a dire, in parole povere, che non gliene poteva fregar di meno della parte spirituale di chicchessia. Così Violetta fluttuava da una festa all’altra, spandeva il suo profumo nelle alcove( non chiedetemi quante, ma posso affermare che erano abbastanza ), entrava e usciva dalle crinoline, dalle scarpine, dai gioielli scintillanti per accasciarsi infine su un canapè del suo lussuoso appartamento nel Faubourg Saint-Germain , sfinita, alle cinque del mattino, senza trovare la forza di arrivare al letto. Annina le toglieva i vestiti piano piano, le circondava le spalle col braccio robusto e la portava quasi di peso a coricarsi, perché signora, dovete essere in forma domani quando arriva il barone&ldots;

Era il barone Douphol un maturo gentiluomo metodico, assai munifico e zero possessivo, a patto che mademoiselle si facesse trovare fresca e disponibile una volta alla settimana. Al bando i mal di testa, gli occhi cerchiati e i raffreddori: scattare a mo’ di bambola meccanica e il tipo non chiedeva di più. Nemmeno una delle sue cosiddette amiche avrebbe esitato a fare carte false per quel caro signore, così comprensivo e soprattutto così assente. Tuttavia - benché ella se la passasse molto meglio di tante sue coetanee uscite dall’orfanotrofio senza uno spicciolo o un amico al mondo, nonché ingoiasse cibo migliore delle meno fortunate che battevano il Ponte Nuovo - nulla poté impedire al bacillo della tubercolosi ( detto anche di Koch ) di invadere il suo fragile organismo esposto ai rigori notturni dell’inverno parigino. Poiché si era d’inverno quando Violetta buscò quel brutto malanno che le lasciò in pegno una maledetta tosse secca e pomelli rossi sulle guance.

Al ritorno della primavera si sforzò a riprendere la vita di prima, ma visse più che mai alla giornata e la sua giovane mente ora dopo ora disimparò perfino a concepire l’idea di un futuro. Il quale futuro però già sapeva di lei, la spiava di giorno, la sognava di notte e insomma languiva, si consumava e ciò che è peggio faceva scorrere fiumi d’inchiostro poetando sulla sua figura eterea, il suo collo eburneo e le sue mani d’alabastro.

Chi era dunque costui, questo folle esaltato che si nutriva di lei a distanza come ai tempi dell’amor cortese e dei telefonini? Un tale Alfredo Germont venuto dalla Provenza, uno dei tanti figlioletti di famiglia cresciuti all’ombra di padri solidi e benpensanti nelle loro tranquille dimore di provincia, affogati nell’inedia (sebbene atletici ) e cronicamente affetti da mal poetico. Ora egli poteva contare almeno un punto a suo favore: di certo non il danaro, gelosamente custodito nella borsa di papà, bensì il fatto di costituire una sorta di incrocio fisico-morale tra Gerard Philipe e Tyrone Power, ossia un cocktail micidiale di bravo bambino-bel tenebroso-malinconico-voglio la mamma; ordigno devastante qualora esploda nei pressi di una Violetta, in quanto produce il famoso effetto ti amo perché mi ami - mi ami perché ti amo detto anche effetto redenzione.

Ma Violetta per sua fortuna ignorava tali cavilli e malignità della logica, altrimenti come avrebbe potuto godersi in pace la sublime felicità e le lacrime che l’attendevano?

Un bel giorno, anzi una bella notte di mezza estate il bell’Alfredo si diede una mossa e trovò finalmente il coraggio di mostrarsi. In quali circostanze ciò avvenisse poco importa, perché il dato essenziale è che le dichiarò il suo amore ed ella gli diede un fiore: una camelia per l’esattezza, tolta da quelle con cui era solita ornarsi i capelli e l’esile petto. Fosse stata un’orchidea o una pianta grassa, ma no, era una camelia, un fiore decisamente effimero; per cui intimare all’innamorato di riportarglielo quando fosse appassito equivaleva senz’altro a un “domani è fatta”. E così fu.

A fine agosto già stavano in campagna nella villa di lei, fuori da Parigi e da tutto, felici come sono gli innamorati a vent’anni o anche dopo&ldots;Però siccome quel genere di felicità è noiosissimo da raccontare e da sentire, ve lo risparmierò passando direttamente alle copiose lacrime che seguirono.

Tre mesi d’intense gioie erano passati quando un triste giorno di novembre ella si rese conto che i soldi stavano finendo e se voleva starsene tranquilla ancora un po’ senza ricorrere al solito sistema doveva risolversi a vendere due o tre cosette alquanto costose tipo carrozze, cavalli e roba simile, ma presto, prima che il caro ragazzo se la intagliasse. Eh sì, perché Alfredo micio bello non se l’era ancora data di essere il mantenuto di una mantenuta. Per amore, si capisce, però sta di fatto che di luigi fino a quel momento non ne aveva cacciato manco uno. Ora io mi chiedo e domando a voi, ignorava forse il mestiere di lei, credeva che il danaro le fosse giunto in eredità , pensava che l’ospite è sacro o viveva nel pianeta degli imbecilli? Era semplicemente ottenebrato dai sensi, punto. Fino a quel triste giorno di novembre in cui Annina decise di schiudergli il cervello alla verità, benché la padrona l’avesse sempre diffidata dal farlo. Egli desiderò per un istante che una profonda voragine si spalancasse ai suoi piedi inghiottendolo; indi si riscosse e volò a Parigi con l’intento di rimediare la somma più urgente, mille luigi, e smacchiare alla meno peggio il suo onore.

Mentre Alfredo frustava a sangue i cavalli correndo alla volta di Parigi, quella triste giornata era solo all’inizio e il tragico doveva ancora venire. Nelle prime ore del pomeriggio un uomo attempato in cilindro e pastrano, appoggiandosi a un’elegante canna da passeggio col pomo d’argento, si piazzò con aria proterva di fronte al bellissimo fiore reciso, il quale sollevò in sua direzione i grandi occhi profondi e scrutandolo avvertì una fitta più acuta del solito in mezzo alle costole. Aveva ben ragione a turbarsi, purtroppo, trattandosi del padre di Alfredo in carne e ossa, Giorgio Germont. Malgrado fosse giunto con l’intenzione di trattarla come una delle sue pari, dovette tuttavia ricredersi al cospetto della sua fermezza, del tono misurato, della sua appassionata sincerità. Conobbe l’autentica versione dei fatti e vi prestò fede, ma ciò non fu sufficiente a riconoscerne i diritti: ella restava comunque quello che era, un pericolo, una vergogna, un ostacolo.

A parte lo scandalo che aveva già insozzato la famiglia, c’era in ballo una sorella appena uscita di convento, una vergine insomma, immacolata come un giglio cresciuto nell’ombra dei chiostri: si sarebbe distrutta la sua felicità, povera innocente, se a seguito di tale relazione fosse andato in fumo il matrimonio con un giovane bennato e ovviamente dotato di mezzi, eccetera, voi capite madamigella, eccetera. Qui parve che il vecchio Germont volesse starnutire, ma proseguì a voce più bassa: e poi cara, vedete, la bellezza è una cosa effimera e tosto sopraggiunge il tedio, e senza il sacro vincolo che tutto sublima e santifica&ldots; Violetta si ritrasse come scottata. Era vero, sciagurata lei, troppo vero, come aveva potuto essere così cieca? Per quante di loro aveva funzionato? Non le veniva in mente nessuna. Persino nelle fiabe dove tutti si sposano regolarmente chi si è mai sognato di raccontare cosa facessero Cenerentola e il Principe dopo aver vissuto felici e contenti? Perché è difficile che il tempo passi senza fare danni, almeno alla pelle, questo è sicuro. A meno che&ldots; A meno che ci resti poco da vivere, allora non c’è pericolo d’invecchiare o di esser presi a noia. Ma certo, gridò forte Violetta tra sé, certo, e febbrilmente gli spiegò di essere affetta da un male incurabile. Fu come parlare al muro: papà Germont apparteneva a quella diffusissima razza di persone che non t’ascoltano perché occupati ad ascoltare sé medesimi. E qui di nuovo mi appello a voi, non gli aveva forse detto di esser vicina a morire e lui nisba, nada, totale vuoto comunicativo? Semplicemente aveva deciso di non sentire, punto.

Tre mesi di perfetta felicità affogarono dunque nell’inchiostro di cui Violetta si servì per scrivere due fogli, uno di congedo ad Alfredo, uno di ripescaggio al barone

Douphol. Tanto prima o poi sarebbe andata così, tentava di consolarsi tra le lacrime cocenti, mentre la nera giornata volgeva al crepuscolo e con la fedele Annina riprendeva la via di Parigi in un viaggio senza ritorno.

Un cocchio proveniente da Parigi trasportava intanto il nostro atletico sognatore insieme ai mille luigi della vergogna; e di sicuro le due carrozze tra nubi di polvere dovettero incrociarsi, ma non lo seppero mai. Giunto infine alla villa Alfredo trovò Giuseppe, l’anziano servitore, con un biglietto in mano. Lascio il seguito della scena all’immaginazione del lettore, non per pigrizia, ma per la noia di raccontare i soliti pianti e accessi di rabbia ed empiti di gelosia. Vedremo presto quali furono le pratiche conseguenze di tali reazioni emotive.

A tarda sera di quel giorno luttuoso la signora delle camelie - senza l’ombra di una camelia e vestita di nero - fece la sua rentrée nel demi-monde parigino al braccio del barone. Un paio d’ore più tardi eccoti Alfredo (potevamo dubitarne?) bello carico nonché sbronzo e deciso a far scoppiare un gran casino. Teneva ancora in tasca quei maledetti soldi e non trovò di meglio che sbatterli addosso a Violetta la quale naturalmente svenne. Poi barcollando si rivolse a Douphol e gli gettò il guanto di sfida. Alla fine pianse e si vergognò come un cane, ma ciò che è fatto ormai è fatto.

Giunse l’ultimo giorno di carnevale e il fragile fiore era così sciupato che della sua antica bellezza non restava quasi più nulla. Abbandonata da tutti, a Violetta restavano giusto venti luigi e poche ore di vita. Beh, non proprio da tutti, Annina era rimasta e il dottor Grenvil, vecchio amico dall’animo pietoso, continuava a visitarla. Il folle baccano giù nella strada la ferì col pensiero della povertà di cui ricordava i morsi crudeli, così volle donare le ultime monete ai poveri per un senso estremo di giustizia che agitava il suo spirito febbricitante. Aveva resistito coraggiosamente fino ad allora e respinto la morte nella speranza di rivedere Alfredo, se la lettera diceva il vero, se non era un sogno&ldots; Ma no, la teneva in grembo, la sapeva a memoria, ne conosceva ogni sbavatura e macchia di pianto. Giorgio Germont era un uomo troppo onesto per illudere una poveretta: la grafia, la firma, era tutto di suo pugno, anche le buone parole rivolte a lei come a una figlia diletta che si vuole stringere al cuore presto, presto&ldots; Alfredo sarebbe dunque venuto e il padre l’avrebbe accompagnato. E aggiungo io: non prima di essersi informato sulle sue condizioni di salute, se realmente fossero peggiorate. Solo in questo caso diventava lecito esercitare la pietà e spargere lacrime di rimorso. Ma tali ragioni di ordine sociale fortunatamente non potevano più toccarla, perché ormai si trovava in un luogo di frontiera ove vigono altre regole. Grazie a questa terra di nessuno ella provò le ultime gioie della sua esistenza: rivide Alfredo come una fidanzata, versò lacrime sul petto del padre come una vera figlia e volle pure provare a vestirsi, come per uscire; ma era troppo naturalmente, si afflosciò a terra. Qui le scomparve anche il dolore, per un breve istante sentì l’aria circolare nei polmoni, si rizzò in piedi con le braccia tese in alto&ldots; Oh libera finalmente, libera.