Le due vie.

 

Ci trovammo per caso, senza saperlo, senza volerlo; ammettemmo la nostra limitata voglia d’esistere e facemmo l’amore senza passione, senza trasporto solo per sopravvivere.

I miei limiti si perdevano nelle sue mancanze ed ogni volta mi ritrovavo di fronte a me stessa senza una via d’uscita, senza un motivo che mi portava a scegliere la forza o la libertà.

Fuori era ancora buio, quando me ne andai, avevo perduto il sonno e alla sette dovevo trovarmi in quella clinica; decisi dunque di perlustrare il percorso che mi separava dalla mia vita con attenzione, rimirando i ciottoli sul pavimento, scansando le carte che infestavano il marciapiede, risparmiando lo scarafaggio che mi correva intorno, quasi un senso di giustizia plenario che esercitavo su quella bestia ma che non era usato con me.

Mi duole dirlo adesso, ma Michele me lo aveva detto, aveva previsto tutto ed adesso che vorrei la sua ancora non so dov’è e dove ha portato i miei frammenti di vita.

Indispensabile è l’opinione; di qualsiasi natura essa sia essa ti garantisce l’esercizio, anche se spesso vano, delle tue libertà.

Ed era mia opinione non darla vinta a Michele; tornare con il figlio di un altro ed implorare il suo perdono era un vaso colmo che si sarebbe infranto con anche una sola goccia, la mia lacrima, caduta di rimbalzo dentro il contenitore della nostra vita.

La mia passeggiata mi schiariva la mente e l’alba prepotente batteva alle porte: vivere o morire era il destino che dovevo decidere per lui.

Come un antico legislatore, senza toga né parrucca mi accingevo a decretare la fine d’un percorso scomodo, in verità a tutti, e pieno di pericoli per me.

Quando d’improvviso un odore nauseante straziava le mie narici, deflagrava i miei succhi gastrici che prepotenti si riversavano su labbra dischiuse alla vita e saldamente serrate sulla morte.

Il flusso e effluvio saliva battendo rigidamente il petto, lo stomaco, alterando le guance che a fatica contenevano il flusso e rigurgitai l’anima, la vita e le virtù d’una donna quarantenne traditrice e tradita allo stesso tempo.

Lui non era un sogno; era realtà.

Prepotente s’alzava in me la voglia di respingerlo, ma mi era impossibile credere quanto un nulla lottava già per se.

Rivoltandomi ai miei propositi mi sedetti sotto un arco dissestato e malconcio, come la mia anima, e inveì contro di lui, la sua prepotenza, la sua dannata volontà.

Mi disse fra me, o forse al nostro se, di tentare ed io risposi di non aspettarsi troppo da questa vita e da me e rialzandomi decisi di farlo nascere e darlo in adozione.

Gli avevo offerto una via.

I ricordi sono ancore; duri e talvolta inefficaci si fondono con il nostro vivere e pilotano il nostro avvenire. Adesso parlo di ricordi mediamente indecifrabili che mi offrono un aggancio per la mia ricerca.

Madida di sudore, urlavo non so bene cosa e, dolorante lasciavo poche ore dopo quella masseria di paese che osavano chiamare befatrofio.

Il paese più lontano dalla mia vita cui lasciavo, in custodia, la mia stessa vita.

Mi disfai di lui come d’un capretto nel giorno di Pasqua; mi dissero che era maschio, ma non me ne importava, mi allontanavo con il mio grembo vuoto ed un cuore pesante con testa il vagito di un neonato che mi ricordava un’ondata di nausea e tantissimo vomito.

Non mi girai e ne ero fiera: riprendevo il mio cammino verso la vita che avevo parcheggiato diversi mesi fa.

Stronzo come un uomo, o come una donna che abbandona il suo primo ed unico figlio, mi accolse Michele con una lettera dell’avvocato ed una richiesta di sesso prima d’andarsene per sempre.

Mi Rifiutai e mi prese con la forza; s’accorse che sanguinavo, mi sputò addosso e se ne andò.

Non sentivo pena per lui, ma per quel neonato non riuscivo a darmi pace.

Michele andò via portandosi ciò che da tempo non gli serbavo più: il rispetto.

Oltre il suo si portò dietro il mio di rispetto, per me stessa e per ciò che avevo fatto a quel neonato; non mio figlio, non lo sentivo come tale, non l’avevo scelto e sentivo di non appartenergli.

Dimenticai di vivere appesa ad una bottiglia per molte settimane e quando una mattina mi chiamarono dal lavoro, ricordandomi d’andare o finire per sempre mi recai in fretta; le calze scucite, i guanti spaiati, i miei vestiti sporchi ed in disordine, completamente ubriaca mi licenziarono offrendomi in liquidazione un soggiorno per disintossicarmi.

Non avevo raschiato a sufficienza il barile, quando per ironia della sorte una notte che giacevo addossata ad un albero di limone e avevo deciso di vivere la mia vita nuova e parallela un gattino piccolo, soave batuffolo s’adagiò sul mio seno, grondante d’un liquido dolciastro e rannicchiandosi odorò stupefatto la mia camicia.

Sembrava che non potessi fare a meno di divenire la madre di qualcuno.

Lo accolsi nella mia nuova vita ed insieme procedemmo alla ricerca di una nuova identità.

L’olezzo di frittura invadeva la tromba delle scale del mio nuovo appartamento nulla di ricercato, ma una solida meditata scelta di vivere fuori tono, lontano dagli ambienti che mi erano appartenuti ormai mesi fa.

Quello che era stato il mio amante s’era occupato di me e, almeno stavolta, era riuscito a procurarmi qualcosa per dormire e residui di cibo di un qualche luogo che preferisco non conoscere. Non mi chiese mai di suo figlio, di cosa ne avessi fatto e l’unica domanda che riusciva ad inglobarlo nella sua vita era: "Apposto quel problema?".

Non so di quale problema parlava, ma mi era chiaro che nessuno dei due sperasse in una soluzione dell’altro.

Il problema si chiamava Geova; non certo di natura religiosa ma era lo stile di quell'insolito befatrofio, quello di far dare il nome allo sventurato che nasceva lì dall’infermiera di turno.

La mistica Giovanna, infermiera di turno, era una credente di quella religione, girava per le corsie, chiedeva a noi tutte di prepararci alla nuova data della fine del mondo e aveva diritto di chiamare quel bambino, forse il mio, come voleva sino all’adozione.

Tutte le volte che pensai a lui lo chiamai Gev perchè non sopportavo che chiunque tranne me poteva disporre della sua vita.

Mi ero pentita della sua nascita; s’era legato alla mia vita a doppia mandata proprio il giorno in cui lo lasciai, tentavo di non pensarci, lottavo per tirarmi su come potevo, rispolverai la mia classe di un tempo e i miei titoli di studio e riuscì a trovare lavoro.

Tacevo sempre su me e sulla mia vita e di sera ritrovando l’olezzo e aprendo la mia porta rituffavo nel mio mondo e la mia ansia, feroce ed assassina, si spegneva nei litri che ingurgitavo e nella roba che il mio amante mi portava per star meglio.

Compagno del mio inferno era il mio gattino dal nome Gev.

 

Difficile credere di poter rinascere, incomprensibile l'idea della dittatura: in entrambi i casi ottenni di sublimare le due esperienze nell'incontro con il maestro d'anime Jamad.

La prostrazione in cui albergavo da tempo imponeva scelte precise che da sola non ero in grado di soddisfare la mia amica Kate superstite e testimone d'una mia vita passata mi consiglio il suo maestro spirituale; le indicava il cammino della sua vita ed i vari percorsi che poteva, di fatto, prendere.

La sua ascesi spirituale segno il passaggio della mia affezione a Jamad: mi mostrava il bello della natura, mi guidava ad ascoltare i suoni del mondo, gli odori della terra mi ancorava alla vita, a se e alla sua sudditanza.

In quell'epoca Michele s'era rifatto presente, reduce da un rapporto fallito, malinconico e desideroso del nostro angolo di vita.

Mi chiese senza mezzi termini dove avevo lasciato il bastardo e irrancorito con il mio altro, il mio amante, per la sua sterilità, dopo averlo insultato il frutto del mio tradimento mi disse che il "ripiego" - così lo chiamava - sarebbe anche potuto rimanere nella nostra vita.

Gli tesi serrate le mani al collo e lui mi picchiò, gli intimai d'andarsene per sempre e con sorpresa mi scoprivo a difendere per la prima volta Gev, il mio bambino.

In seguito Jamad mi disse che il legame che sentivo con quel bambino m'impediva di vivere; mi soggiogò e mi abbandonai alle sue parole, divenni l'ancella della sua tentacolare corrente di pensiero.

Ma Gev, in gran segreto, restava il fulcro della mia vita.

Settima parte.

Manipolavo la creta per sentirmi un demiurgo; creavo per non distruggermi nell'infelicità del mio tempo.

Da oltre un anno lottavo con la mia voglia di vivere desiderando per me il silenzio ed il ricordo criptato degli altri.

Gev da qualche parte probabilmente giocava con del materiale morbido lasciando anche lui l'impronta della sua mano da sovrapporre, incastrare, incastonare nell'orma della mia, a ricordo dell'appartenenza neutra e atavica che aveva colto il nostro segreto amore.

Jamad aveva capito: mi possedeva nel corpo ma non nella mente e ciò lo rendeva folle.

Per ore mi lasciava a triturare foglie ed erbe di cui lui conosceva le proprietà e ogni giorno, a turno, ero costretta a sorbire un’essenza, inalare una polvere. Bere un infuso: i miei sensi s'alteravano e lentamente mi sentivo sprofondare in un mondo d'echi, con larghi cerchi simili a gocce d'acqua, popolato da personaggi tribali che in enfasi mistiche e paurose riunioni divoravano me ed il mio mistero.

La mia magrezza varcava la soglia della salute e il mio antico atletico aspetto lasciava spazio alle incurvature profonde e radicali del mio corpo e del mio derma; avevo la forma delle mie paure ed una fuga se non esanime non mi era permessa.

Kate aveva intravisto qualcosa, scovato Gev nei miei occhi e ogni volta che riusciva a farmi dire qualcosa traeva un nuovo tassello su ciò che era stato e che a lungo sarebbe ancora rimasto di segreto nella mia anima.

La mia casa sempre pregna dell'olezzo della frittura del cinese era divenuta simbolo, base ed ancora per Jamad; lì si riunivano i suoi pensieri che si sublimavano in azioni, lì i suoi amici abitavano e scoprivano il vago mio mondo e anche quando il mio ultimo lavoro fu perso, per tal ragione fui bastonata, avevo il torto di aver interrotto il flusso economico di quella rimediata famiglia d'adozione.

Come mio figlio ero stata adottata, ma, mi auguravo per lui, un migliore ambiente e felice epilogo.

 

Finì all'ospedale tre volte e l'ultima delle volte intravidi l'imbocco d'uscita dal mio carcere creato dalla mia indegna volontà; un medico che quasi mi soccorreva beato si trastullava al telefono, mentre vomitavo la morte, nel fare gorgheggi sconnessi da infante e con area selvaggia e crudele guardava il mio viso sentendo quasi un dolore, un’agghiacciante fitta mista fra panico e paura, chiuse dolente il telefono dicendo "dai un bacio a Gev".

Rielaborai tutto con coscienza settimane dopo e il mio gattino, al mio rientro, stranamente volteggiava sul mio petto come la prima volta, inquieto e malinconico, intendeva parlarmi con miagoli d’intesa, "Gev" dissi e guardando Jamad conclusi “è il nome del mio gatto”.

I tratti del viso sono autostrade concrete del nostro legame alla vita: si sa a chi si appartiene prima ancora che il cuore possa riferirlo.

Il medico stranito nello sguardo s'allontanava da me e dal mio aspetto e il mio ripresentarmi gli sembrò un assedio silenzioso al suo motore di vita.

"Cosa vuoi?" mi chiese ed io risposi "...solo un lavoro".

Sembrò sollevato dal non avergli chiesto altro, di non aver proferito il nome del suo motivo di vita ed ingenuamente pensò che fossi andata là solo per lavorare;

"L'inserviente va bene" dissi decisa "torna domani parlerò al capo reparto".

Parlava fra una pausa sostata ed un tempo insostenibile, ispezionava le parole quasi a non far trafugare il suo segreto, sapeva chi ero, ma sperava che io non mi fossi accorta di ciò che lui possedeva: il mio bambino.

Il suo fare circospetto gli poneva la rotazione orbitale incline alla deviazione assiale del suo sguardo: il suo strabismo portava un dolore, leniva un aiuto, cercava un conforto fuori la sua zona naturale di fuoco.

Non pensai a cosa fare ma a dove andare: chiamai Michele e gli chiesi per la prima volta aiuto, me lo negò, andai dal mio amante, senza avviso e trovai la sua nuova donna piena di lui, non mi scaldai e dissi di smettere perchè dovevo parlagli.

Suo malgrado completò in fretta ed io nella camera accanto ascoltavo la fine del canto dell'amore e l'addio al loro amplesso; si presentò sudato e chiese il perchè di tanta fretta, senza mezzi termini gli chiesi ospitalità per fuggire da Jamad, ma lui impaurito dal mio mercante d'anime risoluto si rifiutò, gli chiesi di ricordarsi di noi e di tutto ciò che avevo lasciato per lui, mi ributtò per strada, mentre pioveva.

Michele, mio marito da dieci anni, ex da un anno, era stato per me una luce all'inizio della nostra storia: bello, alto, medico e molto sensuale, aveva rappresentato per me un passaggio, la fine d'un periodo di ricerca assoluta dell'amore.

Le notti passate insieme erano l'antitesi del mio successo personale e sul lavoro; nella mia agenzia ero l'art director più creativo ed esemplificativo delle campagne dell'ultimo quinquennio.

Dopo tre anni volevamo un bambino che dopo svariati tentativi e medici d'ogni levatura non arrivava; il mio Michele era sterile ed io condannata all'infertilità da fedeltà.

Non mi sbarrai in casa piangendo e serena riuscì a riprendere la mia vita per diversi anni, passando da un amico ad un collega come un balocco nella notte di Natale.

Non pensai mai di far sul serio sino a lui, il mio amante di dieci anni più giovane di me, mio assistente, confidente possessore del mio cuore.

Desiderai una vita con lui, ma non la volle, desiderai un figlio da lui e mi indicò una clinica, desiderai ritrovare il mio equilibrio ma Michele sapeva già tutto.

Il medico del pronto soccorso mi guardava allontanarmi ed io ed il mio gatto lo salutavamo preoccupati con un arrivederci.

Nona parte.

Il diaspro rosso era la mia pietra: mi dava la forza e mi aveva cullata quella notte al befatrofio durante i miei dolori da parto; andandomene in fretta da quella masseria di paese la dimenticai insieme alla mia maternità.

In questi anni quante volte avrei voluto stringerla a me e ricercare in lei la forza di reagire ma le risposte le forniscono gli uomini e le cose, pietre o immagini, divengono mero simulacro d’un' idea che potrebbe volgersi in fatto.

Ottenni il lavoro d’inserviente all’ospedale maggiore di quella città, insieme a quel medico che un giorno mi segnò con il suo sguardo comunicandomi che conosceva già il mio viso.

Non divenne mai un mio amico, ma nel tempo cominciò a fidarsi di me, a percepirmi come innocua somiglianza del suo bambino e il suo sguardo di rimprovero mutò presto in afflato di pena nei miei confronti.

La mia invisibilità era preziosa; mi conoscevano come un single con qualche problema di dipendenza, sempre pronta al lavoro, mite e ben disposta anche verso le fatiche più dure.

Ogni indizio mi guidava a Gev e ogni tassello diveniva un filo da costruire, una vita, la mia da ricostruire.

Vivevo adesso nei pressi della ferrovia a ridosso delle case dismesse dei ferrovieri e Jamad, folle e abbandonato, batteva la città in lungo e largo per trovarmi.

La facevo franca da sei mesi e tutti pensarono che fossi andata via e magari morta e dimenticata in qualche sottopassaggio ma attendevo la mia occasione per rimediare al male che avevo fatto e che mi ero fatta; una sera il medico di guardia, lo scrutatore del mio destino, fu chiamato d’urgenza per un caso grave e lasciato l’ambulatorio mi introdussi per frugare fra i cassetti della scrivania alla ricerca d’un indizio, d’una prova: trovai molto più di quanto avrei potuto sperare.

Era Gev ed il suo volto era il mio, i suoi occhi allungati e dalle folte ciglia erano lo specchio di quelli di mio padre ed il colore, verde bottiglia, erano del mio amante; in braccio alla sua mamma era felice e le mostrava un qualcosa racchiuso nella sua mano, mentre con l’altra afferrava di netto i capelli della donna per farne i suoi appigli.

Cominciai a lacrimare e guardandolo gli scorsi nella mano il mio diaspro rosso, unico segno del mio passaggio nella sua giovane vita, senti inutile il mio cammino e la mia presenza non doveva essere più un intralcio al suo destino.

Usci correndo dall’ambulatorio e numerosi pazienti mi fermarono e non udivo le loro parole, non sentivo le voci provenienti dietro di me, volevo solo fuggire, chiudere la mia vita e tutto il suo balordo percorso.

Mi sentì afferrata per un braccio, ma i miei occhi tumefatti sdoppiavano la realtà non lasciandomi intravedere chi mi cercava: il mio braccio fu preso e disinvolta mi girai, era Michele che eludendo il mio sguardo mi afferrò e guardandomi mi disse “Adesso ci sono io”.

Non accettavo briciole da nessuno e la mia resistenza trovava pari forza a contenerla, avevo ormai deciso per la mia vita: mi abbracciò con forza, resistetti, ma il mio dolore antico e profondo naufragò ad un tocco, un contatto umano, mi abbandonai non volendo e divenni un tutt’uno con il suo petto.

Piansi a lungo, piansi tanto, non parlai del mio dolore, ma dal suo tocco, dalla sua carezza mi fece capire di sapere: non servirono parole per intenderci solo una lunga e meditata carezza fece da preludio ad un ritorno a casa, la mia vera casa.

Non era la certezza del rapporto che cercavo, volevo solo pace; nei brevi istanti del mio smarrimento affettivo mi sentì d’appartenere ancora a Michele, desideravo credere che il mio tempo, quello del matrimonio, non fosse mai passato.

Feci breccia nel suo cuore per il mio dolore e, per quanto mi avesse odiato, non sopportava lo strazio della mia vita.

Raccogliendo brandelli della mia verità mi rintracciò all’ospedale maggiore e mi rifece di nuova sua.

Non sapevo esserne felice di questo nuovo episodio; da donna amavo la sua forza e l’amore che ne scaturiva ma da madre, perché quello ero in realtà, desideravo conoscere mio figlio senza mutare il corso degli eventi che lo avevano coinvolto.

Aveva una famiglia che lo proteggeva e lo amava, Gev non sarebbe più stato mio per quanto amore potessi portargli, volevo essergli accanto come una zia, una parente lontana ciò sarebbe divenuto l’antitesi della mia affermazione di madre.

Michele si schierò al mio fianco e fu lui che mi offrì la seconda via, quella d’uscita, la via del ritorno.

Affrontammo per la prima volta il problema per come era, guardammo in faccia i nostri errori, omettendo le nostre inesattezze e decidemmo di parlare con i genitori adottivi di Gev; la felicità del bambino dipendeva dal grado di sicurezza che i suoi genitori adottivi sapevano trasmettergli e dalla loro tranquillità di avere per sempre il piccolo, inoltre la mia dichiarazione di non intromissione nella loro vita avrebbe suggellato il nostro accordo.

Sembrava un trattato di pace controfirmato da parti entrambi danneggiate con la tendenza a proteggersi e ricucirsi le ferite: io avrei accettato di vedere ogni tanto il bambino, di seguirne da lontano lo sviluppo senza mai intromettermi direttamente nella vita di Gev.

Nessuna scelta, nessun racconto solo un briciolo della sua presenza.

Mi sentivo come una delle due madri, del racconto biblico, che il saggio Salomone doveva giudicare: io ero quella che avevo mentito e seppur autentica stavo quasi per sacrificare il mio piccolo ma, come nel racconto, il pensiero della sua disperazione mi induceva a rinunciarvi.

L’altra madre non è mai stata chiamata a scegliere pertanto non saprò mai cosa avrebbe fatto, ma riservargli l’amore che avevo visto filtrare dalla foto la rendeva migliore, degna d’un compito che non ero stata capace d’affrontare.

Lì incontrammo dopo molte settimane di chiusura, e raccontai loro tutto ciò che ero stata, senza veli né pudori e poi mi condussero nella sua camera; camminava ancora barcollando e alla nostra presenza si fece stretto alla madre e cominciò a studiarmi, gli sfiorai la mano e sentì il mio cuore pulsare, gli accarezzai i capelli e mi specchiai in lui, come una bambina cominciai a giocare e la sua mano toccava le mie lacrime che copiose bagnavano il viso.

Poi venne in braccio a me e giocammo per circa un’ora, lo accarezzai dicendogli che se avesse avuto bisogno mi avrebbe trovata e quando Michele mi afferrò per andare Gev mi salutò offrendomi un suo gioco.

Tornai a casa dal mio Gev, l’altro quello che miagolava, colui il quale era stato capace di scegliermi come madre quando il mondo ormai s’era sbarazzato di me.

 

Lettera di Gev alla madre naturale.

Tu sei stata dentro di me nei tuoi tratti, nel tuo carattere, nella tua sofferenza.

Il tuo diaspro parla di te e di quella intesa che per pochi secondi ci ha tenuti vicini; la tua pietra è la mia pietra, i tuoi colori i miei.

Quando ti travestivi nei panni dell’amica della mamma capivo i tuoi occhi, leggevo il tuo dolore e non comprendevo che la chiave ero io.

Grazie madre d’avermi fatto nascere, grazie per la via che mi hai offerto la stessa che un giorno offrirono a te, grazie per la tenacia che mi hai dato nell’amare e nell’amarti.

Ho visto la mamma come unica e te come una sorgente ed adesso che da un anno non ci sei più ti voglio urlare l’amore che ho in me.

Grazie madre d’avermi fatto uomo.

Ti amo Gev.

 

Fine