Di Romano Pitaro

 

“Enza, devi sapere&ldots;.”

 

Sgusciò alle sette e un quarto e si diresse verso la fermata dell’autobus a cinque minuti da casa sua. Come ogni santa giorno, da anni.

Dentro una camicetta color cielo, Enza, a passo lesto e capo chino, guardò alla nuova giornata senza eccessive preoccupazioni.

Il sole era ancora alto e qualche nube minacciava i quartieri a sud della città. Tra poco l’autunno si sarebbe inabissato in un altro inverno.

- Signorina, come va ?, chiese una pingue signora di mezz’età dal viso gonfio e gli occhi azzurri che, come Enza, ogni mattina faceva lo stesso percorso per andare a lavorare. - Va bene, bene&ldots; Almeno così sembra, rispose guardando l’orologio.

Da anni ormai, per Enza, la linea di demarcazione tra realtà e fantasia si era sbiadita. La signorina Enza, farmacista assunta in una delle più note botteghe di medicine della città, mischiava non di rado attese e speranze alla monotonia di giornate che, a sentire lei, non valevano un chiodo.

Si chiedeva, quando dietro la finestra guardava la pioggia cadere, che ragione avesse avuto Dio a creare il mondo, se per la stragrande parte delle persone le giornate trascorrevano vuote, senza che accadesse nulla di cui ricordarsi.

Ma il buon Dio non fiatava. Da lungo tempo non lo sentiva più, Enza. Neppure sotto le coperte, la sera, quando cedeva al desiderio dl parlare con qualcuno che capisse.

Smorzato il sorriso di circostanza con cui s’era rivolta alla signora, Enza si trovò davanti il volto di Gianni. Ma appena s’accorse dell’autobus che sopraggiungeva, scacciò la sua immagine sfocata quasi con la mano.

Seduta sull’autobus n 241, lato finestrino perché amava spiare le strade, specie di mattino presto quando lentamente si animano, fu risucchiata dal solito pensiero.

Che senso aveva perdere tempo ancora con lui. Che stupidaggini vado compiendo, si rimproverò severa. E dov’è in questo momento, che cosa fa? In un’altra città, a fare cose che io ignoro, magari con un’altra.

Forse mia madre non ha tutti i torti. Una donna, se si guarda intorno, trova dozzine dl uomini disposti a fare la sua stessa strada nella vita. Figlia mia, sbrigati!

Ma come l’irritavano quelle ingiunzioni quotidiane, inutili.

Com’è possibile, si domandava, che niente sia cambiato dai tempi di mia nonna. I genitori in pena per le figlie da maritare e le figlie che, dopo una certa età, percepiscono le sgradevole sensazione di non valere più...

Gianni l’aveva affascinata durante gli anni dell’università. L’aveva, naturalmente, soggiogata con i suoi modi gentili, il suo linguaggio forbito e ritmico, il sorriso aperto, l’irrefrenabile fantasia.

Lei aveva avuto soltanto due mediocri amori prima di lui, nella sua città, in un sonnolento liceo affacciato sul passato e con le spalle al futuro, figurarsi! Non c’era confronto.

Stare con Gianni l’emozionava. La riempiva di voglia di fare. A saziarla di felicità, ci pensava poi il rumore persistente della grande città, rutilante, sempre accesa in ogni angolo, gravida di pulsioni, con i negozi luccicanti, traboccanti di centinaia di superflue amenità che la eccitavano.

Il suo passato, vissuto nei silenzi della piccola, grigia città, di colpo era stato cassato. Solo l’odore, sommamente piacevole, delle torte di mandorla, che sua nonna sfornava durante le feste comandate, le era rimasto, impiastricciato nelle narici.

Nella sua vita di allora, non c’era spazio che per quel giovanotto dal fisico asciutto, alto, con una peluria soffice sul volto, appassionato di medicina, di Bob Dylan, di film impegnati e viaggi esotici.

Non le pareva vero, di essere vissuta per anni ed anni in una città dì provincia dove il tempo è scandito dalle stagioni, dal chiacchiericcio della gente e da quintali di noia d’ogni genere.

Signorina, Il biglietto?, chiese il controllore.

Eccolo, rispose Enza porgendo il cartoncino giallo.

La realtà la richiamava e lei, mite, non opponeva resistenza.

L’autobus a metà viaggio s’era riempito e la città, pigramente, riprendeva a muoversi. All’altezza del Duomo, in pieno centro, Enza scese e raggiunse la farmacia, in cui da otto anni lavorava.

Vendeva farmaci dietro un elegantissimo bancone di noce intarsiato, con al centro, evidentissime, le iniziali del proprietario, B.S., Benito Stilo, un emaciato signore che viaggiava sui settanta e che, dopo la morte prematura della moglie - la poveretta soffriva di nervi e un pomeriggio l’avevano trovata seduta sui gradini di casa con la testa reclinata all’indietro dopo aver ingurgitato una dose mortale di barbiturici – aveva riversato tutte le sue premure sulla farmacia, in cui, di frequente, trascorreva la notte. Si sdraiava su un lettino nascosto in una vecchia poltrona di pelle ubicata in un bugigattolo e, con una luce fioca, leggeva e rileggeva i versetti della Bibbia.

In quella farmacia Enza riservava i suoi mesti sorrisi ai vecchietti che non lesinavano ringraziamenti.

Signorina, lei è sempre cosi graziosa e gentile.

Già, si disse quel mattino Enza — graziosa, gentile.. e stronza! La sensazione di essersi persa dentro un intricato, immenso, labirinto, la faceva star male. E gli occhi di Gianni, medico generico alla continua ricerca della sua realizzazione, la ghermirono.

Sentì, inarrestabile, il desiderio di una boccata d’aria, di uscire. Di non vedere volti grinzosi e sorrisi ipocriti. Chiese un permesso di un’ora e fu subito in strada. A passi lesti, imboccò Corso Mazzini. S’accese una sigaretta, che fumò in un baleno, poi un’altra e ancora un’altra... Senza meta era bello fingere interesse per le vetrine, pensando ai fatti propri. Sola con se stessa, ma non era una novità. Da anni era, infatti, diventata buona amica della sua anima.

Da vent’anni si sentiva la donna di Gianni e lui, invece, si sentiva l’uomo più solo del globo. – Che situazione buffa, riconobbe con un sorriso malizioso.

C’erano volte che sentiva una noia incommensurabile a sentirlo declinare al telefono la sua stanchezza di vivere, l’irrequietudine del suo “Io” sempre presente, scontento sempre, in perenne bilico tra essere e avere, la sua ansia smisurata quando lo si obbligava a scegliere e lui non sceglieva mai.

Persino il gatto, l’unico essere animato a cui Gianni prestava una cura quasi assidua, l’aveva voluto la madre, mica lui; e così quando la bestiola creperà (presto, rifletté Enza, perché gli anni scorrono anche per i siamesi, e se fosse una persona, il gatto ora avrebbe già l’età della pensione) non gli resterà nessun altro punto di riferimento.

Da quasi quindici anni Enza, pazientemente, aspettava che il medico le chiedesse di sposarla, o le chiedesse di raggiungerlo nella città dove etano stati felici e che anche lui aveva abbandonato poco dopo la laurea.

C’erano stati giorni in cui aveva sognato il suo matrimonio, lei in un tailleur bianco con scarpe dai tacchi alti e lui, col sorriso leggero, in un pregiato tight. Ma la scintilla non scoccava. Tutte le mie amiche, si diceva quando voleva ferirsi, si sono fatte inanellare la mano, io invece, come la donna più miserevole dell’universo, aspetto. Senza decidermi a piantarlo quest’Amleto egoista, comico, stupido!

A sera, dopo cena, ricevette la solita telefonata: era lui. Mezz’ora di confessioni sull’incoerenza dei medici, su incarichi professionali andati a rotoli, si anche una donna.. Non aveva saputo respingerla, ma ad Enza non poteva mentire, no! La loro era una storia speciale: il loro legame diverso da quelli consueti, ma imperituro, a prova di tutte le difficoltà. Ma, tranquilla, l’avrebbe raggiunta nel fine settimana, avrebbero parlato meglio, da vicino ci s’intende di più...

S’incontrarono alla stazione e lui l’abbracciò stretta, come faceva sempre ad ogni incontro. Nonostante tutto, la confondeva ancora. Le accendeva il cuore, la faceva sentire donna. Viva dopo mesi di sopportata solitudine.

Presto si ritrovarono nell’appartamento vuoto di suo fratello, stesi a fumare seminudi sul letto grande una piazza e mezzo a luce soffusa. Enza lo fissò negli occhi per riconoscerlo meglio. Succedeva ogni volta. Era proprio Gianni, quello che ai tempi dell’università saltava con agilità la barriera di legno che separava gli studenti dagli addetti alle cucine della mensa, per seminare il putiferio. Lo stesso che inarcava il petto orgoglioso come un gallo, quando nei cortei improvvisati la polizia s’apprestava a dare l’offensiva. Lo stesso che le la mandava in visibilio con tenerezze mai assaporate nella stanza della sua pensione. Ce n’andremo sull’isola più sperduta... L’isola che non c’è!, interruppe Enza i suoi ricordi, l’isola che adesso è persa per sempre, pensò triste, abbassando lo sguardo.

Passò in rassegna molte delle immaginazioni colorite ascoltate da Gianni negli anni, il suo modo di voler essere uomo senza legami ed il suo passo di adesso, l’aveva notato alla stazione. Non incede più come una volta, gagliardo, cammina stanco, come un vecchio...

L’indecisione lo sta divorando di dentro; la fiacchezza delle sue gambe è il primo segno di sgretolamento della sua persona.. E io non so che fare, pensò Enza. Guardo quel che accade a noi ed accetto ogni conseguenza, mi rassegno, quasi come mi fosse inibita qualsiasi iniziativa da un essere soprannaturale.

In quella stanza che odorava di chiuso e di abbracci frettolosi, di corpi avvinghiati, di sogni rappresi e di sesso, di vuoto e di giornate che scorrono vorticose senza che succeda niente, come un fiume che non sfocia in nessun mare, due esseri dialogavano muti. Lo lasciò solo sul letto, per andare a guardarsi nello specchio dell’unico bagno disadorno di quell’appartamento al sesto piano.

Puntò gli occhi chiari, capaci d’illuminarsi quando le pareva di sentirsi ancora viva, sulla sua faccia di quarantenne che si muove nel mondo in punta di piedi.

Enza rammentò quella volta quando, in una stazione di polizia, accovacciati per terra, attendevano di essere interrogati. C’era stata una manifestazione contro i fascisti, che avevano picchiato a sangue un loro amico.

Appena fu il turno di Gianni, Enza rivide, quasi sbucata all’improvviso come un ospite indesiderato, l’immagine del volto smunto di lui. Ricordò il sudore che gli rigava la bocca. Nessun tono da eroe della rivoluzione, quella volta. Al commissario che impartiva una romanzina, Gianni bofonchiò un elusivo - Dobbiamo pur passare il tempo...

Qualcosa, dopo d’allora, cambiò nell’idea che Enza s’era fatta di lui. Ma l’incidente fu subito archiviato e la frenetica vita di tutti i giorni occultò ogni crepa. Era come se davanti avessimo una linea infinita, sospirò Enza cancellando con l’indice una lacrima sotto l’occhio destro.

Quando tornò nella stanza, Gianni aveva gli occhi chiusi. Dormiva. Chissà a cosa pensa quando dorme, si chiese Enza. E che parte ho io nel suo mondo di sogni, nella sua esistenza fluida. Pensò che al suo risveglio sarebbe stata felice se si fosse deciso a chiederle di seguirlo. Di condividere con lui la vita, qualunque vita fosse.

Avrebbe certo lasciato ogni cosa per andare con lui. Non ci avrebbe pensato due volte. Immediatamente avrebbe messo in valigia i vestiti, i libri, le foto più care e addio... Disdetto ogni appuntamento, troncato ogni conoscenza. Scordato, un minuto dopo e senza alcun rimpianto, i visi dei vecchietti con le mani tremolanti protese sul bancone della farmacia. Sua madre, era sicura, sarebbe stata contenta, suo padre pure.

Anche la farmacia avrebbe abbandonato e non avrebbe cosi più pensato alla signora Strangio, ammalatasi di nervi perché troppo sola. Alle colleghe di lavoro con cui ogni tanto mangiava una pizza prima del cinema, avrebbe telefonato. La città della sua prima giovinezza, che l’aveva mai galvanizzata, l’avrebbe dimenticata in un fiat.

Tutto, per Gianni. Tutto per quell’uomo sempre meno intelligibile, sempre più in collera con i suoi colleghi, che si adeguavano ad ogni circostanza, con i dottoroni, che aguzzano lo sguardo sui pazienti solo se c’è da incassare, e con se stesso.

Ogni cosa, Insomma, pur di riprendere il filo della sua vita che, chissà come chissà dove, a lei pareva si fosse ingiustamente spezzato.

Ma Gianni, Gianni dormiva. Era bello quando dormiva, era un uomo nel pieno delle sue forze. Era molto somigliante a come lei lo conobbe la prima volta, urlava frasi apodittiche in un’aula affumicata della sua facoltà. E lanciava ultimatum. Eppure, il tempo era trascorso senza che nulla di vero sgorgasse de quel frasario incandescente, che ora a lei appariva sconnesso, folle.

Ed intanto, quasi tutti i loro conoscenti s’erano dati da fare per campare la vita, come dall’inizio dei tempi si campa, occupando una nicchia da cui muoversi, in cui pavoneggiarsi, facendo figli, pensando sgomenti, su una poltrona rossa, insieme all’insorgere del primi capelli bianchi, alla morte&ldots;

Devo far presto, fra un’ora ho il treno e stasera vorrei fare compagnia a mia madre che, dalla morte dl mio padre, non fa che lagnarsi, disse, infilandosi i pantaloni, Gianni.

Enza non apri bocca. Ci fu un silenzio completo nella stanza, per alcuni istanti.

L’aveva avuto per una giornata e mezza, l’aveva sentito dentro con la stessa veemenza di un tempo. Aveva condivisa l’amplesso anche lei, dimenticando tutto il resto. Quasi come se tutti i suoi dubbi fossero scomparsi. Tutto svanito, persino l’infelicità detta sua amica sposata e separata, che ora l’affligge con una ennesima storia d’amore. Sparito il volto grasso della signora della fermata dell’autobus.

Soltanto non capiva, Enza, come le accadeva ad ogni distacco, perché così di corsa... Perché tanta fretta, perché incontrarsi come due fuggiaschi. Perché fuggire, da cosa e da chi? Quale incubo li tormentava, per indurli all’abbraccio, mai definitivo, di un arrivederci caricodi malinconia e di brutti presagi. Come accadeva alle donne meridionali alla dipartita dei loro mariti e figli per terre lontane, ostili.

Non capiva, Enza non capiva.. Quegli uomini avevano il cuore rotto quando s’imbarcavano per l’Australia, o sui treni che li conducevano in Germania&ldots; E quelle disgraziate gemevano. Ma gli uni sapevano di dover lasciare la loro terra alla ricerca del pane, le altre capivano il sacrificio delle notti infinite e dei giorni duri da superare.

Ma Gianni che parte, perché parte? Dove va? Ed io che resto, perché resto? Qual è il segreto di questa dispersione d’energia? Dov’è l’inganno?

Per qualche minuto si decise a dire basta, stop, fine ad una storia così stiracchiata da essere irriconoscibile, che non lascia tracce dietro di sé, che non pianta radici.

Ma solo per qualche minuto. Enza non s’era mai sentita una donna risoluta, dalle scelte inconsulte, si disse che ci avrebbe dovuto pensare, da domani avrebbe avuto tanto tempo a disposizione per farlo, con minuta circospezione, vagando i pro e i contro, senza mosse azzardate.

Si rivestì in fretta e s’accorse d’avere una calza sfilata. Avrebbe dovuto dirglielo. Ma tacque. Avrebbe dovuto dirgli che per lei era la morte nel cuore ogni volta che, terminato l’incontro, lui mormorava, con voce suadente: “Ti telefono stasera&ldots;. Non proferì parola invece.

Da quindici anni ormai, il loro amore si rincorreva sulle linee telefoniche, si toccava e si stremava maledettamente in quegli apparecchi che Enza aveva finito col detestare. Si cullava e si rinnovava, affondava e riemergeva nello spazio aereo. Lo aiutò a riordinare lo zaino in cui c’erano gl’indumenti per un cambio. Lui le illustrò, in cinque minuti cinque, i suoi freschissimi progetti, un incarico per studiare gli effetti del melanoma sul seno. Finalmente qualcosa d’interessante, le bisbigliò baciandole l’orecchio. Lo sai che io non accetto di passare il mio tempo su inezie, né per sempre dietro la stessa cosa, è più forte di me.

Lo so, accondiscese Enza, tienimi informata. E di colpo lo ritrovò suo amico di sempre e si senti sua intima, inestricabile complice.

Il passato, senti, allagava tutto il suo presente e si riversava, con determinazione, su ogni piega dei suoi giorni presenti e futuri.

Questa, si confessò Enza, è la scena della mia vita, non posso buttarla, non posso cambiarla, posso soltanto viverla com’è...

Quell’uomo era l’uomo che lei s’era scelto per la vita.

Questo, sua madre ed i suoi pochi amici, non intendevano.

Non era colpa sua, se Gianni era diventato l’ombra di ciò che lei aveva amato fino allo spasimo. Non era colpa sua, se le città sono drammaticamente distanti, separate. Se l’animo umano resta, nonostante tutto, insondabile, o se i sogni, quando si spezzano, si trasformano in rabbie che sedimentano.

Nonostante le serate uggiose, trascorse a guardare per ore dai vetri della finestra i marocchini darsi da fare ai semafori, mentre lei aveva l’impressione di galleggiare nel vuoto, Gianni rimaneva la sua radice su questa terra. L’unica sua consolazione.

Quell’uomo la faceva avvizzire senza donarle, in concreto, nessun appiglio.

L’induceva a vivere nella straziante attesa di un nuovo incontro meno opprimente, più umano. E lei non sapeva, non voleva, divincolarsi.

L’aveva capito meglio in tutti questi anni d’incontri saltuari.

Aveva avuto modo di sconfiggere l’eroe che pensava lui fosse. Ora, veramente, lo conosceva in ogni fibra e ugualmente restava avvinghiata alla sua evanescenza.

Lo aveva indagato in ogni suo atteggiamento e ne aveva tratto giudizi mediocri. Lo aveva scoperto in pose da medico senza fantasia, anche lui costretto, in fondo, alle piccole furbizie della quotidianità.

Ma al crepuscolo, il giorno dopo la sua partenza, le gambe la conducevano alla stessa sedia, accanto al telefono; lo squillo la rassicurava nell’animo. Non capiva più, ormai, cosa volesse lui, cosa volesse lei. Ma non le importava.

Forse negli anni avrebbero, così pensava Enza, fatto viaggi ognuno per conto proprio, come già in parte accadeva, e persino conoscenze, più o meno impegnative, e magari dopo potevano raccontarsi tutto...

Già pregustava questa calda emozione, che avrebbe vivacizzato le loro vite, reso più intenso, se possibile, il loro amore.

Certo, quanta solitudine! Quanto silenzio! Quanti sospiri...

Ma dopo il lavoro, le chiacchiere sull’autobus, la cena parca delle sere che d’inverno si rabbuino in fretta, quasi senza accorgersene, cosa c’era di meglio che sedersi sulla poltroncina rococò, ricordo di sua nonna buonanima, e sussurrare al telefono: Gianni, devi sapere...” ?

E cosa c’era di più soffice, tranquillizzante, che ascoltare, dall’altra parte del filo, Gianni che le confidava un sogno, che le raccontava un film visto qualche ora prima, un’idea che poteva essere innovativa nell’applicazione di terapie già in uso, o l’intenzione di un viaggio in Cina?

“Enza, devi sapere...”, principiava il più delle volte Gianni al telefono. Ma Enza sapeva, sapeva. Sapeva che forse non era più cosi necessario rivederlo, toccarlo, per sentirselo accanto. Aveva, una notte trascorsa in bianco a guardare il soffitto della stanza in cui era nata e da cui non era stata capace di scappare, accarezzato l’idea d’incontrarlo nei sogni. E questo le bastava, la rendeva quasi felice...