Mi chiamo Massimiliano Villani, ho 33 anni e sono un programmatore che si

diletta di scrittura. Non ho mai pubblicato nulla su carta e qualcosa in

alcuni siti internet "dedicati", diciamo così. Ho provveduto ad iscrivermi

e potete trovare le altre informazioni biografiche nella scheda di

iscrizione.

La Ballerina

Sono solo stasera.

Sono uscito tardi e i miei soliti amici sono andati chissà dove.

Non sai mai dove vanno gli amici quando esci troppo tardi, o quando esci

troppo presto. Alcune persone esistono a ore prestabilite. Poco prima o

poco dopo e ti sembra che non siano mai esistiti. O che siano scomparsi

per sempre. Il locale è piuttosto affollato, in penombra come al solito e

fumoso più del solito. Vado al mio solito posto in fondo al locale, vicino

al bancone. Sono più al buio di tutti e da lì riesco a controllare tutto.

Non chiedetemi cosa serva controllare: è una delle mie tante manie. Ordino

la mia solita consumazione obbligatoria. Obbligatoria nel senso che è

richiesta dalle regole del locale, solita nel senso che è il mio solito

intruglio di birra chiara e vodka al limone. Comincio a bere.

 

La vedo che inizia a ballare. Lo stile lo conosco e anche la faccia è già

conosciuta; non dice una parola di italiano, credo che sia ungherese. Si

chiama Eva. Quando non balla fa la barista in questa bettola. Il pubblico

stasera è piuttosto anziano, cioè l'età media degli avventori è piuttosto

elevata. E succedono le solite cose ridicole. Soliti commenti, solite

risate, soliti goffi movimenti. Lei mi sta guardando, ma lo fa spesso. Lo

ha fatto anche le altre sere. Stasera sono solo, e tutto mi sembra più

solito che mai.

 

Vengo di frequente in questo locale, anche se non è più come era una

volta, quando ci divertivamo veramente tanto. E' vicino a casa mia, ed è

sempre stato un modo carino di passare una serata. Due anni fa è

cominciato tutto. Locale nuovo, almeno per me, ballerine, musica e

un'atmosfera molto familiare. Abbiamo tirato mattina molte volte io e i

soliti amici, abbiamo bevuto fiumi di vodka e tequila. Erano altri tempi.

Mi sembra di parlare della vita di un altro. Ormai vengo di rado e le cose

non sono più così. Nel frattempo mi sono sposato e separato e la magia del

locale è finita, andata come tutto quel periodo della mia vita. Sembra

incredibile. Ti distrai un attimo e bum!, due anni della tua vita sono

scomparsi. Fai addirittura fatica a ricordarli, ma erano gli ultimi due

anni, non venti anni fa. Resti straniato quando ti rendi della velocità

con cui fuggono le ore della tua vita.

 

Eva si avvicina e continua a guardarmi. Mi imbarazzano quegli sguardi: non

so mai che espressione devo tenere. A disagio. Se sono solo mi sento a

disagio, mentre se sono in compagnia riesco perfettamente a dissimulare i

miei stati d'animo e in media faccio l'idiota. Adesso è attaccata a me e

mi tocca come fanno le ballerine di lap dance, molto mangiatrice di

uomini. E poi, alla fine dello spettacolo, ci parli e ti rendi conto che

sono ragazze normalissime, che fanno tutto ciò che fanno solo per

contratto. A volte studiano, a volte fanno lavori "normali" durante il

giorno. Ma spesso sono professioniste del palo, soprattutto se sono

straniere. Come nel caso di Eva, anzi no: lei è straniera, ma il suo

lavoro sarebbe fare la barista. Il suo viso è vicino al mio, pochi

centimetri che stanno anche diminuendo. Le sue labbra sfiorano le mie, ma

prima che io me ne renda conto è già lontana, a dare benessere a poco

prezzo agli altri avventori.

 

Vita e lavoro strani per le ballerine di lap dance.

Molto espansive ma frenate, in grado di fermarsi sempre esattamente al

punto giusto, mai troppo tardi e mai troppo presto. Non credo che sia

facile, e, infatti, sono poche quelle che lo fanno bene. Continuo a bere

la mia consumazione obbligatoria, e la guardo volteggiare tra sedie e

bicchieri vuoti di birra.

 

Questa sera il pubblico è fiacco.

Poche reazioni e sempre le stesse. Anche il pubblico recita la sua parte,

in questo genere di locali. Non puoi semplicemente entrare e fare quello

che ti pare. Le ballerine comunque ti si avvicinano e comunque tu, in

quanto pubblico pagante devi essere lieto di questo. Sei entrato apposta

per essere avvicinato dalla ballerina, dopo tutto. Diversi sono i tipi di

pubblico. Ci sono i casinari che ridono e sbraitano, anche se il più delle

volte le risate servono a nascondere l'imbarazzo. Ci sono gli

sciupafemmine, che fissano le ragazze molto intensamente con uno sguardo

del tipo: "Non sai che fortuna avresti se uscissi con me..". E poi ci sono

i rancorosi, che devono far sapere al mondo che loro sono i per

dimenticare chissà quali magagne, imbottiti di film americani e luoghi

comuni. Di recente, e questa è una novità per noi provinciali, ci sono

molti stranierei, soprattutto nordafricani e albanesi, molto immediati nei

loro commenti e nei gesti, e molto presi nella loro parte di maschi

dominanti che hanno trovato finalmente la dimensione adatta a loro, in

barba ad Allah e a tutto il resto. Fauna composita quella che popola i

locali di Lap Dance. La mia birra mista è quasi a metà.

 

Sono ancora solo, in piedi, in penombra. Ogni tanto applaudo, spesso penso

agli affari miei, ma in media guardo Eva. E lei mi guarda. Questa sera mi

guarda molto, anche più del solito, direi. Sarà perché mi vede solo e le

altre volte sono in mezzo al branco. Una sera, tempo fa, ho anche provato

a scambiare due parole con lei, ma non parla italiano, a parte ciao e

pochissime altre parole. Tutto si è risolto in un confronto tra parole

italiane e parole ungheresi, credo cinque parole in tutto. Sta ballando a

pochi metri da me in mezzo a un gruppo di attempati buontemponi che non

riescono a reagire alle sue provocazioni professionali. E' di nuovo

davanti a me. Vicinissima. Le labbra si sfiorano di nuovo, ma questa volta

i tempi si dilatano, indugia più del dovuto. Mi sta baciando. Non dovrebbe

succedere, non era mai successo prima. Scompare di nuovo. Sta ballando

dall'altra parte del locale.

 

Ho finito la mia birra mista. Normalmente me ne andrei, ma stasera decido

di

 restare ancora qualche minuto e quindi ordino una vodka al limone. E

 questa

è un'altra delle mie manie: non riesco a stare da solo in un locale se non

ho le mani impegnate. Mi sento fuori luogo. Il risultato è che se sono

solo, bevo fuori misura per tenere le mani impegnate. E tra un bicchiere e

l'altro fumo decisamente troppo. Domattina avrò gli occhi arrossati, un

pessimo sapore in bocca e la gola distrutta dal fumo. Bella prospettiva.

Quante mattine mi sono svegliato in queste condizioni? Quante mattine,

guardandomi allo specchio ho deciso che era l'ultima volta? Troppe

mattine. Finché, mosso da pietà, ho deciso che era il caso di smettere di

fare promesse allo specchio, promesse che non avrei mantenuto di sicuro.

Ho continuato a fumare e bere troppo, ma almeno lo specchio si risparmia

le mie lacrime di coccodrillo. Non ho ancora capito se sarei in grado di

smettere. Di fumare, intendo. Mi piace pensare, come a tutti, di poterlo

fare in ogni momento, e che se continuo a fumare con questi ritmi lo

faccio solo perché in fondo mi piace fumare. Ci provo gusto. Ho sempre

pensato in questo modo e così sono arrivato a due pacchetti al giorno.

Tanto posso smettere quando voglio.Comincio a non esserne più tanto

sicuro. La mia vodka è finita.

 

Eva sta tornando. Ancora poche evoluzioni e sarà da me.

Non so perché, ma sono sicuro che sta venendo proprio da me, e proprio per

continuare quello che stavamo facendo poco fa. Gli sguardi sono di nuovo

agganciati, e io non ho più nulla in mano! Eccola davanti a me. Si è

chinata davanti a me e mi sta toccando, mi passa le mani dai fianchi al

petto, lentamente. Il suo viso è di nuovo a pochissimi centimetri dal mio.

I nasi si toccano. Curiosa sensazione, stare naso contro naso con una

ragazza che non conosci nemmeno, curiosa sensazione sentire il calore del

suo respiro. Ci stiamo baciando di nuovo e siamo anche abbracciati. Mi sta

incollata addosso. Mi eccito e lei se ne accorge. Si attacca ancora di più

a me e si muove più in fretta. L'adrenalina sale, me la sento nella punta

delle dita, sono sempre più eccitato e i suoi movimenti sono sempre più

provocatori. Ha un buon sapore. Poi scompare. E' entrato il proprietario

del locale. Lei lo ha visto e si è dissolta come nebbia al mattino.

 

Non è successo nulla, e, in effetti, credo di avere sognato tutto.

Il proprietario mi guarda con un sorriso strano, e tutti mi guardano con

la medesima espressione. Prendo la giacca, pago il conto ed esco in

strada. L'aria è fresca e inodore, in un modo violento addirittura, dopo

tutto il fumo del locale e dopo il sapore dell'alcool. Sono solo e sono le

due di notte. Domattina alle otto devo essere al lavoro.


 

L'UOMO NERO

 

La camera era piena di ogni cosa, di tutte quelle cose che piacciono ai

bambini dell'età di Martino. Lui era già nel letto, e aspettava. Aspettava

suo padre perché gli raccontasse una storia, e suo padre si divertiva un

mondo quando riusciva ad inventarne una nuova, su due piedi. La sedia dei

vestiti di Martino era addirittura ingombra e prima di sedersi accanto al

suo letto, suo padre dedicò qualche minuto a ripiegare in modo decente gli

abiti buttati alla rinfusa sulla poltrona. "Martino devi essere più

ordinato, lo sai che dopo la mamma si arrabbia e ti sgrida" "Ma tanto poi

sgrida anche te" gli rispose Martino ridacchiando. Suo padre scosse la

testa sorridendo a sua volta e ripensando che era vero. Era sempre stato

la personificazione del disordine: era disordinato in un modo quasi

patologico: ricordava ancora, e non li avrebbe mai più dimenticati, gli

innumerevoli litigi con sua madre per i vestiti lasciati dovunque, per le

scarpe che ammorbavano la stanza, ma lui non sentiva nulla, per i libri

impilati sul comodino a sfidare la gravità. La quale gravità poi si

offendeva di tutte quelle sfide e li faceva cadere rovinosamente a terra,

di solito sempre a notte fonda in modo che tutti quelli che stavano

dormendo si svegliavano di soprassalto bestemmiando. Dopo aver finito di

riordinare in qualche modo gli abiti di Martino, il padre si sedette

accanto al suo letto e si preparò a raccontare la storia della sera. Gli

piaceva prendersi questa pausa prima di iniziare la storia, e gli piaceva

che questa pausa fosse molto teatrale, fingeva di essere molto più assorto

di quanto fosse in realtà, ma gli piaceva lasciar correre lo sguardo sui

libri colorati del bambino, sui suoi pupazzi, con cui non giocava mai, e

che erano perfettamente allineati sulle mensole, e sui soldatini, sui

mostri spaziali, sui pezzi di legno raccattati chissà dove, con cui

giocava sempre e che invece erano ammucchiati in qualche modo davanti

all'armadio. "Questa sera ti racconto la storia dell'Uomo Nero, che viveva

di notte nella casa della nonna quando io ero un bambino." Martino, come

faceva sempre quando si rendeva conto che l'argomento della storia sarebbe

stato spaventoso, si tirava le coperte fin sotto gli occhi e nascondeva le

mani. Ma erano proprio gli occhi a tradirlo, perché in quel momento

brillavano e si riempivano di attesa per i brividi che avrebbe provato di

li a poco. Gli piacevano i racconti "paurosi", come li chiamava lui, e

godeva di quella speciale paura che provano i bambini quando un famigliare

gli racconta quel tipo di storie. "Devi sapere che nella casa della nonna

viveva un moooostro, molto molto cattivo, chiamato Uomo Nero." Alla parola

mostro, il padre allungò una mano per fare il solletico a Martino che,

ridacchiando e scalciando sotto le coperte si coprì anche gli occhi.

"Questo mostro viveva solo di notte, di giorno non c'era e non so dove

andasse. Ma la notte, quando la nonna veniva a spegnere la mia luce perché

era ora di dormire, l'Uomo Nero si preparava a fare il suo lavoro...." A

questo punto la pausa era obbligatoria, e infatti sentendo che la storia

non continuava, Martino abbassò le coperte e chiese: "E dopo?" Con il

sorriso sulle labbra il padre di Martino continuò la sua storia. "Appena

la nonna spegneva la luce e io non stavo ancora dormendo, l'Uomo nero

incominciava a salire le scale per venirmi a controllare. Io sapevo che

non mi dovevo muovere assolutamente, perché se quando l'Uomo Nero entrava

nella mia camera io non ero fermo fermo fermo e con gli occhi chiusi, mi

prendeva e mi portava via per sempre. Allora, io che lo sapevo, mi mettevo

buono buono sotto le coperte, chiudevo gli occhi e non muovevo nemmeno un

muscolo. Non aprivo mai gli occhi per guardare,perché se lo avessi

guardato anche solo per un attimo ...Zac!...mi avrebbe portato via". Sullo

zac un altro solletico a Martino che di nuovo sghignazzando e scalciando

si nascose sotto le coperte. Altra pausa ad effetto. Martino riemerse dopo

qualche secondo e chiese: "Ma dove ti portava?" "Mi portava nella sua

casa, che era lontana lontana lontana, e mi faceva diventare il suo servo,

e io avrei dovuto pulire tutta la sua casa e rimettere in ordine le cose

che lui lasciava in giro. L'Uomo Nero era mooolto più disordinato di te, e

anche mooolto più disordinato di me." Di nuovo sul mooolto, il padre

allungò una mano per fare il solletico a Martino, che però non rise e

guardando il padre negli occhi disse:"Ma allora abita anche qui con noi,

io l'ho visto!". Il padre restò per un attimo pensieroso e chiese: "E dove

l'hai visto?" "L'altra sera, quando mi sono alzato per andare a fare la

pipì! Era nel corridoio, nascosto nel buio, ma io l'ho visto lo stesso!"

"E cosa ti ha detto? Non hai avuto paura?" "Non mi ha detto niente, stava

solo fermo nel buio e mi guardava. Ho avuto paura ma non tanta. Sono corso

nel letto e ho chiuso gli occhi. Poi basta!" "Sei stato bravo. Non bisogna

avere troppa paura dei mostri come l'Uomo Nero, ma un po' sì" disse il

padre di Martino riflettendo che era pur sempre suo figlio, e non era per

niente strano che avesse la fantasia che andava nella sua medesima

direzione. "Allora adesso io vado a dormire, e dopo che ho spento la luce

tu sai che non ti devi muovere, non devi guardare nel buio, perché se

entra l'Uomo Nero ti porta via e dopo devi mettere in ordine tutte le cose

perfettamente nella sua casa, che è mooolto grande e mooolto disordinata.

Va bene?" Martino annuì con la testa alcune volte per sottolineare che il

concetto era proprio chiaro. Il padre si chinò sul bambino, lo baciò sulla

fronte e risistemando le coperte gli augurò la buonanotte poi, spenta la

luce uscì dalla camera del bambino. Andando in bagno non riuscì ad evitare

di sbirciare le parti buie del corridoio, come se cercasse l'uomo nero e

sorrise. Si mise a letto e, invece di prendere il libro dal comodino,

pensò a lungo alle sue paure di bambino e alla differenza che trovava tra

se stesso e Martino. Non era certo quella che aveva raccontato a Martino

la pena che l'uomo nero gli avrebbe inflitto se non dormiva e stava

perfettamente fermo nel buio. Ora ci poteva sorridere e cercare di

ricordare anche i particolari, ma era ben altro che lo aspettava se l'Uomo

Nero l'avesse catturato. Non ricordava nulla di preciso, solo le

sensazioni di terrore, l'odore della paura, come aveva letto da qualche

parte. L'odore della paura che adesso, dopo una vita gli sembrava più che

altro un profumo. Suo figlio gli aveva appena detto che aveva visto l'Uomo

Nero, e non sembrava affatto spaventato. Se fosse capitato a lui, ai suoi

tempi, probabilmente avrebbe avuto una crisi isterica! Poi sorrise: l'Uomo

Nero, il sonnifero più innocuo della storia! Prese il libro, sapendo bene

che non si sarebbe mai addormentato senza leggere qualche pagina, ma il

sonno lo colse molto presto quella notte, e dopo pochissime pagine posò il

libro. Come faceva sempre, prima di dormire, studiò fin nei minimi

particolari la sua camera da letto. Guardò l'armadio soffermandosi sui

giochi di ombre che si proiettavano sulle porte intagliate e decorate,

guardò la sua poltrona dei vestiti che in fondo, dopo trent'anni non era

poi molto più ordinata di quella di Martino, e guardò le tende bianche

alle finestre. Gli piacevano le trasparenze, gli piaceva guardare fuori,

vedere i lampioni, o il bianco lucente della nebbia quando c'era. Gli

piaceva la penombra che si creava nella camera, a luci spente. Non era mai

riuscito a dormire con le tapparelle abbassate: amava svegliarsi al

mattino con la camera inondata di luce e questo gli aveva creato non pochi

problemi con sua moglie che, infatti stava dormendo con una mascherina

sugli occhi, per non essere disturbata dalla luce che entrava. Ma lui non

riusciva proprio a stare al buio completo. Sorrise pensando che magari

l'Uomo Nero aveva la sua bella responsabilità in tutto questo. Guardò con

un sorriso la moglie addormentata. Negli ultimi tempi si erano

allontanati, ma pensavano entrambi che fosse normale, anche se quella sera

gli venne da pensare che se la distanza era riconosciuta da entrambi non

era poi un bel segno, anche se le loro energie erano assorbite quasi per

intero da Martino. Allungò la mano per spegnere la luce e si addormentò.

Si svegliò di soprassalto alcune ore dopo, senza capire cosa lo avesse

svegliato. Sua moglie dormiva accanto a lui. Il suo primo pensiero fu per

Martino e si tirò su per andare a vedere se ci fosse qualcosa di strano

nella camera del bambino. Si fermò nel corridoio, proprio sulla porta

della camera di Martino e sentì, con un certo sollievo il respiro pesante

di suo figlio che dormiva. Aveva il naso chiuso da alcuni giorni, ma il

suono del suo respiro gli sembrò bellissimo in quel momento. Si sentiva in

ansia, continuava a chiedersi cosa lo avesse svegliato. Scese le scale e

fece un giro per la casa accendendo tutte le luci per verificare che non

ci fosse nulla di strano. Non c'era nulla di strano. Controllò la porta,

che sembrava la pubblicità di una ferramenta ed era ben chiusa e controllò

ad una ad una ogni finestra. Ma era tutto tranquillo. Tranne lui, che

sentiva l'ansia crescere. Tornò a letto. Stette ad ascoltare se dalla

finestra aperta giungessero rumori insoliti, ma era tutto tranquillo.

Spense la luce sul comodino, e restò così, con un senso di malessere a

guardare la penombra della sua stanza. L'armadio era uno scuro muro

incombente sopra di lui, gli intarsi e le volute erano scomparsi, se non

nell'angolo più vicino alla finestra, dove le forme indistinte delle

decorazioni davano allo spigolo dell'armadio un aspetto inquietante.

Sentiva il respiro leggero di sua moglie: non l'aveva disturbata: di

sicuro, oltre alla mascherina sugli occhi aveva anche i tappi di cera

nelle orecchie. Il suo sguardo si posò sulla sua poltrona dei vestiti,

nell'angolo dell'armadio, ma non vide nulla, il buio era troppo intenso in

quell'angolo. Continuò a guardare, con insistenza: con la luce che

filtrava dall'esterno non era normale che il buio fosse tanto intenso da

non vedere nulla, nemmeno la sagoma della poltrona, nemmeno il mucchio

scuro dei suoi abiti. Un brivido violento lo fece sussultare: aveva

l'impressione che qualcuno lo guardasse dal buio che nascondeva la

poltrona. Strizzò gli occhi per capire meglio quello che stava guardando e

poi realizzò cosa poteva essere. Lo capì in un istante ma lo capì un

istante troppo tardi. Quando si rese conto di Chi lo stava guardando, era

davvero troppo tardi.