“Le vacanze degli innocenti”

  di Vittorio Frau

  Ritengo di essere una persona “normale” se con questo termine vogliamo indicare una qualunque persona che si adatta ai comuni stereotipi che dal momento della nostra nascita a quello della dipartita ci accompagnano nei gesti quotidiani, se non fosse per un piccolo problema che mi fa sentire in qualche modo “fuori” : odio con tutte le mie forze le vacanze, in modo particolare i viaggi all’estero e i campeggi. E non sopporto sentir parlare di “vacanze intelligenti”, perchè, e ricordatevi bene queste parole, le vacanze non sono mai intelligenti , né riesco a ritenere tali coloro che le attendono per undici mesi e quindici giorni l’anno.

Non che si tratti di un odio per partito preso, questa mia avversione è frutto di un serio ragionamento effettuato dopo aver fatto le mie belle esperienze.

Devo ammettere di provenire da una realtà familiare in cui grazie al cielo le vacanze hanno sempre avuto una scarsa importanza, e la mia infanzia è piena di dolci ricordi persi nei torridi pomeriggi dell’agosto cittadino, quando tutti i rompiballe si allontanano dalla città, lasciandola fra le mani di chi sa godersela in ogni suo attimo.

Il mio esordio, il primo contatto cioè con la realtà delle vacanze risale al lontano 1978 quando, tenero quattordicenne avido di avventure da poter raccontare, organizzai con alcuni amici il primo e purtroppo non ancora ultimo campeggio della mia vita.

La frase che riporto qui sopra “avventure da poter raccontare” non è casuale: sono fermamente convinto che se ai vacanzieri qualcuno impedisse di raccontare in giro l’andamento delle proprie vacanze, questi ultimi non esisterebbero. E’ un po’ come per le discoteche (sulle quali quando diventerò famoso scriverò un intero libro), infatti sono convinto che l’ottanta per cento dei frequentatori delle discoteche lo sia soltanto per poter dire agli altri “ieri notte sono stato in discoteca” senza però aggiungere di essersi annoiato a morte, di aver fatto finta di essere ubriaco per attirare l’attenzione delle ragazze (d’altronde chi potrebbe mai ubriacarsi in un luogo in cui un bicchiere di Whisky costa quindicimila lire?), e di avere contato con trepidazione i minuti che lo separavano dall’orario di chiusura.

Tornando al mio primo campeggio, ricordo di essermi recato con un mio zio di origini napoletane in un negozio di roba usata situato nella mia adorata Cagliari, grazie al quale riuscii ad acquistare un sacco a pelo seminuovo (anche se con un leggero odore di carogna) al prezzo di settemila lire.

 

  IL CAMPEGGIO A SANTA MARGHERITA DI PULA

 

  Partimmo carichi di speranza, cantando a squarciagola canzonette sconce, mentre, a bordo dei nostri ciclomotori, divoravamo allegramente i chilometri che ci separavano da Santa Margherita di Pula, meta del nostro viaggio. Avevo in quei tempi un “Bravo” della Piaggio, sul cui microscopico sellino prendemmo posto in due: io e il mio amico Claudio, un energumeno alto un metro e novanta per circa novanta chili di peso, che provocava nei cinquanta centimetri cubici del mio del mio povero ciclomotore dei rumori simili a lamenti di un animale ferito a morte.

Giunti al dodicesimo chilometro della Strada Statale 195, osservammo il “vespino” condotto dall’amico Carmelo sbandare paurosamente per poi rovinare con un tonfo secco contro un cumulo di sabbia posto al lato della carreggiata, urto accompagnato da una singolare pioggia di caffettiere, forchette, coltelli e persino un frullatore. Chiedemmo a Carmelo cosa mai se ne facesse di un frullatore visto che il luogo in cui saremmo dovuti andare era sprovvisto di energia elettrica, e lui rispose di non averci pensato. Scendemmo dai nostri ciclomotori per aiutare le povere vittime del sinistro; era difficile capire dove finisse il “vespino” e dove cominciasse il cumulo di sabbia, ma dopo qualche tempo riuscimmo a distinguere le due parti e a disincastrare il mezzo. Riprendemmo il nostro viaggio e, allo scopo di sdrammatizzare l’incidente, Carmelo intonò un altra canzonetta sconcia, che narrava delle vicissitudini di una giovinetta rimasta per due giorni rinchiusa in un ascensore in compagnia di quattro ambulanti di colore. Per colmo di sfortuna il nome della protagonista corrispondeva a quello della fidanzata di Rolando, il passeggero da lui trasportato, il quale, già indispettito per la rovinosa caduta, diede una poderosa mazzata con il palmo della mano sulla nuca dell’incolpevole Carmelo rischiando, durante la colluttazione che ne seguì, di cadere nuovamente dalla sella.

Giungemmo senza ulteriori problemi alla nostra meta, ricordo che appena sceso dal mio ciclomotore rimasi per qualche minuto bloccato con le gambe divaricate a causa di un tremendo indolenzimento dovuto al fatto che avevo percorso circa quaranta chilometri con l’osso sacro poggiato su quattro centimetri di sellino.

Decidemmo di montare la tenda al centro di una pineta sita nelle vicinanze di un lussuoso albergo; sulle operazioni di montaggio preferisco sorvolare in quanto difficilmente ciò che ci è successo può essere creduto da chi si trovasse a leggere queste righe, mi limiterò a dire che durante le quattro ore che impiegammo a rizzare l’infame dimora ci capitarono tutti gli inconvenienti che è possibile immaginare in circostanze analoghe.

Trascorsi quindici secondi dal termine delle operazioni di montaggio venimmo circondati da tre auto dei carabinieri, i quali ci cacciarono di malo modo sotto la minaccia di sanzioni pecuniarie che avrebbero rovinato anche l’avvocato Agnelli. E’ buffo constatare la solerzia delle forze dell’ordine in tali frangenti, a tale proposito rammento che una volta mi capitò di essere minacciato, all’uscita di una discoteca, da un energumeno armato di un coltello simile a una sciabola da samurai, ricordo che telefonai più volte ai carabinieri sollecitando un loro intervento senza riuscire a vederne l’ombra, eppure è sufficiente accendersi una canna o montare una tendina canadese per vederli arrivare alla velocità della luce. Se mai mi dovessi trovare di nuovo minacciato da un delinquente armato la mia telefonata sarebbe la seguente: “Aiuto, sono minacciato da un gaglioffo armato che è appena uscito da una tendina canadese fumando uno spinello!” Allora avrei la certezza di un immediato intervento.

Avevamo le lacrime agli occhi nello smontare la tendina rizzata con tanta fatica, ma fu un attimo di sconforto passeggero, bastò infatti che l’amico Rolando, da tempo malato di aerofagia, dedicasse uno dei suoi caratteristici “rumori” a coloro che con tanta disinvoltura ci avevano cacciato, per farci tornare il buon umore.

Vorrei soffermarmi su questo “difettuccio” di Rolando che suscitava in tutti noi tanta ilarità: pare che il disturbo fosse causato dalla deglutizione involontaria di aria che provocava in lui una fastidiosa dilatazione dello stomaco, alla quale poneva rimedio emettendo delle altisonanti flatulenze. Qualunque persona con un briciolo di buona creanza cercherebbe di evitare di compiere in pubblico tali operazioni, ma non Rolando che aveva la pessima abitudine di addossare, con espressione impassibile, agli altri la paternità delle sue “arie”, causando liti fra fidanzati e stroncando sul nascere storie d’amore appena sbocciate. Questo suo viziaccio fu la causa che qualche anno dopo decretò la fine della nostra amicizia: era un pomeriggio radioso, e il maggio odoroso spingeva le giovini fanciulle a passeggiare leggiadre per le vie, camminavo sereno per la Piazza Repubblica quando mi si affiancò Rolando, a bordo di una fiammante “Golf Cabriolet”, invitandomi a salire.

Ci recammo nei pressi del liceo “Dettori” luogo notoriamente frequentato dalle più avvenenti ragazze cagliaritane e ivi ci fermammo; vidi Rolando armeggiare all’interno del cruscotto dell’auto, dal quale estrasse una audiocassetta che infilò nella autoradio, un “Pioneer” ultimo modello con altoparlanti da 500 watt. Il vigliacco aveva registrato uno dei suoi “venti” più poderosi sul nastro appena messo all’interno della autoradio, la quale riprodusse l’osceno rumore enormemente amplificato. Tutte le fanciulle presenti si voltarono scandalizzate guardandomi con aria schifata, mentre io cercavo di discolparmi additando con l’indice proteso della mano destra il mio ormai ex amico che mi osservava con la solita faccia impassibile.

Il ricordo di quel pomeriggio suscita ancora in me, nonostante siano passati tanti anni, un pesante senso di malessere.

Ma torniamo a noi; dopo la cacciata dal luogo in cui avevamo piazzato la tenda, si presentava il problema di trovare uno spazio dove poter passare la notte senza provocare l’intervento di iracondi tutori dell’ordine. Identificammo l’agognato posto qualche chilometro più avanti, in una graziosa pinetina il cui unico difetto era la pendenza pari al 40%. Si era ormai fatto buio e decidemmo insieme di non montare la tendina, ma di trascorrere una suggestiva notte sotto le stelle dormendo all’interno dei sacchi a pelo. Ci disponemmo in cerchio e cominciammo a discutere del più e del meno, raccontandoci a vicenda fantascientifiche avventure amorose; in realtà nessuno di noi credeva a una sola parola dei racconti degli altri, ma non avevamo il televisore, e dovevamo pur fare trascorrere il tempo. Verso mezzanotte Carmelo disse: “Ora mi alzo e vado a prendere una sigaretta nello zaino!” Carmelo era l’individuo più pigro che mi fosse capitato di conoscere, caratteristica che dimostrò anche in quel frangente: ritenendo troppo faticoso aprire la lampo del sacco a pelo, si alzò in piedi e cercò di raggiungere lo zaino saltellando come in una corsa coi sacchi, ma dopo pochi balzi inciampò in una radice che spuntava a tradimento dal suolo, sbattendo il capo contro un grosso pino che era lì da parecchi secoli. Carmelo rinunciò alla sigaretta e dormì come un sasso per tutta la notte.

Intanto Rolando, chiuso all’interno del sacco a pelo, dava sfogo alle sue turbe intestinali emettendo rumori che portavano alla mente il suono delle trombe del giudizio. Ricordo di aver pensato che non avrei accettato di mettere il naso in quel sacco a pelo nemmeno per tutto l’oro del mondo, poi, vinto dalla stanchezza, mi appisolai.

Dormimmo tutta la notte con il sonno pesante dei giovani, senza renderci conto che, a causa della forte pendenza del terreno stavamo lentamente ma inesorabilmente scivolando verso la Statale 195. L’alba ci sorprese praticamente in mezzo alla strada, io fui il primo ad aprire gli occhi grazie alle trombe di un autocisterna dell’AGIP che ci aveva schivato miracolosamente. Subito dopo aprì gli occhi Carmelo che nel guardare il proprio corpo fasciato dal sacco a pelo urlò: “AIUTO NON HO PIÙ’ LE BRACCIA!” “Apri il sacco a pelo cretino, vedrai che le troverai la dentro!” - gridai - “ e poi alzati in fretta se non vuoi finire come quella pelle d’agnello che ha tuo nonno in salotto!” A quel punto anche Carmelo si accorse della poco felice posizione in cui ci trovavamo, e con uno scatto fulmineo abbastanza anomalo, vista la sua “bradipea” pigrizia, si mise in salvo. La discesa di Rolando era stata fermata da un cespuglio di lentischio, mentre Claudio dormiva saporitamente con il corpo sul finire del pendio e la testa sull’asfalto, il tutto sotto la supervisione di un gatto randagio che lo osservava stupito. Proprio in quell’istante si svegliò Rolando, il quale come al solito salutò il nuovo giorno con uno dei suoi poderosi “venti” che squarciò il silenzio mattutino, strappando dalla beata attività onirica l’amico Claudio, il quale impiegò parecchi minuti per rendersi conto della bizzarra posizione in cui si trovava. Allontanatici dal pericolo cercammo di organizzare la giornata: “come prima cosa, ci vuole una bella colazione” - disse Rolando massaggiandosi lo stomaco - “io suggerirei di andare al bar del vicino albergo!” “Ma non dire sciocchezze!”- sbottò Carmelo - “siamo o non siamo dei campeggiatori? Penso io alla colazione, voi andate al mare a fare un tuffo, vedrete che al vostro ritorno troverete un bel caffè fumante, penso a tutto io!” La frase “penso a tutto io” uscita dalla bocca di Carmelo, suonava come alle mie orecchie come un altisonante campanello d’allarme, tuttavia decisi di non dare ascolto al mio quasi infallibile pessimismo.

Oltrepassammo la collina, ci recammo alla vicina spiaggia, e ci immergemmo in quell’acqua gelida che solo chi conosce gli effetti che anno sul mare nove giorni consecutivi di Maestrale in Sardegna può capire. “Ehi Vittorio, che tu sappia è molto grande la caffettiera di Carmelo?” - disse Claudio osservando il cielo -. Guardai in alto e scorsi con terrore una gigantesca nube grigiastra che sovrastava la collina sulla quale avevamo lasciato Carmelo. Corremmo a perdifiato guidati da un terribile presentimento e, giunti nei pressi dell’improvvisato campeggio, trovammo Carmelo sul ciglio della strada che, con gli occhi sbarrati, osservava un immane rogo partito dal suo fornellino da campeggio e propagatosi dapprima agli aghi di pino che coprivano abbondanti il suolo quindi a tutta la pineta circostante. Riuscimmo a stento a salvare la nostra roba e, scorgendo dall’altura in cui ci trovavamo diversi automezzi delle guardie forestali che accorrevano da ogni parte, decidemmo di allontanarci velocemente. Nascondemmo la nostra roba dentro una vecchia casa cantoniera, e ci infilammo carponi in uno stretto cunicolo per il deflusso delle acque piovane che passava sotto la strada. Il primo a entrare fu Claudio, io riuscii per un soffio a precedere Rolando che entrò subito dopo; ultimo era il povero Carmelo, che con il naso a un palmo di distanza dal deretano di Rolando urlò:”se ti azzardi a farlo ti uccido!” Non fece in tempo a terminare la frase che venne investito da una terribile flatulenza amplificata dalle pareti del cunicolo. All’uscita vi fu fra i due una breve colluttazione, ma poi il senso di amicizia ebbe la meglio e la cosa non ebbe conseguenze.

Trascorremmo gran parte della mattinata nascosti in mezzo alla macchia mediterranea, e solo intorno alle 14.00 trovammo il coraggio di uscire, constatando che l’incendio era stato domato. Raccogliemmo in fretta e furia le nostre cose e, allo scopo di interporre fra noi e il luogo del misfatto più strada possibile, percorremmo diversi chilometri a ritroso. identificammo un altra zona in cui fermarci nei pressi di “Forte Vacanze”, un esclusivo luogo di vacanza per nababbi dove i poveri campeggiatori come noi erano visti come Hitler avrebbe visto un negro orfano adottato da una famiglia di ebrei e, temerariamente, decidemmo di fermarci.

Il “Forte Vacanze” era un luogo da sempre avvolto nel più fitto mistero e, come tutti i luoghi inaccessibili, era circondato dalle più svariate leggende: Claudio ci raccontò che nel 1969, un lontano cugino del fratello del cognato del marito di seconde nozze di una sua prozia, era riuscito, in compagnia di tre amici “hippies”, a introdursi nel “Forte”, dove trascorse alcune ore liete prima di essere scoperto dai terribili guardiani, descritti dai pochi che hanno potuto raccontarlo come esseri giganteschi con un solo occhio posto al centro della fronte. La leggenda dice che i poveri componenti dell’ex allegro quartetto vennero sottoposti a torture indicibili, e che tre di essi si trovino tuttora prigionieri all’interno, dove è stato allestito un singolare Zoo in cui i ricchi turisti possono ammirare le gabbie piene di campeggiatori abusivi. L’unico che riuscì a tornare fu proprio il lontano parente di Claudio, il quale fu ritrovato da alcuni familiari invecchiato di dieci anni, con tutti i capelli bianchi e affetto dal morbo di Parkinson, mentre parlava con gli uccelli in cima a una montagna. Quando il racconto di Claudio si soffermò su alcuni presunti episodi (anche se sporadici) di cannibalismo avvenuti all’interno del luogo in questione, decidemmo di non dargli più ascolto, poi una caratteristica “voce dall’interno” di Rolando ci riportò alla realtà.

Decisi a non farci intimorire da assurde leggende, allestimmo fischiettando l’improvvisato campeggio, con tanto di servizi igienici ricavati da una vecchia lavatrice abbandonata priva dell’oblò. Scoprimmo con sgomento che la nostra tendina canadese poteva ospitare al massimo tre persone, quindi uno di noi avrebbe dovuto dormire all’esterno. La soluzione più logica ci parve quella di far pernottare all’aria aperta Rolando per ovvi motivi, ma egli si oppose energicamente, quindi decidemmo di tirare a sorte. La pagliuzza più corta toccò a Carmelo il quale, seppure a malincuore, accettò sportivamente.

Dopo aver fatto giurare Rolando che almeno nell’angusto ambiente della tendina avrebbe evitato di dare sfogo all’aria che premeva rabbiosa contro le pareti del suo stomaco, ci ritirammo per godere del meritato riposo. Nessuno di noi si era accorto che il racconto di Claudio aveva scosso seriamente il povero Carmelo, che al pensiero dei tremendi guardiani del “Forte” non riusciva a chiudere occhio, e a ogni minimo rumore trasaliva chiamando la mamma. All’alba, puntuali come le scadenze delle cambiali, arrivarono le “gazzelle” dei carabinieri, sorprendendoci nel sonno. Uno dei militari svegliò, toccandolo con la punta dello stivale, il povero Carmelo che, ancora terrorizzato dai racconti della sera precedente urlò: “aiuto, ci sono i guardiani, non lasciate che mi portino nello Zoo dei campeggiatori!” “Ma cosa stai dicendo, imbecille, sei forse drogato?”- disse il carabiniere. -”Ah meno male, siete voi!” - rispose sollevato Carmelo.- Il tutore dell’ordine lo guardò con aria perplessa e, rivolgendosi a un suo collega, disse: apri quella tendina e sveglia gli altri giovanotti.- “NO ASPETTATE UN ATTIMO!” - Gridò Carmelo - ma prima che riuscisse a fermarlo, il carabiniere aprì la tendina con un gesto deciso, e Rolando, convinto che si trattasse dell’amico che aveva trascorso la notte all’esterno, gli scaricò sul viso una putrescente miscela di gas intestinali che aveva tenuto faticosamente imbrigliati per tutta la nottata. Rolando ebbe salva la vita solo grazie alla prontezza degli altri carabinieri che riuscirono a strappare la mitraglietta d’ordinanza dalle mani della furibonda vittima.

Alla luce di questi avvenimenti concordammo sul fatto che quel campeggio non era nato sotto una buona stella, e decidemmo di tornare a casa, ma non prima di avere trascorso un ultima giornata da leoni.

Il sole splendeva alto nel cielo, e solo alcuni cordoni arancioni tesi fra due pali dorati costituivano la barriera che ci separava dal mondo incantato del “Forte Vacanze”, ci guardammo in faccia per un attimo e poi ci avventurammo disinvolti nell’esclusiva spiaggia. Venimmo immediatamente riconosciuti dai guardiani, energumeni la cui descrizione fattaci dai racconti di Claudio non si allontanava troppo dalla realtà, che ci rispedirono a pedate nel mondo dei poveri. Trascorremmo le ore successive nel silenzio più totale, seduti su alcuni sassi, per poi avviarci mestamente verso i nostri ciclomotori.

Strada facendo vedemmo, affisso a una cabina telefonica, un manifesto che pubblicizzava una grandiosa festa danzante all’interno del “Forte”; a questo punto Claudio disse: “Sono sicuro che senza di voi, che avete l’aspetto da barboni, stasera riuscirò a entrare e a godermi la festa!” “Provaci!” - Rispondemmo quasi all’unisono sentendoci feriti nell’orgoglio. - “ Stasera vi farò vedere io” - replicò Claudio dirigendosi verso il luogo in cui aveva posato il suo zaino-. Visto il tempo che impiegò per la scelta dell’abbigliamento, deducemmo che all’interno di quello zaino doveva esserci il contenuto di un intera boutique. Dopo qualche ora era pronto per recarsi alla festa.

Abbigliamento di Claudio: maglietta retinata giallo canarino con ampia scollatura a barca; pantalone in lino attillato colore celeste chiaro, stivaletti bicolori con tacco obliquo e piccola cerniera laterale; profumo “ Paciulli” versato con generosità in ogni parte del corpo e pettinatura con “mascagna velenosa” alta dodici centimetri, pettinatura che sarebbe stata alla moda circa sette anni più tardi. Trattenemmo a stento le risate perchè Claudio appariva molto fiero del suo aspetto e lo osservammo in religioso silenzio mentre con passo deciso si introduceva, via spiaggia, nel “Forte Village”. Spinti da ovvia curiosità ci disponemmo lungo la rete di recinzione, luogo da cui riuscivamo a scorgere l’intero andamento della festa.

Si trattava di un ricevimento come se ne possono vedere solo nei serial del tipo di “Dallas” o “Dinasty” , intravedevamo donne da favola con orecchini di zaffiri grandi come lampadari e gigantesche collane d’oro sotto il cui peso si sarebbe schiantato un toro che passeggiavano con classe, fasciate in stupendi abiti da sera. Gli uomini erano tutti elegantissimi con dei visi da “foto del barbiere”.

Osservavamo con la bocca aperta quello scenario irreale, quando dal lato del giardino adiacente alla spiaggia apparve Claudio che, a causa dell’abbigliamento descritto precedentemente e un portamento non proprio da nobile, si trovò immediatamente al centro dell’attenzione. Ben presto si trovò faccia a faccia con tre dei guardiani che quel pomeriggio ci avevano ricordato a pedate il rango sociale al quale appartenevamo.

Il povero Claudio fece un ultimo patetico tentativo per non farsi riconoscere, cercando di stravolgere i propri lineamenti sbarrando gli occhi e tirando in dentro le guance, ma purtroppo questo misero espediente non bastò a evitargli una dura punizione corporale. Venne agguantato da sei robuste braccia e trascinato all’interno di un capanno per gli attrezzi, dove fu brutalmente percosso con il manico di una zappa riportando, come avremmo constatato il giorno seguente, vaste ecchimosi generalizzate. Restammo lì a fissare con gli occhi sbarrati quei profondi solchi paralleli simili a binari lasciati sul terreno dagli stivaletti di Claudio durante il trascinamento, ormai rassegnati al peggio.

Dopo circa un quarto d’ora la porta del capanno si aprì, uscì uno dei guardiani in compagnia del nostro amico, tenendogli la testa saldamente serrata fra il braccio destro e il petto. Claudio fu poi legato con una sagola da barca a uno dei lampioni del giardino, e per il resto della nottata fu deriso dagli invitati, punzecchiato con dei pezzi di legno da bambini curiosi e perfino usato come orinatoio dal “pechinese” di una anziana contessa che, sollevata la zampetta posteriore, macchiò irrimediabilmente i suoi tronchetti bicolori.

A quel punto decidemmo di andarcene, dicendo che in fondo “se l’era andata a cercare”, e che dopo tutto una simile lezione non poteva che “fargli bene” e, vista l’ora tarda, ci infilammo nei nostri sacchi a pelo.

Claudio fu liberato all’alba e venne con aria disinvolta verso la nostra direzione, inconsapevole del fatto che avevamo seguito da lontano l’intera vicenda. “ Beh rubacuori, dicci come è andata!” - disse con una punta di sadismo Rolando - Magnificamente!” - Rispose con una impennata d’orgoglio Claudio - “ Ho conosciuto una giovane signora che si è innamorata di me a prima vista, che notte ragazzi!” A questo punto cominciò a raccontarci una assurda storia sicuramente concepita durante le lunghe ore di prigionia, farcita di particolari piccanti che ci fece scoprire in lui doti di incredibile immaginazione e una faccia tosta che non temeva confronti, il tutto accompagnato da ampi gesti con le mani e eloquenti movimenti delle anche. “ E bravo il nostro seduttore!” - esclamò Rolando - e così dicendo gli diede una violenta pacca sulla spalla che, a causa del dolore derivante dai colpi infertigli con il manico della zappa, provocò in lui uno straziante grido che lacerò il silenzio mattutino. “Cosa è successo alla tua schiena?” - disse Rolando fingendosi stupito - “ Niente” - rispose Claudio arrossendo - quella donna era una vera tigre, guardate cosa mi ha fatto!” Si girò scoprendosi le spalle e constatammo con stupore che la sua schiena appariva maculata come quella di un leopardo, grazie a un numero impressionante di lividi multicolori.

Nessuno di noi ebbe a questo punto il coraggio di infierire ulteriormente, quindi decidemmo, scambiandoci eloquenti occhiate, di stendere un pietoso velo sull’intera vicenda e mantenere il silenzio, facendo intendere all’amico Claudio di avere creduto a tutte le sue panzane.

Ci riunimmo mestamente all’ombra di un salice piangente, albero che più di ogni altra pianta rispecchiava il nostro umore nel tirare le somme di quei difficili giorni di vacanza, e decidemmo di fare ritorno a casa. Impiegammo circa due ore a inventare delle avventure convincenti da raccontare agli amici rimasti in città ( pratica seguita dalla stragrande maggioranza dei vacanzieri ), salimmo sui nostri ciclomotori e partimmo alla volta della nostra agognata Cagliari.

Il cielo grigio faceva da giusta cornice al grottesco quadro delineatosi in quei pochi giorni; non cantammo le canzonette sconce che furono la colonna sonora del nostro viaggio di andata, ma impegnammo il tempo a ripassare la falsa versione sull’andamento delle vacanze che avremmo propinato a chiunque ci avesse domandato qualcosa.

Ricordo ancora la stupenda sensazione che provai quando, dalla Statale 195 cominciai a intravedere la città, divoravo con gli occhi le pietre miliari che mi segnalavano il ridursi della distanza, e ogni sasso, ogni albero mi sembrava più bello; mi apparve stupenda anche la mefitica spiaggia di “ Giorgino”, un orribile luogo simile alle zone balneari romagnole, con sabbia nera e acqua ricoperta da una schiumetta giallastra, spiaggia in cui si era perso il ricordo dell’ultimo bagnante.

Feci così ritorno alla mia casetta di 60 metri quadrati che mi parve per qualche giorno come una reggia, baciai tutte le pareti, i mobili, il mio cane Ugo e infine i miei genitori ai quali propinai una falsa versione sull’andamento del campeggio, che differiva da quella concordata per la sola assenza di alcuni particolari piccanti che avevamo deciso di inserire all’ultimo momento.

 

 

 

 

Questa esperienza mi portò a riflettere per la prima volta sull’annoso problema delle vacanze e mi dissi: Cagliari ha una stupenda spiaggia bianca lunga sei chilometri, dalla quale la mia abitazione ne dista appena quattro; perchè dovrei essere così imbecille da cercare posti lontani in cui i vacanzieri sono divisi in caste sociali, quando ho tutto quello che cerco a portata di mano?

Non trovai opposizioni a quello che dicevo ( anche perchè stavo parlando da solo), quindi approvai all’unanimità quella che sarebbe stata la mia linea di condotta nei confronti delle vacanze.

Nei quattro anni successivi trascorsi altrettanti stupendi mesi di agosto nella mia città; la mia giornata era articolata nel seguente modo: sveglia alle ore dieci, colazione preparata da mamma e mattinata al mare, pranzo alle tredici e trenta (sempre preparato da mamma), abbandono della tavola senza toccare uno spillo e pennichella pomeridiana, pomeriggio di nuovo al mare, rientro alle ore diciannove, doccia e serata da trascorrere in una stupenda Cagliari semideserta, silenziosa, leggendo negli occhi dei pochi passanti che mi capitava di incrociare, una sorta di complicità nel godere di tanta abbondanza approfittando dell’assenza degli spaccapalle lontani, impegnati a lottare per la vita in orribili luoghi gremiti di gente.

Eppure ci ricascai, nell’agosto del 1982&ldots;