La terra di Marcello Tucci
(prologo)
Ingredienti: zucchero, lecitina di soia, olio, cioccolato 10%, conservante,
colorante e aromi naturali. Sembra di leggere la formazione della squadra che
dovrà scendere in campo, ma è soltanto una delle tante liste dei prodotti che
stiamo acquistando.
E cambiato il modo per noi tutti di fare la spesa, le notizie che in questi giorni ci
arrivano dai telegiornali non ci rassicurano più.
Giorno dopo giorno langoscia ed il panico ci assale, la carne che mangiamo
proviene da allevamenti a base di mangimi tossici, stesso possiamo dire delle
altre cose di cui ci nutriamo. Aggiungiamoci che un giorno sì ed uno pure disastri
ambientali minano il nostro pianeta: piogge acide, stagioni diverse da quella di
qualche anno fa, luoghi prima incontaminati, che vedevamo nei migliori
documentari scientifici, sono prede daggressione umane con continue
deforestazioni o perdite di greggio fuoriuscito da navi obsolete che ancora
solcano i mari.
E questo il futuro che volevamo?
E questo il futuro che ci avevano promesso?
Come facciamo a spiegare ai nostri figli che non cè più limite allegoismo umano
e che il valore che più simpone è lo sfruttamento, il denaro, il profitto ad ogni
costo?
Da tempo riflessioni come queste si erano fatte largo nella mia testa, il disagio di
vivere in città cresceva ogni giorno in me.
Un disagio fatto di fuggevoli incontri in città, troppo presi da altre cose invece di
godersi un angolo per sé in compagnia di amici.
Ho aperto la finestra e gettato uno sguardo oltre la cortina dei palazzi circostanti,
con il naso cercavo un odore di terra lontana, il desiderio di andare in campagna
per ricominciare una nuova vita è esploso prepotente.
Uscire da questi schemi, dal modo di vivere in città sembrava ora un dovere
morale, un dovere verso me stesso. Disobbedire ai ritmi frenetici per cercare un
nuovo me stesso con altre cadenze, sembrava questa la vera trasgressione verso
tutto. Non avevo nessuna intenzione di continuare a vivere in un luogo che non
mi apparteneva. Volevo una vita diversa da quella dei miei genitori: una vita di
lavoro per restare intrappolato dentro un palazzo, tra mille palazzi, imprigionato
dietro una finestra.
Dal chiasso delle strade di Roma sono fuggito, lasciandomi alle spalle il clamore
che più non mi si confaceva. Lho lasciato per questa campagna che si stiracchia
la mattina da sotto la nebbia delle valli.
So di non aver lasciato solo il caos cittadino, ma un modo di vivere fatto di
convenzioni e nevrosi.
Ho avuto orrore di me, il terrore di rimanere impigliato alla solita routine, alla
propria vanità.
La paura di rimanere imbambolato davanti alle sirene del potere, programmando
le giornate future per giorni di gloria e di successo. Facendo mestiere dei bisogni
della gente, facendo commercio delle loro speranze.
Per questa ragione ho liberato un sogno, imprigionato da tempo come un uccello
dai mille colori in una gabbia dorata.
1°
Ricordo benissimo la prima volta che mi recai al piccolo pezzo di
terra che acquistai insieme alla casa di campagna. Lemozione
cresceva in me, mano a mano che mavvicinavo, nel percorrere la
stradina che dalla casa portava al piccolo appezzamento. Pareva di
recarmi ad un appuntamento con una persona desiderata; il mio cuore
era felicemente disposto allabbraccio, già le mani si allungavano nel
gesto, gli occhi sorridevano cercando di scrutarlo a distanza. Fin da
quando ero più piccolo restavo affascinato, davanti alla televisione,
nel guardare il lavoro di donne e uomini intenti a coltivare la terra e a
pascolare gli animali della fattoria. Questimmagine simpossessò della
mia mente, sussultava il cuore. Ogni volta che incontravo ampi spazi
coltivati, quando ci recavamo nelle domeniche fuori porta, nella mia
fantasia affiorava la stampa a colori, oramai sbiadita, di un celebre
dipinto di Giovanni Fattori che mia nonna conservava tra le sue cose
più care. La stampa rappresentava un uomo ed una donna in primo
piano, i visi scuriti dal sole, la fatica posata sulle loro mani. Erano
ritratti in un attimo di riposo, forse rivolti a rimirare il lavoro appena
svolto, forse concentrati in una preghiera di buon auspicio per il
raccolto futuro. I loro piedi, calzati con sandali di corda legati fino
intorno al polpaccio, erano ben piantati sulla terra bruna, smossa
dallaratro tirato con buoi che in secondo piano si stagliavano nella
linea dellorizzonte. Il colore principale del quadro era il marrone con
tutte le sue sfumature tendenti al bruno, denunciava la fatica, ma non
vi era sofferenza, semmai la promessa di un buon raccolto, dopo un
impegno così profondo. La terra con il suo colore scuro, grasso, così
simile a quello delle loro mani, sembrava volere esaudire la preghiera
dei due contadini, ricambiando il loro sudore ed impegno. Ora so con
certezza che il mio amore per la campagna, per gli spazi verdi, per la
terra lavorata e smossa per essere coltivata, proviene da quel quadro,
giunto a me attraverso una stampa a colori! Mia nonna, forse in
memoria della sua terra natia di Calabria, la conservava come una
reliquia ed ogni tanto mi permetteva di rigirarmela tra le mani.
Quellimmagine ho inseguito fin da bambino, ignaro che un giorno
avrei potuto ripetere quei gesti resi eterni dal pennello del Fattori.
Sono nato in città, per anni ne ho assunto le movenze frettolose e
distratte, ma ho avuto la fortuna di recarmi spesso nella campagna
romana e ciociara per quelle che si chiamano nella mia città gite fuori
porta. Le gite erano la scusa, per noi romani, di abbandonare una
volta la settimana la Roma rumorosa di tutti i giorni. Erano lunghe
passeggiate nei paesini dei Castelli Romani per approdare affamati alle
trattorie a conduzione familiare. Qui gli adulti, accaldati e bagnati di
sudore oramai disabituati alle camminate, si sedevano ai tavoli
apparecchiati con grandi fogli di carta bianca e dura aspettando che i
piatti locali fossero loro serviti. Per noi più piccoli incominciava la
vera avventura. Si correva fuori per i campi dove il grano ondeggiava
la sua testa bionda al vento. Rincorrevamo gli animali dellaia, ed era
quasi il caos tra lo starnazzare delle oche ed i nostri gridolini di gioia.
Giravamo per le stalle, infilavamo fili derba nelle gabbie dei conigli
che sembravano gradire la tenera verdura che masticavano veloci. Ci
faceva ridere il maiale, sporco di terra fino al muso cui dopo pranzo
ritornavamo con le bucce dei cocomeri che raccoglievamo dai piatti
un po di tutti. I proprietari della trattoria ci lasciavano fare, pazienti e
comprensivi, raccomandandosi solo di non calpestare il campo di
grano alle spalle della cascina. Alla sera ritornavamo a casa stanchi ed
appagati, pronti per altri giorni cittadini. Nel quartiere dove abitavo
tutto questo non cera, ma lo stesso ricercavo nei prati periferici
l'identica poesia. Roma allora non era avara di verde, sebbene
sembrasse crescere a dismisura con i palazzi che toglievano spazio ai
numerosi prati, conservava in un angolo, ogni volta da scoprire,
lincanto degli alberi e dellerba da calpestare. Dalla finestra della mia
camera di bimbo saliva allora prepotente un concerto di grilli e cicale.
Nella periferia di allora resistevano sporadiche case rurali, assediate
tutto intorno dallo sviluppo irrefrenabile delledilizia popolare. Dietro
quelle case, memorie viventi di una campagna scacciata ai limiti,
affioravano testardi orticelli recintati con filo spinato. Era una tenera
resistenza, un coraggioso atto di guerra e per me una testimonianza
necessaria. Gli anni a venire videro unespansione esplosiva e totale di
palazzi, strade, centri commerciali; i prati spelacchiati si
assottigliavano fino al Quadraro e agli altri quartieri vicini, ridotti a
discariche improvvisate. Roma, la generosa, ha cercato di limitare i
danni, recintando verde, addomesticandolo per parchi pubblici e ville.
Io ero già altrove con la testa, puntavo il naso fuori città, la rinascita
mi ha portato a sud nella campagna ciociara, mèta un tempo delle
numerose gitarelle in famiglia. Sapevo con certezza di recarmi ad un
appuntamento con lamica di un tempo, sicuro che lavrei ritrovata e
che mi avrebbe aspettato.
2°
I miei piedi avanzavano velocemente per conto loro, erano frettolosi
darrivare allincontro, i miei occhi si posavano su ogni albero che
ombreggiava la stradina e che mi avrebbe condotto al desiderato
convegno. Scrutavo da lontano per scoprire in anticipo loggetto della
mia visita. Lei era là, assopita nel sole crudele dagosto, era la mia
terra, la terra tanto desiderata. Era spaccata dal caldo torrido, crepata
e segnata nella sua superficie argillosa: un duro suolo incolto da anni.
Su lei era ormai cresciuto di tutto, rovi altissimi sembravano
soffocarla, lerba era alta e dura al passaggio, i miei passi croccavano
su di essa. Conoscevo questa natura selvatica, nei prati periferici del
mio quartiere di città, questa scena era abituale. Là la natura si era
raccolta in sé, si difendeva offrendo il suo volto peggiore, un aspetto
spinoso, rugoso e aggressivo, rancorosa per essere stata segregata e
divisa nella sua estensione. Lho amata da subito, sotto la sua
apparenza riottosa saliva il suo odore dolciastro. Vi ho passeggiato per
qualche minuto percorrendola per tutta la sua lunghezza. Di qua si
alzavano cascate di rovi da dove si affacciavano piccole more
impolverate da una terra biancastra, là, disordinatamente, crescevano
ciliegi e prugni nati spontaneamente da alberi più antichi piantati dai
vecchi proprietari. Sul terreno si allungavano desolati i rami
rampicanti delle viti alla ricerca di un sostegno che coronasse la loro
aspirazione verticale. Un tempo vi sorgeva una vigna, altre vicine se
ne vedono baciate dal sole, rinfrescate da un venticello proveniente
dai monti tutti intorno che nel pomeriggio ne carezza le fronde. Non
mi sentii per nulla intimorito da tanto abbandono, avrei voluto
allistante mettere un po dordine, armonizzandola con le vigne e gli
orti vicini. Mille progetti si affollavano alla mente, mille ricordi mi
tenevano compagnia. Quello che più desideravo era renderle giustizia
dopo tanta incuria, rivestirla di colori e profumi mantenendo alcuni
degli alberi più vecchi per il rifugio degli uccelli che qui già avevano
fatto dimora. Avrei rimosso in profondità la crosta dura e ribelle, far
affiorare in superficie il suo umore bruno e generoso, lavrei fatto con
gli attrezzi manuali per non usare troppa violenza. Avrei così ripetuto
i gesti antichi dei contadini del Fattori, dove penetrare e rimuovere la
terra era anche un atto damore. Avrei mischiato il nutrimento del
letame con la frescura dellacqua, rendendola di nuovo fertile facendo
emergere la sua femminilità generatrice di vita. Un ultimo sguardo
dinsieme per abbracciarla tutta prima di ritornare alviottolo verso
casa, rimandare ai giorni futuri il lavoro per la sua e la mia rinascita.
3°
Dagli alberi più malconci ho iniziato lopera di pulizia del terreno
invaso da tanta sterpaglia. Da decenni vi è cresciuto di tutto. Piante
con spine, rovi avvolgenti, con le loro spire a reclamare uno spazio
tutto per sé, erba dura con le sue foglie taglienti, arbusti fitti a
soffocare la terra imbiancata e non più baciata dal sole. Qui la natura,
in questangolo in disparte, si presentava nella sua caparbietà, qui ogni
pianta lottava con le altre, si contendeva lo spazio con le proprie armi.
Ogni pianta cresceva a ridosso delle altre, ledera saliva sui tronchi più
alti, nutrendosi di essi, la folta chioma di questi gettava unombra
scura e fitta che impediva lo sviluppo alle restanti. Avevo preso la
decisione che portava nella direzione di far penetrare la luce che tutto
rinnova. Fu un lavoro lungo di forbici e falcetto, un ammassare di
stoppie tagliate da bruciare quando secche. Laccetta fece il lavoro di
sgombero, con laiuto di una sega ad arco, gli alberi più vecchi uno ad
uno se nandavano lasciando a mano a mano penetrare laria e i raggi
del sole. Una luce nuova già filtrava e il vento fresco, che dai monti di
fronte si levava, svolse il compito rigenerante e necessario. Tutto
intorno, ad intervalli regolari, restavano gli alberi da frutta a mo di
cornice. Erano i ciliegi, i prugni, con i loro frutti che già facevano
capolino tra le foglie di un verde lucente, gli alberi prescelti a
testimoniare il passato di quel terreno lavorato in anni ormai andati. Li
avrei curati con i giorni a venire perché il tempo cura da anni ogni
male del mondo. Con la falce dal punto più lontano, passo dopo
passo a ritroso, lerba dura e maligna tagliavo e con il rastrello
ammonticchiavo al centro per farne concime secco da spargere
sbriciolato sulla terra che chiedeva solo dessere nutrita. Solo dopo
che un prato rasato sarebbe rimasto avrei preso a rimuovere la cresta
spaccata del terreno argilloso. Una volta circoscritto lo spazio delle
canne da bambù in unarea circolare lo spettacolo era quello di una
lunga fetta di campo arieggiato, spelacchiato in molti punti come un
campetto di calcio di periferia. Era così simile a quello del tempo
dellinfanzia, quanto di più nostro per i giochi di bimbi, il praticello
dove rincorrere palloni da infilare in porte di fortuna fatte con sassi o
le magliette arrotolate. I primi giorni li ho passati ad una pulizia
profonda, raccogliendo pietre, cercando il suo respiro, prima di
piantare la penna della vanga nella sua superficie indurita.
Questattrezzo fu un regalo di una cara signora, che dalla terra sapeva
trarne sostegno e doni, con il suo badile lentamente a penetrare in
profondità fino a sentirne la frescura e liberarne lanima. Metro dopo
metro andavo giù con lattrezzo donato, prima per la sua larghezza e
poi per la lunghezza. La scura terra affiorava allaria, dove lentamente
si asciugava, il sudore si mischiava ad essa mentre procedevo al lento
rivoltamento. Lanemico colore arretrava sempre più ed una distesa di
zolle scure mi riempiva il cuore. Di quelle navrei fatte terra fine
scassandole con la zappa e pettinata, come per giorni di festa, con i
denti del rastrello. Il campo prendeva forma, luce, aria ed in seguito
lacqua delle piogge che mi venivano in soccorso. Con la punta
dellarnese tracciai solchi paralleli, un pentagramma scuro da riempire
con le note delle piantine da mettere a dimora.
Poi venne il giorno della stalletta per gli animali della minuscola
fattoria: la posizione centrale sembrava lideale. Per galline, anatre,
polli uno spazio recintato tutto per loro dove sgambettare. Il loro
starnazzare era il sottofondo ideale ad accompagnare un lavoro lungo
e faticoso. Dalla mia terra ho imparato il respiro lento del mondo, la
lentezza dei gesti, la ricerca profonda dei tesori. Penetrando nella sua
profondità, rimuovendo lapparenza arrivai alla linfa vitale, ai tesori,
alla frescura, al bruno colore della vita. Così è anche per gli uomini
induriti dal tempo, ingannati dagli amori, imprigionati dagli obblighi:
fermandoci con loro un momento ed anche più arriviamo a conoscere
le loro storie più nascoste, gelosamente custodite. Dopo averne
scostato la maschera ne scopriamo il sorriso di un tempo, stracciando
in seguito il velo degli anni ne scopriamo i gesti istintivi e spontanei,
ed è un piacere dividere con loro le ore sincere dei giorni e delle notti.
È un ritrovarsi, un rincontrarsi di nuovo unici e senza orpelli, felici di
ammassare cose inutili, lasciandole per proprio conto passare, come le
stoppie da seccare e poi bruciare.
4°
A te vengo, a te ritorno ad impastarti con le mani, lasciandoti scorrere
tra le dita. Terra secca imbiancata, sfarinata dal sole, per troppo
tempo dimenticata. Mischio in te nutrimento ed acqua a dissetarti, ci
scambiamo i profumi. Per giorni e giorni, settimane e mesi un lavorio
continuo per farti ritornare a vita nuova. E un sussulto dellanima
quello con cui tu mi ripaghi, un sobbalzo del cuore il dono che mi fai.
In te mi rigenero e ritrovo un movimento nuovo nei miei gesti, una
lentezza che sale dal tuo interno che si trasmette al mio corpo e si
diffonde nelle mie movenze. Nel corso degli anni laspetto del piccolo
appezzamento era via via cambiato, le asperità del terreno erano
addolcite dalluso della vanga che ne ha modellato laspetto. La
geometria delle piante, che si alternavano nel corso delle stagioni, ne
ha armonizzato il paesaggio, integrandolo alle vigne e agli orti vicini.
Qui ho passato le mie ore migliori, anche quando la vita sembrava
volermi schiacciare; qui ho trovato il mio centro dove raccordarmi
con le cose essenziali. Con il tempo che passava molta campagna
intorno perdeva il suo aspetto contadino, più di cinque vigne ho visto
tagliare e molti orti da non rifare. Labbandono della terra coincide
con la frenesia di correre dietro a cose inutili, gettandosi nel caos
quotidiano che tiene occupati i sensi ormai affamati e mai sazi di
rumore e luci colorate. I pochi che incontro con gli attrezzi in spalla
sono eroi di un tempo andato, sono loro che ancora sanno assegnare
un nome alle piante e agli uccelli che vi svolazzano attorno. Ti
raccontano delle feste ai tempi per la raccolta del fieno, da conservare
per gli animali chiusi in stalla per linverno. Ti narrano emozionati
daltri giorni solenni, come per la raccolta del grano, dei bicchieri di
vino e il pane da tagliare da scambiarsi dopo il lavoro, per la frescura
di unombra così guadagnata. I loro racconti se ne volano via, non più
trattenuti come un tempo per essere di nuovo narrati, sono storie di
fatiche e di lavoro, sono racconti di famiglie legate al doppio filo della
campagna.
Qui il silenzio ha una casa,
e tutti i suoi suoni sono la sua unica voce:
il crepitio dei rami ed il vento che ne culla le chiome,
gli uccelli con i loro canti, le loro battaglie e i loro amori.
Bisogna abbracciarla tutta in un solo sguardo
ed esserne parte al tempo stesso.
Un attimo unico ed irrepetibile eppure eterno.
A te son venuto, a te sono ritornato,
come nei miei sogni di bimbo,
felice di avermi aspettato.