Così lontane, così vicine&ldots;

Mi capitò, parecchi anni fa, di andare una sera a vedere le stelle e ci portai anche mio figlio che fino ad allora aveva preferito giochi molto più concreti e dalle caratteristiche più prensili, rispetto a quello starsene al buio, con la testa all’insù.

Venne anche lui, dunque, forse più per stare con me che per le stelle, o forse semplicemente per passare una serata diversa. Io ho sempre amato il cielo. Ho letto parecchio, ho comprato un piccolo telescopio, insomma la cosa mi appassiona e da buon astrofilo so che la maggior parte delle domande che gli amici possono fare sono sempre quelle. So che le mie domande non sono le loro, mi ritrovo spesso a dire le dimensioni del sole, della terra, del sistema solare. Magari qualche divagazione sull’ultima eclissi o sui nomi delle costellazioni. Ma solitamente tutto finisce lì. E se con gli amici tutto finisce lì figuriamoci se qualcosa di più interessante può venire dal confronto con un bambino di otto anni.

Non avevo certamente pretese, quella sera. Mi sarei accontentato di poco, ero già contento del fatto che mio figlio mi avesse chiesto di poter venire con me, ma poi tornai spesso a riflettere su quella sera.

Arrivati sul luogo, il mio prato preferito, lontano dalle luci della città e arricchito dal canto dei grilli e delle cicale, scesi dall’auto e cominciai a scaricare i miei atrezzi. Non avevo portato il telescopio, ma il binocolo sì e pure qualche carta del cielo con la pila rossa.

· Allora, Giacomo, ti piace?

· No. - disse lui.

· Come no! Non avevi detto che volevi vedere le stelle? Guarda, da qui quante se ne vedono.

· E’ buio. Io non ci vedo.

Già, dimenticavo. I bambini non sono tanto amici del buio, e quello inoltre era per lui un luogo del tutto nuovo. Io gli chiedevo di stupirsi per il cielo e lui invece era preoccupato di dove avrebbe messo i piedi.

Lasciai perdere la mia cartina e le altre cose, lo presi per mano e decisi di stargli molto vicino, per rassicurarlo un po’. Giacomo allora alzò un poco alla volta il suo sguardo ed inseguendo il mio dito cercava di riconoscere il leone, stampato alto, nel cielo primaverile di quella campagna. Mi pareva un buon argomento, volevo fargli vedere la forma che prendevano quelle otto - dieci stelle luminose. Sapevo che avevo a che fare con una mente fantasiosa e desiderosa di avventura e la proiezione di un bel leone nel cielo scuro mi pareva un film adatto per questo giovane spettatore. Tutto procedeva tranquillamente quando da levante cominciò mestamente a salire una luna bella e luminosa, quasi piena. La cosa mi dispiacque perché con una luna così non avremmo potuto vedere a lungo tante stelle come quando il cielo è completamente buio, ma la mia spiegazione del leone era già a buon punto ed il pargoletto mi pareva anche abbastanza interessato. Sennonché ad un certo punto anche lui si accorse dell’ultima arrivata e da quel momento non ci fu più nulla da fare: volle parlare solo della luna.

· Guarda papà! La luna.

· E’ bella vero? -

A me sembrava decisamente più interessante continuare a parlare del leone e magari delle sue galassie che nascondono chissà quali meraviglie, ma lui guardava ormai altrove e lo stupore che traspariva dai suoi occhi mi sembrò più bello di tutte le galassie dell’universo. Ok, se vuole parlare della luna, parliamo della luna, pensai, tanto il leone non ce lo ruba nessuno e ce lo possiamo guardare un’altra sera.

Dopo averla guardata a lungo Giacomo mi rivolse una domanda che mi fece sorridere

· Perché non cade?

Beata ingenuità. Adesso come gli spiego in due parole della forza di gravità che regola la rotazione dei pianeti e dei loro satelliti attorno al sole? Cominciai a parlare usando parole semplici.

· Vedi Giacomo, la luna non cade addosso alla terra, ma le gira attorno. C’è una forza che li tiene uniti e si chiama forza di gravità. Più una cosa è grossa e più ha dentro di sé questa forza di gravità. Mi segui?

· Sì, ho capito - disse lui - Ma perché non cade giù?

· Te l’ho detto. Non cade perché vuole stare vicino alla terra. Sotto non c’è niente, dove vuoi che cada?

· Come, non c’è niente. Sotto non c’è niente?

La questione si stava facendo seria. E nonostante i miei buoni propositi iniziali anche le mie risposte si fecero sempre più serie. Cominciai a parlare dell’espansione dell’universo, dei suoi confini impossibili da vedere, ma lo persi quasi subito. Si distraeva, sbadigliava e aspettava solo che finissi di parlare.

Mi fermai, allora, ma non sapevo cosa fare. Non era certo contento della mia risposta, ma forse non ricordava più neppure la domanda ed infatti il suo sguardo era tornato verso il leone ruggente. Aveva imparato a riconoscere la testa, il corpo, la coda.

· Come sono lontane le stelle! - disse - Nessuno le può toccare.

No, pensai, questa volta non gli farò una lezione, però qualcosa mi tocca rispondergli.

· Hai visto come sono lontane? Hai ragione, nessuno è mai andato su quelle stelle lassù, sono troppo lontane. Pensa che se tu ci volessi andare con la macchina partiresti adesso e da vecchio saresti ancora ben lontano da loro.

· Accidenti! Anche se guido sempre a tutta velocità?

· Sì, sì.

· Allora sono proprio lontane. - confermò lui.

Dentro di me ridevo dall’alto della mia saccenteria, e pensavo di aver fatto bene a lasciar perdere la spiegazione della velocità della luce e della relativa misurazione delle distanze astrali in anni luce, una chiacchierata che magari sarebbe venuta buona un paio di anni dopo.

· Vedi Giacomo, quelle che vedi sono stelle lontanissime, &ldots; eppure sono solo le più vicine.

Inizialmente tacque per capire meglio la mia frase. Poi volle spiegazioni ulteriori.

· Come sarebbe a dire? Sono vicine?

· No, no, ho detto che sono lontane, però ce ne sono molte altre che sono molto più lontane e noi non le vediamo per niente. Sono laggiù, lontanissime. Non si vedono neppure con il telescopio.

· Papà, guarda la luna, com’è salita in alto!

L’avevo perso un’altra volta. Conoscevo il suo linguaggio. Quando cambia discorso significa che quello che dico non gli interessa. Chissà, forse una volta ero anch’io così. Inutile riportarlo alle stelle, non siamo a scuola e possiamo benissimo seguire i suoi discorsi.

Gli dissi qualcosa sul primo uomo che andò sulla luna, gli raccontai che io avevo tre anni quando questo accadde e fu una missione grandiosa. Lui alla fine fu contento delle cose che gli raccontai e tornò a casa soddisfatto. Si immaginava di essere Amstrong che cammina sulla luna e fece un racconto alla mamma così ricco di particolari che nemmeno uno scrittore di fantascienza avrebbe potuto inventare.

Il leone, Amstrong, la luna&ldots; lo fecero addormentare sereno, e altre volte dopo quella sera mi chiese di parlargli del cielo.

Ma non mi chiese più come mai la luna non cade.

Non volle correre il pericolo di sentire altre risposte stupide. Col passare degli anni mi accorsi di quanto quella semplice domanda avesse fatto breccia dentro di me. Ricorderò per sempre quella sera sotto le stelle. Perché ognuno di noi due in quel prato, in mezzo ai grilli e alle cicale, depositò qualcosa di prezioso nell’altro.

Lui mi lasciò quella domanda struggente, semplice, affascinante. "Perché non cade giù?" Perché in fondo, anche lei non fa quello che fanno tutte le cose, perché non cade per terra come ogni oggetto che viene lanciato per aria? Io quella sera ho capito che a volte le domande bastano a sé stesse. Sono belle così, con il silenzio che ne segue. Non è necessario rispondere sempre. A volte una risposta scientifica corretta può arrivare nel momento sbagliato. Un bambino ha davanti a sé ancora tutto il tempo per le risposte scientifiche. Forse non era quello che lui desiderava in quel momento. Forse avrei fatto meglio a rimanere zitto, a guardare nei suoi occhi quel misto di sorpresa, stupore, e forse anche paura per un impatto che per motivi misteriosi non avverrà. Giacomo mi ha fatto tornare in mente la bellezza delle domande a cui nessuno mi ha mai risposto. Quelle domande rimaste aperte tra la fanciullezza e l’adolescenza, che silenziosamente hanno tenuto acceso un motore dentro di me, e mi hanno conservato la voglia di capire, di sapere, e alla fine di chiedere ancora.

Ed io, che cosa ho lasciato a lui? Quella sera non me ne accorsi, ma in mezzo a mille paroloni avevo trovato una frase giusta che dopo tanti anni seppi essere ancora viva dentro di lui.

"Così lontane, eppure sono solo le più vicine". Questo gli rimase dentro. Forse l’unica frase che quella sera dissi spontaneamente, senza uno scopo, di cuore. Quelle stelle che guardo, che tutti noi guardiamo dandogli un nome, un compito, riconoscendole dalla posizione, dal colore, tutto quel manto di luci che nelle notti di cielo terso scintillano lassù in alto, &ldots; sono ancora niente. C’è di più. Ma c’è così tanto di più che neppure l’immaginazione riesce a misurare.

Questo brivido, questa vertigine, questa improvvisa sensazione di piccolezza immersa in una spropositata grandezza colpì il mio bambino e lo portò a non accontentarsi di qualche grammo di felicità legata unicamente a questa terra.

- Buona notte, Giacomo. E buona notte anche a te - dissi alla luna chiudendo la finestra - mi raccomando, non cadere.

Mauro Borghesi

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