Le ombre raccontano di Romano Pitaro

 

 Raccontano che pioveva. Pioveva fitto mentre rantolavano aggrappandosi disperati alla terra fradicia. Morivano d'inverno nel fango e rendevano l'anima a Dio, dando del bastardo al loro padre.

 Tra l'ira del vecchio e l'ultimo respiro dei due figli, nessuna possibilità` di tornare indietro.

 Un inizio e via !

Lui, il vecchio padre, quando ha percepito che la vita dei suoi figli s'era ormai dissolta, s'è accasciato con le mani penzoloni su un tronco d'albero colpito durante la seconda guerra da un fulmine.

 Quel tronco ancora è li.

E a vederlo nei pomeriggi nebbiosi d'inverno, solitari pomeriggi senza tempo, quando per strada non si vede neppure un cane ed il freddo alimenta fantasie che aiutano a sopravvivere, verrebbe voglia di chiedergli un resoconto dettagliato sulla tragica zuffa sfociata in tragedia.

 Da quel giorno per tutti quel fradicio pezzo di legno è diventato il tronco di compare Giacomo.

 E' rimasto sotto la pioggia per ore il vecchio, con i palmi delle mani aperte, perché l'acqua li ripulisse, e la giacca nera di velluto grezzo sporca di sangue. Il sangue dei suoi figli sventuarati che si erano persi ormai da anni...

 Accadde un inverno di molto, molto tempo fa.

La televisione in paese era comparsa da poco, soltanto il droghiere, mastro Ritrovato detto il monaco, perché in gioventù aveva indossato per qualche mese il saio, ne possedeva una.

 A sera, in gruppo, bussavamo con insistenza alla porta della sua casa per riempirci gli occhi di immagini che non capivamo da dove potessero giungere e quel miracolo ci spalancava le bocche e ci tratteneva più del dovuto in quella stanza angusta e maleodorante.

Mastro Ritrovato, dopo un po' ci voleva fuori da casa sua. Ma noi eravamo come legati alle sedie ed al pavimento, alle sue smorfie neanche badavamo.

Io avevo nove anni. A scuola facevo di nascosto con la biro dei pertugi nel banco di legno e con il mio amico Cosmino ogni giorno era una sfida: il mio è più grande del tuo ...Che idioti !

Una mattina per fortuna il maestro se n'accorse e le sue mani piccole e tozze si aggrapparono come tenaglie alle nostre orecchie. Poi, mettendo in mostra il dente d'oro nella sua bocca ricoperta da labbra grinzose, ci predisse un sicuro insuccesso nella vita e ci sospese per una settimana.

A pensarci adesso, dico che per fortuna se n'accorse in tempo. Altrimenti, prima o poi il banco si sarebbe trasformato in un grande buco con noi dentro a scavare, a scavare, a scavare fino a farci risucchiare dalle profondità della terra.

 E' andata cosi, in quel lembo di terra sperduto, tanti e tanti anni fa.

 Da allora, però, mi è rimasta l'impressione che la vita di molti di noi fosse esattamente come quel buco nel banco di legno; da impercettibile ch'era, diventata, giorno dopo giorno, un abisso in cui perdevamo ogni radice , speranze comprese. Fino a divenire corpi slegati dalla terra, pronti ad ogni viaggio, aperti ad ogni esperienza, plasmati dal caso. Dimenticati da tutti. Come questa storia che, se non la raccontassi io, resterebbe sepolta tra le macerie del mondo .

 Annusavo l'aria come un animaletto spelacchiato e correvo per la campagna con scarpe scalcagnate.

 Per andare al catechismo, passavo accanto al cimitero e poi infilavo un grande cancello sorvegliato da un cane lupo che abbaiava come un dannato.

Siccome non avevo grande voglia di sentire le litanie della suora, né di restarmene col sedere appiccicato alla sedia per un'ora di fila, spesso mi perdevo nei boschi. Quando mi sentivo sfinito, mi sdraiavo sotto una quercia e sognano ad occhi aperti il treno che un giorno avrebbe portato anche me nelle ricche città svizzere, tedesche, statunitensi.

Serravo gli occhi e vedevo luci accecanti dappertutto, terre verdi immense, palazzi svettanti che mi facevano sentire ancora più piccolo di quanto non fossi...

 A sera, il cimitero infestato di fantasmi ed il cane lupo dagli occhi iniettati di sangue, mi servivano come scusa per temperare le urla di mia madre a cui dovevo confessare di aver evitato momentaneamente l'incontro con Dio.

 Con voracità` masticavo cioccolato fondente. Mio zio ad ogni ritorno da Choir, mi portava delle grandi tavolette di buon cioccolato . Questa è la busta con le cioccolate, per lui!, diceva a mia madre indicandomi con l'indice di una mano grande e ruvida.

 Io mi sentivo fiero.

Quella cioccolata l'aveva comperata per me quand'era in Svizzera, in un certo senso anch'io incominciavo ad essere parte di quel mondo distante ma affascinante. Significava anche che mi aveva pensato e che forse un giorno m'avrebbe chiesto di andare con lui: preparati la valigia, domani si parte...

 Mio cugino m'avrebbe dato i primi consigli su come acconciare la valigia, mio cugino che da anni ormai seguiva il padre e quando voleva fare lo spaccone parlava in tedesco.

 Sposò una svizzera anni dopo, dopo la morte di mio zio, e non tornò mai più. Smise di scrivere a casa e di telefonare. Al fratello, rimasto con la madre e la sorella, che gli rimproverava la sua indifferenza per il destino della famiglia, un giorno rispose: io penso anche in tedesco orma. Non voleva più saperne, ecco tutto. Cosi è andata...

 Mangiavo cioccolato io, mentre gli altri intorno a me viaggiavano per il mondo in cerca di occasioni, o semplicemente perché sentivano che quello era il loro destino.Qualche vecchio esalava l'ultimo respiro e le primavere subentravano agli inverni sempre più duri da sopportare, mangiavo cioccolato io e correvo per le vie di un paese sempre più solitario.

 Mangiavo cioccolato svizzero e m'intrufolavo nell'osteria le sere d'inverno a vedere i grandi giocare a carte. Aspettavo che scoppiasse, dopo che molti vino era stato trangugiato, come ogni sera, una lite. E c'era sempre qualcuno che minacciava di scannare qualcun altro e qualche volta mi è capitato pure di vedere scintillare le lame di coltelli da contadini.

 Un giorno, il cielo era nuvolo e benché fossimo a primavera di rondini se ne vedevano poche, si sparse la voce della morte di mio zio. Io era a scuola quella mattina e tutto mi sembrò lieve, senza corteccia, incorporeo...Nel cantiere dove sgobbava, a Choir, nella Svizzera tedesca, una trave gli era crollata addosso e l'aveva ucciso sul colpo. Cosi è andata.

Fu allora che capi quant'è ingiusta la morte. Drastica, priva di ogni senso di giustizia e sempre in mezzo a noi. Non ci lascia un istante ed è sempre pronta a ghermire le sue prede prescelte senza criterio. Se ne infischia di ogni logica e fa il suo corso, a chi tocca tocca, buono, cattivo, negro, giapponese, scienziato, bambino, in gamba, stronzo...

 Da quel giorno mio zio divenne per me un'ombra che mi faceva compagnia.

Lo vedevo in tutti i vicoli del paese e, sorridendo, mi diceva: cresci, cresci...Mi fermavo a fissarlo senza dire una sola parola, con la mano destra si aggrappava al tubo della fontana vecchia di piazza del popolo e beveva. Beveva ed esclamava: che bell'acqua ! Che bell'acqua c'è qui in piazza del popolo, altro che in Svizzera !

Lo seguivo con lo sguardo allucinato svoltare l'angolo, dopo che mi aveva detto : quando vuoi, sai che c'è un posto anche per te in Svizzera...Ma io non m'entusiasmavo. Non capivo cosa mi accadeva: l'avevo desiderata fino a non dormire la notte la Svizzera ed ora, tutto ad un tratto, mi era indifferente. Non avevo più voglia neanche di partire.Cresci cresci, mi raccomandava mio zio ovunque lo vedessi. E una volta mi disse, con la sigaretta tra le labbra: io non parto più, per questo mi vedi sempre.

E io crescevo, ma non mangiavo più cioccolato e mi ero come liberato dalla smania di andar via dal mio piccolo mondo di fantasmi. Mio zio ogni tanto mi faceva conoscere alcuni suoi amici, morti molti anni prima di lui e tutti mi sorridevano, mi davano coraggio, mi auguravano di star bene e poi se ne andavano, mio zio per ultimo, col suo berretto di traverso sulla testa stempiata, le sue spalle larghe ed il suo volto mite che, in dialetto stretto, mi ripeteva: cresci, cresci.

 Oggi che sono grande mi chiedo cosa intendesse dirmi con quel cresci, cresci ! Perché m'augurava con tanta insistenza di crescere, che motivo aveva di vedermi adulto, emigrato, infelice ?

Al funerale preferii i boschi bagnati, le lacrime mi sgorgavano come un fiume in piena, ero disperato. Provavo un dolore acuto. Odiai furiosamente la Svizzera, gli svizzeri, la cioccolata, i treni...Ce l'avevo con tutti quelli che smaniavano di salire su un treno, una nave, per andar via. Imbecilli, che non sapevano di perdersi per il mondo e che da quell'istante recidevano ogni radice con la loro storia.

 Io solo adesso che ho i capelli brizzolati capisco perché a quei tempi corressi sempre come un animale braccato. Vedevo sparire uno dopo l'altro i miei amici ed era come se brandelli della mia anima si librassero nel vuoto cosmico. I miei amici riempivano le valigie con le loro cianfrusaglie e addio. Andavano per paesi lontani ed io non capivo ancora lo strazio che ci stava annichilendo .

 L'emigrazione, solo dopo appresi il nome del mostro onnivoro che ci prendeva tutto e saccheggiava le nostre anime ed i nostri cervelli.

 Mi mangiava i compagni di gioco.Di loro restavano per un pezzo tracce dappertutto, dietro il calvario, nelle campagne sempre più sole, fra i banchi della scuola , nell'ampia sala della scuola serale dove andavamo a guardare i grandi recitare poesie e farsi correggere i compiti dal maestro.

 Partivano ed io mi ostinavo a vederli in giro per il paese. Scendevo al fiume, e con me non c'era più nessuno. Poi incominciavo a vederli, uno dopo l'altro mi indicavo trote grasse e fischiettavano, ma non sorridevano . Facevo finta di niente all'inizio, li guardavo di sottecchi e tacevo. E tu che ci fai qui ?, chiedevo. Niente, è una bella giornata, vedo cosa fai e poi torno a casa...

 Con quei fantasmi giocavo. Parlavo con loro come se il tempo si fosse fermato, l'acqua del fiume cristallizzata, la vita mai spezzata. Mi facevano compagnia, e quando sparivano mi sentivo solo.

 L'emigrazione svuotava le case e le rughe, le piazze. Tagliava legami antichi e ricolmava di tristezza gli occhi dei vecchi che rimanevano senza figli. Era come la peste, irrimediabile. Quando andai una domenica mattina a casa di Gerardo, un mio compagno di scuola, suo nonno, ritto sulla soglia di casa, fumava torvo e non fiatava...Se n'è andato anche Gerardo stavolta, è partito all'alba col padre, biascicò con gli occhi commossi. La decisione era stata presa all'improvviso, la sera prima, tra un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio pecorino.

 Erano andati via all'alba per Sidney. Addio amico!, pensai col cuore gonfio. Gerardo aveva fatto la sua valigia in un baleno e sapendo che sarei andato a trovarlo aveva pregato suo nonno di darmi il criceto nella stalla, me lo lasciava in eredità, mi disse il vecchio. Disse proprio cosi, in eredità. Prendilo!, m'intimò, altrimenti muore.

 Di Gerardo mi restava il suo criceto e la cupa consapevolezza che non l'avrei mai più rivisto. Cosi un dubbio m'assali: che senso aveva avuto incontrarlo, conoscerlo, abbracciarlo tutte le volte che correvamo felici a perdifiato per le strade del paese ?

 Via, non c'erano dubbi sull'esistenza di un mostro senza pietà. Un mostro che si prendeva gioco di noi. Ma il mostro giocava di nascosto, come un'ombra furtiva e terribile, le sue carte letali, s'ingozzava con la nostra malinconia e ogni tanto, per non vederci stramazzare, ci concedeva delle distrazioni. Come la storia di compare Giacomo.

 Si sparse in un baleno la voce di quel duplice omicidio, il vecchio che aveva fatto a pezzi i figli. Io m'intrufolavo nei crocchi dei grandi ed a bocca aperta ascoltavo, gli occhi si posavano su ogni espressione di sdegno e di dolore. Com'era stato possibile, mio Dio ! Ma era successo, era successo per davvero, ripetevo a chi esitava a credere alle mie parole.

Era ancora il giorno dopo l'efferato misfatto. Compare Giacomo aveva accoppato i due suoi figli la sera prima e si era rinchiuso in casa.

Quando i carabinieri giunsero a prenderlo, io ero li, in piazza, coi capelli corti ed i pantaloni sdrucidi alle ginocchia, insieme a tanta altra gente sbigottita.

Dietro un acero, infreddolito, guardavo la scena insieme con Vittorio, un pastore sempre lesto a fare a botte, che aveva dei muscoli duri come il ferro e che dopo una decina di giorni se n'è andò in Canada.

Ritornò, qualche anno dopo, steso in un carro funebre, morto in un incidente automobilistico. Al suo funerale io ero tra i ragazzi che portavano le corone dalla chiesa al cimitero. Mi guardavo intorno e c'era un gran silenzio e tanti occhi che cercavano qualcosa a cui aggrapparsi, ma negli occhi di nessuno riuscivo a trovare una ragione di ciò che ci stava accadendo.

Ricordo che, dietro l'acero, quando vidi compare Giacomo sull'uscio della sua casa, piovigginava. Le donne in paese uscivano dalla messa della sera e gli uomini tornavano dalla campagna.

Nel volto ossuto, gli occhi del vecchio assassino erano diventati fessure buie. Pensai che da quel momento in avanti i suoi figli uccisi non avrebbero più bussato, come usavano fare, con schiamazzi e rabbia, alla porta verdognola del suo podere brullo. Di quelle liti che da mesi rompevano il silenzio della campagna, non si sarebbe più chiacchierato al bar.

Negli occhi sgranati di compare Giacomo sembrava essere passata un'eternità`. Io non riuscivo ad immaginarmelo mentre con l'accetta li faceva a pezzi. Ma è andata cosi.

Lo avevo sempre visto all'osteria, bere con lentezza esasperante, il suo solito mezzo litro di vino, sempre solo.

Da quando i suoi figli, contadini come lui, che a sera s'inzuppavano di vino all'osteria, lo minacciavano per avere l'eredita` della loro madre morta d'infarto, pochi gli facevano compagnia. Qualche volta lo avevo visto ridere, ma non era un vero sorriso. E qualche volta mi aveva pagato una gassosa. Accarezzandomi con le mani nere la testa, mi chiedeva di andare a prendergli un pacchetto di esportazioni senza filtro. Annuivo, e filavo come una freccia per fargli un piacere.

Poi, come ogni sera, se ne tornava a casa, a passo lento. Si assestava i pantaloni di velluto nero, la giacca appoggiata sulle spalle e la sigaretta tra le labbra...

Se in quelle serate d'inverno l'avesse incontrato la morte, sono certo che le avrebbe detto senza neanche un brivido: fai pure&ldots;Non aveva paura di nessuno. Cosi mi appariva, resistente come una quercia.

Di lui sapevo molto. Che era stato un partigiano in gioventù, che s'era dato molto da fare col coltello, che nella Svizzera tedesca, insieme a mio zio, avevano accoltellato tre tedeschi ubriachi e che era stato anche in prigione, per tanto tempo.

Lui non diceva mai nulla di queste storie che lo rendevano enigmatico, ma dai suoi silenzi intuivo che in giro per il mondo aveva tanto sofferto, fatto del male, lavorato in miniera e conosciuto molta gente.

Dietro l'acero, volevo diventare invisibile perché lui, con le mani nere incrociate dalle manette, non mi vedesse. Eppure mi scorse, fu un istante. I carabinieri andavano avanti e indietro nel podere, alla ricerca di tutto ciò che potesse tornare utile al processo e lui stette per alcuni minuti impalato accanto all'uscio sorvegliato da un giovane appuntato.

Ma come hai potuto farli a pezzi, compare Giacomo, o hai già scordato ogni cosa? Questa domanda mi attraversò la mente, quando lo vidi afflitto, solo, sconsolato. Scosse la testa, mi parve, come per dire: non è stata colpa mia, se la sono voluta, qualcuno ha dato al mio destino questo verso, non si poteva fare diversamente.

Ebbi paura di quell'uomo crudele e cercai dappertutto l'ombra di mio zio, che mi proteggesse da quella freddezza disumana. Ma da un pò di tempo lo vedevo raramente, mio zio, e quella volta l'ombra chissà in quale antro della mia immaginazione s'era cacciata.

 E' proprio vero: le ombre vanno e vengono a proprio piacimento, quando le desideri non appaiono, bisogna non urtare il loro amor proprio, se non si vuole che scompaiano bisogna accoglierle con semplicità. Se si vuole averle accanto...

Ma a ben pensarci, ora che molta acqua è passata sotto i ponti, capisco che compare Giacomo non parlava certo con me. Ascoltava i suoi pensieri che lo percuotevano dentro la testa senza sosta e non si dava pace. Era con se stesso che dialogava. Era se stesso che aveva smarrito e che invano provava a ritrovare. Ma non gli dev'essere riuscito.

Carne umana sanguinolenta, l'aria trafitta da un dolore acuto: nessuno di loro, figli venuti su male e abituati a trattare con le vacche, a esagerare col vino, l'avrebbe mai creduto che il loro padre, alla fine, li avrebbe zittiti per sempre, sopraffatti nel fango.

Fumavano, appoggiati al muro, con sprezzo del pericolo. Incauti agnelli spocchiosi che, all'improvviso, per una ragione inesplicabile che non sapremo mai, sfidano il lupo e non gli lasciano un varco di fuga.

Gli hanno dato del vigliacco, ma non era la prima volta, altre volte lui aveva abbozzato e col passo sornione, di chi s'era imbattuto in uomini più coriacei, s'era allontanato. Ma quella volta il diavolo s'era divertito.

Prima lo avevano insultato, poi schernito, strattonato.Cosi aveva raccontato chi aveva visto, anche se di costui non s'è mai saputo il nome.

Ubriachi di un vino cattivo che non ha avuto pietà`, neanche quando il suo braccio, vecchio ma ancora possente, s'è alzato, scaricando violenza cieca e morte. Anni di sacrifici in terre ostili, di rospi inghiottiti per tirare la carretta, hanno trovato un punto d'uscita imprevisto, istintivo, violento, stroncando due vite irragionevoli, come si uccide un animale idrofobo.

Come può un padre uccidere i figli? Che buio profondo ha risucchiato la sua mente? E' un triste destino antico, forse, un destino atroce che ha fatto il suo corso infischiandosene di ogni civiltà.

 Sempre i soliti informati, i giorni seguenti all'arresto dissero che compare Giacomo dietro le sbarre non parlava più.Una sola frase aveva farfugliato, prima di murarsi vivo dentro il suo vecchio corpo, più o meno: pagherò il conto.

Alle domande non rispondeva e alle maniere spicce dei carabinieri che, pensando volesse fare il duro, lo avevano malmenato, aveva opposto un mutismo completo. Non c'era più, compare Giacomo.

E in paese non si parlava d'altro. Lui conosceva la montagna perché non s'era dato alla macchia? Tonino, il postino, aveva detto che quella notte, la notte prima dell'arresto, si era sentito compare Giacomo urlare come un animale ferito a morte. E Teresina, la serva del notaio Martelli, che faceva la fattucchiera, aveva tirato in campo la moglie dell'assassino morta d'infarto qualche anno prima.

Quella notte, sussurrava la serva a tutti gli angoli del paese, la morte l'ha chiamato e lui l'ha seguita per la campagna come un matto. Sei duro di cuore come una bestia, gli ha detto la morta, e adesso se non vuoi bruciare all'inferno per sempre, prima di crepare paga il conto.

 Fino all'ultimo strazio. Fino all'ultima pugnalata. Fino all'ultimo gemito che ti resta nei pori della pelle.

Io sentivo brividi di freddo lungo la schiena a sentire la serva imitare la voce d'oltretomba e correvo di qua e di là la sera, per scacciare la paura m'infilavo, all'insaputa dei miei amici, in chiesa e recitavo dieci avemaria.

Don Antonio mi vedeva e dandomi uno scappellotto mi rimproverava, perché a messa non mi facevo vedere.

Proprio don Antonio, parlando un pomeriggio con il maestro Pascale, mio padrino di battesimo, che ascoltava tenendomi con la mano su una spalla, disse che il prete del carcere gli aveva confidato la causa dell'orrendo assassinio.

Non l'ha fatto per tenersi i soldi della moglie e non darli ai figli, il patrimonio, alla fine, diventa poco importante. Nessuno se ne ricorda più, diceva suadente il prete del paese. Non pur essere stata questa la ragione e lui non era uomo venale. Cos'era e quanti soldi volevano? Come volevano dividerli? No, l'avarizia non c'entra: la scintilla non è stata l'ebete arroganza, o la cupidigia di danaro.

L'offesa ha invaso e devastato ogni cosa. L'ha accecato sapere che ormai quei due non lo temevano e che, alla stregua di un rammollito, lo schernivano. Da qualche tempo pare che lo malmenassero senza che lui reagisse.

Per compare Giacomo, pare che così abbia detto in un attimo di lucidità ad un maresciallo, i suoi figli era giusto che non campassero più.

Ma come dimenticare tutto quel sangue... Io per diverse notti avevo preso a dormire con mia nonna. Quell'accetta che cadeva a casaccio sui corpi avvinazzati di due uomini e li frantumava mi riempiva le giornate e neanche al buio riuscivo a scacciarla. Persino la campagna muta ha avuto gemiti di disperazione e il prete in chiesa, commentando l'accaduto, pur ricordando che il vecchio omicida era un buon uomo, aveva tuonato: non si possono massacrare i propri figli!

Dopo qualche mese, di quel delitto non si parlava più. L'inverno rigido sulla montagna chiudeva le case e la piazza restava vuota. Le famiglie, o quel che restava di esse dopo le partenze di mariti, figli e figlie, sembrava che andassero in letargo.

Un pomeriggio mia nonna offri un bicchiere di vino ad un forestiero che veniva dalla città e che era stato in carcere. Il discorso cadde su compare Giacomo, perché io gli chiesi se lo avesse conosciuto. Si, mi rispose, le mani gli tremano come foglie al vento, gli occhi sono due buchi senza vita. Ha la vecchiaia marcita, disse il nostro ospite. Una malattia lo sta portando alla morte e a giorni lo lasceranno tornare a casa.

Vecchio com'è e mezzo pazzo, se ne sta tutto il giorno a parlare a vanvera con se stesso, a chi volete che dia fastidio? Così fu. Un giorno di marzo fu riaccompagnato dai carabinieri nel suo podere inselvatichito.

Era un'ombra senza volontà, si muoveva come un manichino, andava senza meta, avanti e indietro, nella campagna.Dopo un pò di tempo i bambini presero a indicarlo come il diavolo da sfuggire. Me lo ricordavo sicuro, corpulento, impavido e lo rividi smarrito dentro vestiti ampi, un volto senza occhi e senza bocca. Mangiava un poco di pane e formaggio la sera.

Solo suor Concetta, di tanto in tanto, andava a fargli visita, ed a portargli il conforto di Dio, sempre che lui, così diceva lei, sia in grado di riceverlo.

Ogni giorno, però, il vecchio si recava sul luogo dove dalla terra sbucavano le due croci dei suoi figli e prima d'andarsene emetteva dalla bocca strani suoni, forse era il suo modo di piangere.

Io non ho mai osato avvicinarlo.

Solo una volta, casualmente, me lo ritrovai davanti in un vicolo, abbassai lo sguardo ed affrettai il passo, ma lui non mi notò neppure. Viaggiava ormai per conto suo, in una dimensione a me sconosciuta.

Che lui deambulasse libero, dopo quello che aveva fatto ai suoi figli, non turbava nessuno.

Colpiva il suo silenzio invece, e quei suoni gutturali che emetteva sulle croci dei figli ammazzati. Colpiva la sua vita senza più senso. Eppure io stavo con le ombre. Giocavo con le ombre e le irridevo, a volte erano loro a prendersi gioco di me indicandomi nei posti più diversi oggetti che non trovavo mai. Ma col passare del tempo anche le ombre svanivano. Con quelle poche che ormai mi restavano, ci parlavo di rado.

La verità è che il tempo di quel vecchio vissuto male era terminato. Ciò che restava di lui non aveva più importanza per nessuno. La sua compagnia non valeva più niente.

Il suo deambulare senza meta quasi m'infastidiva e il suo ricordo mi era diventato pesante, persino acre. Acre, proprio come il sapore della cioccolata che ti dona la persona più cara prima di andare a morire...