LE ALI DI JONI.

 

 

A volte il destino può giocarti strani scherzi e la realtà sfuggirti di mano; prendere una direzione tutta sua e trasportarti verso sentieri nuovi e sconosciuti che fino a poco tempo prima credevi fossero inesistenti.

Joni entrò nella mia vita fatalmente; la sua strada si incrociò con la mia in modo improvviso ed insolito, come se lei fosse piombata di colpo dal cielo, ma già sapesse dove dirigersi e dove approdare.

 

La mia mente era annebbiata quella notte. Avevo fumato e bevuto troppo a casa di Andrea, ed ora guidavo cautamente. Faceva freddo e soffiava un vento così forte che gli alberi si piegavano ed ondeggiavano sotto il peso delle raffiche. Cipressi, erano alti e smilzi cipressi, agitati e distorti nell'aria; temevo che da un momento all'altro uno di essi potesse spezzarsi e cadere di forza sul cofano della macchina.

Anche io, come i cipressi, ero agitato. Stavo ricordando quello che aveva detto Andrea poco prima, mentre eravamo distesi a terra, con la testa poggiata sui cuscini ed il solito bicchiere di whisky in mano:

"E' un buon medicinale per la psiche questo, sai? Avanti, bevi e liberati di ciò che hai dentro. Parla, parla, vedi che poi le parole cominceranno a volare nella stanza ed a suonare come note. Lo senti, lo senti il ronzio nelle orecchie? Un altro sorso, un altro sorso e diventerà musica!"

Lo avevo guardato con stupore e paura. Talvolta Andrea mi appariva come una specie di diavolo con quei radi baffetti neri che salivano fin quasi alle orecchie ogni volta che ammiccava o sorrideva, e gli occhi stretti e scuri che in certi momenti si illuminavano sinistramente di un bagliore così intenso, che sembrava potesse penetrare nella tua scatola cranica e bruciarti a poco a poco il cervello. Forse mi intimoriva perché quasi sempre ciò che diceva alla fine risultava vero; ma c'era qualcosa di distorto ed insano nel suo modo di vedere le cose. Era troppo saggio, di una saggezza però resa dura dall'esperienza. La sua voglia di sperimentare ogni cosa, senza confini, senza distinzione tra bene e male, per il puro desiderio di conoscere privo di etica e di morale, mi allontanava spesso da lui.

"Cosa hai, cosa hai?", mi chiedeva nei momenti di silenzio, quando mi perdevo con lo sguardo a fissare qualche oggetto attorno e zittivo. "E' giusto questo, capisci, è giusto. Bisogna provare tutto!". Parlava con foga, gli occhi spalancati, le pupille dilatate, poi cominciava a ridere, di un sorriso malizioso, divertito ed amaro e si metteva a recitare qualche verso di Baudelaire, di Verlaine. Diceva di amare Budda, Dio, e la dea Lilith allo stesso modo:

"Non c'è differenza, non pensi? O credi o non credi. Non importa in cosa. Non hai certezze, non puoi avere certezze".

Di tanto in tanto scompariva per 10-15 giorni senza lasciare tracce, con un fagotto di panni, un block notes ed una penna. Vagabondava, come un vero straccione, a corto di soldi, vivendo alla giornata, dormendo per strada. Si guadagnava quel poco che gli bastava per sopravvivere scrivendo:

"Lo faccio per me", diceva, "solo per me. Mi sento onnipotente in questo modo; creo un mondo, un mondo mio, e gli altri ci credono! Me ne infischio dei soldi, buoni per qualche puttana e per una bottiglia di vino!"

 

"Ieri sono andato a letto con un uomo", mi aveva riferito una sera, con perfetta calma, mentre dava un tiro alla sigaretta, disteso sul divano di pelle nera, il gatto persiano bianco accucciato sul suo ventre. Ero rimasto a fissarlo senza parlare, con la bocca spalancata.

"Tranquillo, non sono diventato gay ", mi aveva allora rimproverato con un sorriso. "E' stata solo un'esperienza". Si era alzato dal divano e passandomi accanto mi aveva dato un piccolo colpo sulle spalle. Ero rimasto lì, nel mezzo della stanza, a guardare il gatto.

Andrea mi faceva paura perché rappresentava tutto ciò che era moralmente condannabile dalla società. Ma aveva del geniale e del vero in lui, vero come verità, come verbo; in certi momenti il fascino perverso delle sue parole, dei suoi discorsi, ti attirava come una calamita; non riuscivi a distaccartene, e seppure sentivi che c'era qualcosa di sinistramente folle nel suo pensiero, tuttavia le sue frasi ti lambiccavano il cervello; sapevi che in fondo era così, ed alla fine ti convincevi che era vero, che era proprio vero che nel mondo c'è tanto male, che il male domina, che nel cielo di tanto in tanto fa capolino una grossa bestia nera che sprizza veleno. Andrea lo raccoglieva e ne faceva una ragione di vita.

"Solo così riesci ad essere libero", sosteneva, "totalmente libero, senza neanche amare te stesso".

"Tutto mi è indifferente" ripeteva spesso, "persino il mio essere. Niente mi può privare della mia libertà perché non ho compassione per nessuno. Un domani sarò una grande aquila che solcherà i cieli ".

 

 

"Lo sai che tutti abbiamo un paio di ali?" mi aveva chiesto un giorno mentre, annodandosi la cravatta davanti allo specchio, faceva finta di soffocare, e tossiva e rideva nello stesso tempo, contorcendo le mani per liberarsi dalla presa, come se la cravatta fosse un lungo e viscido serpente che gli stringesse la gola;

 "di che colore pensi che siano le mie?"

" Nere", gli avevo risposto secco.

 

Ed anche quella volta aveva avuto ragione. Dopo un poco il ronzio aveva cominciato a trasformarsi in musica ed io a vedere i miei pensieri come se fossero piccole opache nuvole sparse nell'aria. Si erano materializzati ed ora mi stavano sbeffeggiando dall'alto. Si addensavano sempre di più sopra la mia testa e sembrava potessero bucarsi e mandare giù acqua da un momento all'altro. Cosa erano quelle goccioline sulla mia guancia? Avevo sentito un clic alla testa: clic, il clic del traguardo, del limite, dell'angoscia, della noia, CLIC. VUOTO. Mi ero alzato dal pavimento ed avevo cominciato a gridare:

"Me ne devo andare, me ne devo andare!!" Non resistevo più. C'era un'orribile puzza di fumo e di alcool. Andrea aveva cercato di trattenermi. Era andato nell'altra stanza a prendere la "polvere degli angeli", così la chiamava lui. Ma io avevo resistito. Ero uscito lasciandomi dietro tutta quell'insopportabile fetore. Non era mai contento, lui.

 

Ero fuggito ed ora in macchina stavo piangendo, senza neanche un motivo preciso. Le lacrime mi cadevano fin sopra le mani, mentre stringevo il volante. Non mi piaceva la vita che conducevo. Non era cattiva, forse semplicemente non era sana. Si; non stavo facendo nulla di peccaminoso, ma ero convinto, sentivo, che non fosse né giusto, né buono. Mi toccai lo stomaco, come se cercassi di capire che cosa era quel dolore, quel senso di pesantezza che avvertivo. Sembrava avessi un grosso masso piantato lì, e cercavo di toglierlo agitando nervosamente la mano. Dovetti fermarmi; non vedevo quasi più nulla con le lacrime agli occhi. Accostai la macchina al ciglio della strada. Mi distesi sul sedile accanto e con le mani sul viso scoppiai in un pianto lungo, triste, rumoroso. Poi...mi addormentai.

 

Quando mi svegliai il mattino dopo, lei era lì, vicino al finestrino, che picchiettava contro il vetro e sorrideva. Mi stropicciai gli occhi, mi alzai dal sedile, la sua immagine capovolta mentre la osservavo a testa in giù si raddrizzò di fronte al mio sguardo. Allungai la mano ed aprii lo sportello:

"Puoi darmi un passaggio?" chiese

" Dove? "

Si infilò nella macchina e si sedette accanto a me:

"Dove vai tu".

Aveva lunghi capelli color rame, un interminabile fiume che cascava sopra il cappotto nero, un paio di jeans schiariti dal tempo, delle scarpe da ginnastica ai piedi, ed un piccolo sacco sopra le spalle. Ma era pulita e profumata. Avvertii subito l'odore della sua pelle ed una strana sensazione di familiarità.

"Joni, mi chiamo Joni", fece lei.

" Marco, piacere".

Mi guardai attorno chiedendomi da dove poteva essere venuta. L'unica strada praticabile era proprio quella e si poteva percorrere soltanto in macchina. Forse era scesa da qualche altra automobile ed aveva bussato alla mia. Mi girai verso di lei. Mi stava osservando: una luce, una strana luce; gliela vidi negli occhi, mentre incontrai i suoi. Non so cosa fosse. Mi si svuotò il corpo per alcuni istanti, come se avessi visto qualcosa di troppo grande che poteva succhiarmi fin nelle ossa. Qualcosa di estremamente buono; l'immagine dell'infinito, dell'indecifrabile, di ciò che nessuno conosce, a meno che non lo porti dentro. Oggi capisco tutto questo, oggi posso leggere quelle sensazioni. Allora mi apparivano incomprensibili.

"Da dove vieni ?" le chiesi.

"Da nessuno posto in particolare" mi rispose con un sorriso. E si girò al lato a guardare la strada:

"Triste questo posto ", aggiunse.

"Per i cipressi ?" domandai io. La macchina correva passandoci nel mezzo. Il cielo cupo ora cominciava ad aprirsi ed a mandare qualche raggio di luce. Ma appariva tutto così statico, immobile, come se stessi osservando una cartolina, od una fredda fotografia scattata da una macchina senza anima in un posto senza anime.

"No, no", rispose lei. "I luoghi sono tristi non di per sé, ma solo se li osservi con gli occhi della tristezza".

"Allora sei triste?"

"No, lo stavo osservando con gli occhi tuoi".

La guardai. Era calma e tranquilla. Il profumo che emanava si fece più persistente. La sua risposta mi aveva sorpreso e sorrisi. Per un attimo mi sentii svuotato di quel peso allo stomaco. Il sole fece capolino tra uno squarcio di nuvole. L'odore mi entrò nelle narici e giunse fino in gola. Joni mi guardò:

" E' di viole. C'è ne sono molte dal posto in cui vengo ".

Rimasi senza parole: come aveva fatto a leggermi nel pensiero ?

  " Dove vuoi andare Joni? "

" Fammi conoscere la tua casa."

 

 

 

Era bella, straordinariamente bella. Quando arrivammo da me si sfilò il cappotto e lasciò scivolare i capelli sulla camicia aperta fin quasi ai seni. La sua pelle era chiara, cosparsa di piccole lentiggini sopratutto attorno al naso. Il resto del viso era bianco ma non pallido. Ora ricordo di non aver mai visto Joni mangiare tanto, ma non é mai stata smunta, né smagrita, come se assorbisse la sua linfa vitale da qualcosa di diverso dal cibo. A casa si era messa subito ad osservare ogni più piccolo particolare facendomi tante domande su ogni oggetto che vedeva. Ogni cosa che possedevo la incuriosiva in maniera direi quasi morbosa. Quando un giorno le chiesi il perché, lei mi rispose con estrema naturalezza che era uno dei mezzi migliori per conoscermi.

 Joni leggeva in tutto, anche nelle cose senza anima. "Non è vero che non l' hanno!" mi urlava, quando la prendevo in giro per questo. "Ogni cosa ha uno spirito, buono o cattivo, utile od inutile. Devi solo riuscire ad afferrarlo ed a farti insegnare nel modo giusto. Chi impara senza capire può essere solo portatore di ignoranza e di morte".

Joni rimase da me la notte del giorno in cui ci incontrammo e molte altre ancora. Quasi non ricordo più come ci mettemmo insieme; ma credo che io mi fossi innamorato di lei fin dal momento in cui avevo visto quel sorriso dietro il vetro della macchina. Aveva coperto i cipressi e d'incanto tutto il mio passato. Ricordo soltanto che ogni mattina mi svegliavo con Joni accanto, con il suo bellissimo corpo ed il suo odore e, sebbene questa scena si ripetesse ogni giorno, mi sembrava sempre diversa. Mi alzavo; Joni preparava la colazione e poi io andavo a lavoro. Sarò andato con la pioggia, con la neve, con il gelo, ma dentro di me, (lo so, sembrerà una frase fatta ma è vera!), era come se brillasse sempre il sole. Quando tornavo, Joni era di solito tra i campi che si allungavano attorno alla casa, distesa sui prati, ad osservare il cielo, a parlarci. Mi veniva incontro, mi abbracciava e mi baciava sul collo. Mi chiedeva come era andata e stava ad ascoltare i miei racconti su ciò che era accaduto o che avrei voluto accadesse:

"Non hai mai pensato di scrivere? " mi chiese una volta,

"No, non credo di esserne capace".

" Ed invece lo farai, un giorno lo farai ".

Avevo imparato a non chiedere spiegazioni a Joni per queste frasi quasi profetiche o per le sue strane letture del pensiero. Sembrava imbarazzarsi ed evadeva le risposte. "Sarai un angelo", avevo azzardato scherzosamente un giorno, riferendomi ai suoi strani poteri. Lei si era fatta improvvisamente seria, mi aveva preso dolcemente una mano tra le sue ed aveva detto: "Può darsi amore. Ma gli angeli non possono rischiare di innamorarsi troppo degli uomini".

"Perché?"

"Perché gli uomini gli farebbero perdere la loro natura. Il destino degli angeli è di girare senza sosta ed aiutare chi ne ha bisogno. Non comandano, ma sono comandati. Se si legassero, sarebbero costretti a fermarsi. Ciò li renderebbe troppo fragili e non più utili. Gli uomini non conoscono la natura dello spirito, la possono soltanto intuire".

 

Quando Joni entrò nella mia vita, Andrea e le notti passate con lui tra bottiglie e cocaina uscirono. Dopo qualche mese seppi che era andato in Africa per riscoprire la natura selvaggia dell'uomo; si era unito a qualche tribù ed aveva fatto perdere le sue tracce. Lo immaginai in un Sabba di stregoni, con strani segni sul viso, a carezzarsi le sue piume nere. Se adesso ci penso non so per quale ragione non si fece più sentire. Joni riempiva la mia esistenza così totalmente che non avevo bisogno di altro; ma Andrea non sapeva di lei, eppure fin dal primo giorno in cui la incontrai, lui scomparve.

Joni non mi chiedeva mai dei miei vecchi amici; mi diceva soltanto che i "miei occhi verdi avrebbero dovuto guardare più profondamente" e che "la gente ha più egoismo dentro di quanto si possa mai immaginare", che "l'invidia è un grosso boia che taglia le teste", e che "per comprendere e perdonare la natura umana bisognava rinascere più volte". Ascoltavo tutto con apparente indifferenza, ma ogni sua frase mi appariva come una tavola della legge.

"Non confonderti mai con gli altri", mi sussurrò una notte mentre la tenevo tra le braccia, nel letto."Non sai quanto di divino c'è in te". Sorrisi.

"Non farlo", intimò, "non sottovalutarti. E' molto difficile amare". Mi disse quest'ultima frase con un velo di tristezza sul viso. Ebbi un'improvvisa paura, la paura di perderla per qualche misteriosa ragione da un momento all'altro. Mi si gelò il sangue mentre rimasi immobile a fissarla stringendole la mano. Era arrivata da me per mezzo del destino ed ora avevo paura che questo me la portasse via. Joni era il mio respiro, il mio sangue, il battito quotidiano del mio cuore; era tutto ciò soprattutto nei nostri silenzi, quando ci abbracciavamo e ballavamo lentamente senza nessuna musica se non quella delle nostre menti. Fusione perfetta di mente, corpo ed anima. Mi sembrava un sogno ed ogni giorno, mentre camminavo sotto il cielo, ringraziavo per avermela mandata chiunque fosse lì, dietro le tende del paradiso, a giostrare con il fato, od a guardare, con gli occhi di un vecchio saggio le grandezze e le miserie di quel mondo inerte che si era costruito. Di tanto in tanto, pensavo, forse muoveva i pezzi come su una scacchiera, ma mi sembrava che le sue mosse non portassero a nessun punto: gli alfieri facevano fatica a diventare re. Probabilmente aveva pensato di realizzare un gioco, ma lì di sotto, c'erano più clowns che giocolieri. Eppure bastava far roteare un birillo, girare questa vita di plastica di sotto un foulard e trasformarla in una colomba e poi...volare. "Sta a te", mi diceva Joni, "sta a te farlo e non a lui".

 

Quel giorno che la vidi disegnare mi avvicinai a lei. Aveva una grande quantità di matite e colori sparsi sul tavolo ed un grosso foglio spiegato davanti. Erano un paio di ali, un grosso paio di ali quelle che aveva delicatamente tratteggiato, definendo tutte le piume ad una ad una, senza tralasciarne nessuna, come se avesse paura che altrimenti non potessero spiccare il volo.

"Lo sai che tutti abbiamo un paio di ali?", mi chiese. L'assoluta uguaglianza con la frase di Andrea mi fece rabbrividire e, senza neanche aspettare che continuasse la domanda, le andai dietro, le cinsi il collo con le mie calde braccia e le sussurrai "bianche le tue sono bianchissime". Lei sorrise ma io non dormii quella notte, con l'impercettibile sensazione che Joni avesse voluto dimenticare qualche impegno e che quelli erano strani messaggi che piccoli eterei esseri stavano mandando sia a me sia a lei, ma, soprattutto a me, per prepararmi a qualche doloroso evento. "Ti adoro", mi disse nel letto e la mia dolorosa paura aumentò. Avrei voluto gridarle " Non farlo, ricordi, tu sei un angelo, tu non puoi farlo, altrimenti scapperai via!", ma non ci riuscii, non ci riuscii e chiusi gli occhi, il mio viso poggiato sul suo petto, le mie gambe intrecciate alle sue.

 

Accadde. Dopo due giorni si verificò quello che avevo temuto. Mi svegliai senza Joni accanto. Tutto di lei era scomparso nella casa. La aspettai, sperando che fosse uscita in una delle sue pazze scampagnate, ma non tornò, né quella sera, né altre dopo. Come un folle mi buttai tra la gente, chiedendo ai vicini od ai passanti se l'avessero vista; ma nessuno conosceva Joni, nessuno l'aveva mai notata, nessuno aveva mai saputo che per quasi un anno era vissuta lì, con me. Temetti di aver sognato tutto in una normale notte, ma non poteva essere così; io l'avevo toccata, avevo respirato con lei, ero cambiato con il suo modo di essere, avevo riso e goduto nello stare insieme a lei come un bimbo dopo una lunga e piena poppata, avevo succhiato il nettare della vita nella banalità di ogni comune giorno e non poteva essere stata tutta un'illusione. No, Joni era andata via, era volata. Lei aveva cercato di dimenticarlo, di seppellirlo nella sua memoria e nella sua volontà, ma aveva un paio di ali ed i suoi amici l'avevano chiamata a sé.

 

Forse non potrà più tornare perché angeli ed uomini non possono amarsi, ma so che lei cercherà di farlo perché ora mi starà guardando, starà osservando il mio essere inutile che si trascina per casa senza ragioni, né motivi, che si ferma ore dietro la finestra nella speranza di vederla comparire, che passa notti gelide in quegli sguardi fissi lungo le pareti della stanza dentro gli occhi tristi e spalancati di un lacerante dolore che ha esaurito le lacrime. Mi starà guardando e starà cercando di proteggermi allargando le sue ali e spingendomi a sé. Ma non basta, non basta. Io voglio le tue braccia Joni, voglio il tuo viso accanto al mio, voglio il tuo corpo, voglio vedere i tuoi occhi che mi guardano. Ecco, ho finanche cominciato a scrivere, come tu mi avevi predetto. Ti prego Joni, torna da me!

 

Debora Landolfi