Paolo Giuseppe Alessio

 

 

 

 

Fenomenologia di un amore

 

 

Si racconta (ma ormai sono rimasti solo i bambini a crederlo) che in un tempo lontano lontano, in una terra così sperduta e fuori mano che nemmeno i venti girovaghi vi si spinsero mai nel loro scanzonato peregrinare, visse uno scrittore assai strano. Le sue opere parlarono tutte di storie d’amore, e fino a qui non c’è nulla da dire. Si è mai visto un libro degno di questo nome che non parli d’amore? Anche i Principia Mathematica di Newton traboccano di passione. E allora, diranno i più piccini, dove sta la bizzarria? Eccola. Pensate bene, bambini, pensate all’amore per la scrittura (ma potete anche pensare a quello dei vostri babbi per le costruzioni edili o per l’arte di tenere i registri contabili, e - perché no? - per le vostre mamme; basta che sia amore) visto come fonte di salvezza; poi immaginate la scoperta della passione per una donna, salvezza e dannazione insieme. Concentratevi, ma non troppo, sul naufragio di questo amore. Presto, chiudete il libro, forse non è ancora adatto a voi! Decidete di continuare, piccole pesti? E allora provate, se ci riuscite, a ritrovare in sogno la grazia e l’armonia di una corsa all’aria aperta, in pieno sole.

Forse avete capito cosa si intenda per fenomenologia di un amore, ma ancora molto poco della bizzarria dello scrittore. Ebbene, essa consiste nell’aver scritto una storia in cui l’amore non trionfa se non nella dolcezza e nel terrore delle parole. Una storia in cui, senza che nessuno ne abbia colpa, non è la ricchezza ad avere la meglio, ma la miseria, con lo scalpiccio sinistro dei suoi magri destrieri. Eppure, piccini, solo una prova d’amore poteva permettere allo scrittore di terminare il suo racconto e di esprimere nella prosa e negli amorevoli periodi del suo canto, se non nella trama dell’opera, tutta la sua voglia di rifiorire.

 

 

 

 

Note di viaggio

 

Non so cosa mi spinga a riempire la pagina di tratti di penna che, allontanati gli occhi di pochi centimetri, smettono di dire al lettore ciò che egli sente dentro di sé quando li accarezza con benevolenza e dalla giusta distanza.

Non credo di aver mai scritto per creare mondi nuovi di cui essere re, o migliori di quello in cui viviamo. L’ho sempre fatto per guardare le cose più a fondo, attraverso la lente di ingrandimento della parola scritta. Non sono andato lontano, non mi sono mosso di un passo, ma ho visitato paesi meravigliosi, scendendo nella voragine che si è aperta, insieme alle pagine bianche del quaderno, sotto i miei piedi ogni volta che ho provato a lasciare qualcosa sul foglio.

Pare proprio che mi debba ricredere, smentendo chi vede nelle parole sulla carta statue immobili e senza volto. Forse lo diverranno, ma solo quando chi legge o scrive le avrà dimenticate, interrompendo il viaggio in loro compagnia.

Ho deformato e interpretato la realtà che mi circonda, cercando di non ferirla. Così, non ho mai raccontato storie vere e mai ho voluto essere cronista di fatti che nessuno mi ha autorizzato a narrare. I personaggi dei miei racconti non ripetono e scimmiottano la vita delle persone, ma testimoniano il modo in cui io ho vissuto i miei simili sulla mia pelle. Può sembrare una distinzione sottile, ma sono convinto del suo valore.

Non sta a me dirlo, ma credo che il maestro insuperato di questo modo di concepire l’arte della scrittura sia l’autore della Commedia. Lo straordinario viaggio nell’oltremondo è scandito dall’incontro con altri uomini, le cui storie il poeta adatta alla propria concezione, senza camuffarne le voci, ma accordandole al proprio tema musicale. Dante non si imbatte in Ulisse, ma nella propria idea del personaggio omerico.

A sprazzi il poema illumina anche me, con la generosità della luce solare, e mi fa capire che anch’io non ho mai scritto se non per compiere un viaggio di ritorno e per cercare la via di casa. Con altre parole e con la dovuta enfasi, confesso di aver sempre scritto per salvarmi l’anima.

 

 

 

 

 

 

La Musa

 

Ieri sera, disteso sul letto, con gli occhi fissi ad una ragnatela del soffitto (erano fissi da così tanto che mi sembrò ad un tratto di averla vista crescere), mentre il mio bel gatto mi accarezzava con le soffici zampe i neri capelli&ldots; ehm, più umilmente: ieri sera ero stravaccato sul letto, e il gatto si è messo a farsi le unghie nell’ispido feltro della mia zazzera nerastra, quando di colpo mi sono detto: mio Dio, mio Dio, come farò quando avrò perso l’ispirazione? Cosa le dirò, cosa le scriverò quando il pozzo di San Patrizio della mia memoria si sarà prosciugato? Quando non avrò più poesie da citarle, linguacce da mostrarle, fregnacce da dirle, come farò? Verrà l’inverno, con le sue corte giornate, le sue nebbie, i suoi venti freddi, e i miei occhi saranno così stanchi e smorti, iniettati di sangue come i suoi, come quelli di tutti noi per la stanchezza, che non avrò più la forza di parlarle, né di andarla a cercare. Le mie parole, allora, si muoveranno lente e infreddolite, coperte di pesanti cappotti, puzzolenti di naftalina e tarmicida. La grazia del suo corpo di giunco non esisterà più per i miei occhi. Le sue spalle dalla pelle di pesca scopriranno ad altri, non a me, il loro velluto. E io non avrò più nulla da dirle. La mia memoria vagherà incerta tra quattromila anni di poesia, di metafisica e di boccacce, il mio spirito si assopirà, come un vecchio pensionato sul dondolo.

Ho tremato, un brivido mi ha percorso la schiena. Ma poi, mentre il gatto mi camminava sul ventre e anche più in basso - senza unghie, per fortuna - ho visto che ciò non accadrà mai. Anche quando gli impetuosi e vasti fiumi della mia memoria saranno prosciugati, avrò sempre qualcosa da dirti. Questo è l’amore per i vivi: la voglia di futuro. Mi basterà aprire un libro, leggere un poeta a caso, per trovare nei versi e nelle parole amore da darti. E quando il tuo sorriso, mia Musa, mi avrà ispirato, dovrò solo chiudere gli occhi per vedere, meglio che in pieno giorno, nuove architetture di versi, miei finalmente!, da cantarti.

E’ questa l’infinità dello spirito, il suo continuo superarsi? Che il vecchio Hegel avesse ragione? Lasciamolo dormire in pace, lui e la sua Aufhebung, folle panlogista ammazzato da un minuscolo vibrione di colera.

Nulla è meglio dell’abbraccio tra amore e arte. Nessuno è più felice del poeta che canta la donna che ama (se riamato è meglio, ma che fa?). Ogni volta che il mio petto ha ospitato la loro unione, mi sono sentito uomo. E la morte, amica e compagna delle cose assolute, ha sempre avuto la bontà di non toccarmi. Buon per lei, le avrei riso in faccia!

 

Il diavolo e la ragazza

 

 

Confiteor peccata mea: io non sono un uomo, io sono un diavolo. Satana in persona, il principe dei demoni, mi ha mandato in missione sulla terra. “Vai tu, Nerone, percorri il basso mondo al posto mio. Io sono vecchio e stanco. Ne ho fatte tante, mi fanno male i piedi.”

Così assunsi le fattezze che tu conosci, bella mia, e presi il cammino&ldots;

Confiteor peccata mea: sono un diavolo, non un uomo, e sono venuto a rubare la tua anima per portarla con me all’inferno. Satana in persona, signore delle ombre, mi accolse nella sua corte per dirmi: “Nerone, che noia infernale, che uggia! Succedono sempre le stesse cose sotto il sole. Aiutami a vincerla, da bravo. Mi hanno detto che di noia te ne intendi, e a giudicare dal tuo aspetto truce c’è da crederlo. Allora, cosa aspetti? Non hai ancora capito? Sei l’unico dei miei figli a non sapere ancora leggermi nel pensiero. Non ricordo tua madre, ma sarà stata una buona donna&ldots; Ti verrò incontro, sturati bene le orecchie. Sia questo il tuo compito: vaga per la terra, perlustrala in lungo e in largo, fruga nel torbido come solo tu sai fare, e trovami una creatura da fare invidia al diavolo per la sua bellezza, purezza e perfezione. Voglio esserti d’aiuto, anche se non dovrei: cerca tra le donne, lascia perdere gli altri animali&ldots; In una di loro troverai ciò che voglio. E ora levati di torno: la tua faccia da monello sdentato mi piace, ma per me è finito il tempo dei bei ragazzi.”

Confiteor peccata mea: questa sera sarai con me all’inferno. Almeno credo.

Mi sono messo in viaggio, ma senza fretta. I demoni non ne hanno mai: l’eternità per loro è come un sorriso di donna, e si spegne piano piano nel cuore. Ho percorso a passi lenti e stanchi la terra, seminando qua e là, con negligenza, la mia zizzania. Non sono abituato a camminare. Le fattucchiere mi hanno viziato troppo con i loro manici di scopa. Ho vagato per lande inospitali, per deserti di sabbia e roccia tagliente, per brughiere infestate da lupi mannari, ma ho trovato la desolazione maggiore nelle città degli uomini. Soltanto lì mi è sembrato di non essere il solo demone cui fosse affidato un incarico&ldots;

Ho preso sempre la via larga. Ero curioso di provare ciò che gli uomini chiamano divertimento. Così ho scoperto che le loro risa non sono diverse dalle nostre, ma solo un po’ più vitali e schiette, perché noi non conosciamo il pianto.

Ho seguito i passi dell’assassino, del ladro e dell’adultera. Al suicida ho dato una spinta, per sollevarlo dal dubbio&ldots; Molti urlavano cadendo: per paura e pentimento.

Confesso i miei peccati: sono un diavolo venuto a prendere la tua anima. Ma quando ti ho vista, così bella, così fragile, così leggera e sensibile, così diabolicamente familiare e rassicurante, così mia ed estranea che mi sembrava di conoscerti da sempre, ho deciso di lasciarti stare. Da questa sera sarò con te nel vostro inferno. Ho pagato il prezzo: non sono più un diavolo. Per amarti ho rinunciato all’eternità e sono diventato uomo.

 

 

Terrore

 

 

Quella mattina gli abitanti della città industriale si svegliarono e non trovarono più le case, gli alberi, gli animali, le montagne e se stessi. Il sole non era ancora sorto e una luce livida, da ulcera infiammata, gravava nel cielo plumbeo. Allora tutti si vestirono in fretta, perché ebbero terrore di essere travolti e schiacciati come topi nelle loro case, quando il cielo fosse caduto. Davvero quella fu l’operazione più difficile, perché nessuno trovò una casa dalla quale uscire. Per ognuno fu come evadere da una condizione di dorato ma desolante esilio in se stessi. Il letto e le lenzuola stropicciate del calvario notturno rivollero per sé i corpi caldi e odorosi dopo la notte, come nell’abbraccio carnoso e disperato di una vecchia amante, annoiata da secoli. Ma nessuno cedette: le scale risuonarono di mille passi, facendo tintinnare i gradini come note acute di una tastiera. I triangoli della morte, suonati di lontano da neri fantasmi vestiti delle nostre speranze tradite, richiamarono all’ordine, scandendo il funereo passo di una marcia militare e intollerante. Fummo tutti in strada, senza averlo voluto, ma sospinti dall’incapacità di trovare posa e conforto tra mura ormai estranee. L’inquietudine divelse le nostre radici.

Riprese l’eterna caccia di dolci chimere. Le vie della città furono percorse da passi ansiosi e affrettati, ma ignari del porto e di una meta. Ognuno creò per sé la propria chimera. Vi fu chi la dipinse delle tinte più accese, in onore ad un amore devastante e mai consumato. Altri diedero al mostro i lineamenti del proprio viso, sperando di riconoscersi e di trovare infine, dopo aver molto dipinto e lottato con se stessi, la traccia di un sorriso.

In quattro attinsero alla fonte della soddisfazione e si scatenarono in un bacchico trotto per i selciati ancora umidi della notte. Ma furono i Cavalieri dell’Apocalisse e non fecero testo nel computo delle chimere domate.

Taluno fu assalito dal terrore alle ultime pennellate, perché scoprì di aver dipinto un mostro atroce e mortificante, dal muso di leone, il corpo di capra, la coda di drago e vomitante fiamme. Talaltro perse i capelli e conobbe una sùbita canizie, di fronte al ritratto di un’ipotesi assurda, di un sogno vano e un’utopia.

Il poeta si accorse di aver cantato il volto di una ragazza e di non aver ritratto altri che se stesso, ma, mentre i primi raggi del sole si fecero varco tra le nubi rosse e bluastre del mattino, non volle credere di aver preso un abbaglio. Non cedette alla terrificante disillusione da fin di vita: che quella donna, così come l’aveva amata e dipinta, non fosse mai esistita. Le soffiò in viso l’alito del proprio amore e sperò, come il Diavolo, di dar vita all’argilla. Poi accarezzò con lo sguardo gli occhi della ragazza, vi specchiò la propria anima, e quindi avvolse il dipinto nel mantello, perché gli facesse ovunque compagnia. Infine, riprese a vagare per la terra, tra strade polverose, piazze affollate d’uomini danzanti e deserti di sabbia fine come le sfumature dello spirito.

 

 

Il sogno

 

Infine mi sei tornata a trovare. Sei venuta inattesa, al termine di una giornata consacrata alla frenetica e paralizzante corsa della quotidianità. Nel contatto del tuo corpo senza spine e quasi senza polpa ho assaporato la pace. E’ stato come ricevere l’approdo di acque basse e palustri, e gettare la gomena a piloni secchi e legnosi, ricoperti di morbidi muschi. In una vecchia casa di campagna, buona ormai solo più per gli attrezzi e il rimessaggio di amanti randagi, sei stata mia. Ho sentito con chiarezza la tua voce e la dolce armonia dell’averti accanto. Mi parlavi e sorridevi con la spontaneità generosa di una ragazza felice: mai avrei avuto altrettanto in anni di corteggiamento e di illusione traditrice.

Dicesti parole al di là della logica del mondo. Cambiasti i tuoi no e le mie battute d’arresto in fraintendimenti e sgarbi del destino. “Anche allora sarei stata tua, se solo ce ne fosse stato il tempo.” Così pensai che da qualche parte, in non so quale tempo, fosti da sempre mia.

Le voci di una festa vicina, nell’altra stanza o nel contado declinante alla palude, ti misero solo la voglia di fare in fretta, e di consumare l’eterno e il suo cibo che non scade.

In un attimo ti ebbi nuda sopra di me. Il calore dei tuoi baci fu la gioia feconda di un seme vitale, e io non avevo sentito mai, prima di allora, qualcosa di più buono della tua lingua. Ogni paura mi lasciò: contadini in rivolta, affamati dalla vita, avrebbero invano pungolato il mio corpo in cerca di un lamento. Ora non c’è altezza di linguaggio che mi serva a esprimere la felice semplicità che merito, come ogni uomo, dal giorno del mio concepimento. Però proverò a dirti, con l’ironica devozione di chi ti ha sempre soltanto sognata e che ha imparato da tempo la facilità con cui sai fare terra bruciata.

Ti ebbi nuda sopra di me, e fu come se il tempo si fermasse. Non ho mai cercato altro - questo te lo potei una volta raccontare - di un mare caldo in cui fare il morto e guardare in cielo le nuvole passare. Incapacità di agire, accidia da chiostro medievale. Non ti so dire. Ma quando fosti sopra di me, sentii una vampa di calore benigno attraversare il mio ventre e un fiume tiepido e amorevole lasciare il mio corpo. Sussultasti, con la gioia di una terra che riceva acqua dopo mesi di siccità. Ti accarezzai e affondai le mani nei tenui e soffici rilievi della tua carne. Continuai a sentire la fragranza sincera del tuo grembo pronto per una nuova primavera. Mi lasciai medicare dai tuoi occhi e sentii di avere con me una ragazza, non un mostro vomitante fiamme, non una folle chimera.

Quel poco di fredda ragione rimasto mi suggerì che la sorte ama davvero beffarsi di chi con amore ti ha fatto la corte. Ed io mi stupii, come un ragazzo, di aver visto in sogno, così da vicino, tutti i particolari del tuo viso. Da sveglio non vidi mai altro che un alone amaro di Paradiso.

Sorrisi: “Accidenti, questo sogno è fatto troppo bene per essere vero”. Nel mio scetticismo ferrigno, riconobbi le buone opere del maligno. Ti ebbi sopra e una parte di me entrò e si diffuse in te, con la felicità di un buon vino in una sera d’inverno. Fu tutto bello e amorevole, così lontano dal vero.

Mi sei venuta a trovare in sogno e hai rimesso le cose a posto. La facilità che ho sempre cercato, tu in quel sogno me l’hai data. Ma come si insegna presto ai bambini, un bel sogno dura poco.

Ti rivestisti in fretta, lottando con la simpatia di una bambina con i vestiti e con l’imbarazzo della tua disarmante nudità. Posai gli occhi sulle forme leggere del corpo che amo e le salutai con rancore. Il vecchio lupo del disamore - o della disillusione, se ti è più facile - tornò a mordere il mio petto palpitante d’amore.

Ridesti, litigando con i pantaloni. Temesti di essere sorpresa da quelli della stanza accanto. Io sentii di non averti mai amata tanto. Mai prima di allora ero stato così triste per la vestizione di una donna. La bella quotidianità di quei gesti, che mai nella vita corporea mi sarebbe venuta a noia, fu l’ultima cosa che ricordi di te. Fu anche la più dolorosa, perché la più lontana dal vero. Fu la più triste, perché segnò il confine tra realtà e pensiero.