La discarica di Marcello Tucci

 

 

 

06/01/01

 

 

Un luccichio affiorava tra l’erba alta, a mano a mano che mi avvicinavo

prendeva forma svelando intorno a sé altri oggetti dorati. Il primo ad

accorgersene fu Nunzio: "Ragazzi laggiù alla discarica mi sono arrampicato al

cancellone e tra l’immondizia ho visto luccicare delle cose!" "andiamo a vedere,

esortò Pulcetta, chissà che non abbia trovato un tesoro."

 

Su quest’argomento incominciammo a parlare tra noi se non era finalmente

giunto il momento di visitare quel luogo, conosciuto nel quartiere come una

discarica abusiva.

 

Si trattava di un insieme grandioso di caseggiati bassi diroccati, appartenuti alla

vecchia fabbrica Pirelli, che li usava come magazzini, situati in un ampio spazio

dove era cresciuta una folta vegetazione. Il tutto circondato da un lungo ed alto

muro con un pesante cancello a difenderne l’ingresso.

 

Quel luogo era per noi una fantasia ricorrente: " dicono che là ci siano fantasmi e

strane persone che circolano la notte" affermò preoccupato Tonino.

 

"mio padre dice che alla discarica vanno i delinquenti a nascondere le cose che

rubano nelle case o nelle macchine" fece risoluto Marco.

 

Fu quest’ultima notizia che ci diede da pensare, facendo galoppare il cervello

nella memoria di libri d’avventura letti e riletti. Allora, fu il pensiero di tutti, in

quel luogo è possibile trovare cose di valore e per tenere lontano i curiosi hanno

inventato storie di fantasmi.

 

La ‘ banda sportiva di Via Amelia’ era questo il nome che c’eravamo dati, decise

in di esplorare finalmente quel luogo e se in caso di prenderne possesso come

sede ufficiale della nostra banda.

 

" prima di andare tutti io dico bisognerebbe mandare qualcuno in avanscoperta,

mentre noi facciamo la sentinella" disse il cauto Marco.

 

Il dado era tratto!

 

Una voce dal balcone chiamava Fabio a pieni polmoni, ciò ci ricondusse alla

realtà e ci ricordava che era ora di pranzo. Nel pomeriggio, a stomaco pieno,

avremmo estratto a sorte l’esploratore con il compito di illustrarci sulla situazione

e scoprire se vi fossero stati pericoli.

 

A casa il pranzo era quasi in tavola e le fatiche della mattina mi avevano messo

un grande appetito, tuttavia non posso dire di aver mangiato come si conviene

per un buon pranzetto, poiché l’eccitazione si era impossessata di me.

 

La pesca dissi che l’avrei mangiato strada facendo perché dovevo uscire di

corsa, accampando la scusa di riprendermi un libro di scuola a casa di Fabio e

Massimo.

 

 

Erano da poco passate le due del pomeriggio, il caldo a quell’ora si faceva più

crudele, le strade erano semi deserte e dalle case con le persiane socchiuse

trapelava il rumore della televisione con i suoi sceneggiati pomeridiani.

 

Era quella l’ora in cui gli uomini firmavano una tregua con il mondo, la

pennichella era, non solo un’occasione di riposo e di difesa dal caldo, ma la seria

possibilità di spezzare la giornata troppo lunga che rischiava altresì di diventare

noiosa.

 

Subito girato l’angolo del palazzo si apriva il vialone alla cui fine già si stagliava la

vecchia fabbrica Pirelli.

 

Quella fabbrica era il motivo per il grande sviluppo urbano della zona negli anni

cinquanta, era sembrata per tutti allora l’occasione di una stabile occupazione,

speranzosi molte persone dai paesi intorno Roma si erano spostati nella zona.

 

Purtroppo il sogno durò poco, la produzione fu spostata al Nord e molti rimasero

senza impiego costringendo molti uomini a ripiegare su altre occupazioni,

perlopiù artigianali.

 

Nel vederla ora che vi ero nei pressi il cuore mi saltava in petto sapendo che alle

sue spalle maestosa si ergeva la discarica.

 

La discarica già&ldots;i muri troppi alti alla cui sommità vi erano conficcati vetri per

evitare d’essere scavalcati&ldots;il cancellone così imponente&ldots;già già&ldots;come

entrarvi?

 

L’unica possibilità era quel buco alla base da cui fuoriusciva immondizia, riparato

 

con dei paletti conficcati a terra con filo spinato a farne da provvisorio

sbarramento.

 

Il problema principale era non solo tentare di entrare, ma se si presentava

pericolo saperne uscire in tutta fretta e comodità. Per questo motivo avevo

scartato l’accesso dal cancellone che con fatica, lo ammetto, avrei potuto

scavalcare ma mai e poi mai ci sarei riuscito a rifarlo per uscirne se avrei

avvertito dei pericoli.

 

Dunque decisi di allargare quel buco alla base e scostare delicatamente il filo

spinato, facendomi largo tra i rifiuti ammassati là da tempo: buste di plastica nera

gonfie di lerciume, vecchie lavatrici arrugginite e monoscopi di televisori datati e

roba simile.

 

Decisi di fare le cose con calma, il tempo non mi mancava perché

l’appuntamento con gli altri della banda era per le cinque al baretto dove sempre

ci riunivamo.

 

Non ci volle molto, con l’aiuto di un bastone scostai quanta più immondizia che

potei ed agguantai una tavola che avrei usato come copertura del buco una volta

entrato.

 

La cosa risultò più facile del previsto e fu proprio questa semplicità a lasciarmi

sorpreso: perché avevamo aspettato tanto tempo per inoltrarci in quest’Eldorado

perdendoci dietro ad inutili fantasie.

 

Lo spettacolo che si parò davanti fu unico. Ampi spazi di verde e vegetazione

incolta ed un insieme di caseggiati messi in fila ordinatamente. Sembrava di

essere entrato in una cittadella fortificata con al centro il suo castello difeso da

mura sontuose.

 

La fantasia correva più ai romanzi di Walter Scott e del suo eroe Ivanohe più che

a Stevenson con la sua isola del tesoro e mi compiacevo dello spettacolo in tutta

solitudine.

 

Stetti per un po’ di tempo nell’attesa di cogliere rumori sospetti sempre in

prossimità dell’uscita e dopo essermi rincuorato incominciai ad avvicinarmi piano

piano.

 

Scorsi un luccichio tra l’erba alta e più m’avvicinavo più quel luccichio svelava

altri oggetti dorati che scoprii essere delle cornici e rimasugli che già avevo visto

dal corniciaio sotto casa.

 

Non fui deluso dalla mancata scoperta del tesoro poiché ero preso dell’idea di

esplorare i caseggiati e di come una volta rimessi in ordine potessero essere di

grande utilità per la banda.

 

Quello più alto l’avremmo usato come sede per le riunioni, per gli altri avremmo

deciso in seguito.

 

Un senso d’euforia mi pervase tutto, un mondo nuovo tutto per noi.

 

Al di fuori del mondo degli adulti, delle strade pericolose di macchine che ci

impedivano di giocare una partita in santa pace, del rumore caotico lì si apriva un

mondo di libertà. Un mondo da ricostruire, avuto in eredità da un passato

sfortunato,

 

da rimodellare sulle nostre esigenze di ragazzi senza interferenze, senza obblighi.

 

Il primo caseggiato che visitai era avvolto nella penombra ed una frescura da

dentro saliva e mi avvolgeva. Nessun pericolo, nessuna minaccia il sole gettava

nel suo interno un alone di poesia quasi d’eternità.

 

Scorsi in fondo allo stanzone numerosi tavoli da lavoro, vecchie scrivanie ed

armadi che non si chiudevano più.

 

Presi a rovistare dentro degli scaffali e trovai alcune macchine per scrivere un

po’ arrugginite, cartelle con documenti di contabilità e cose che si trovano negli

uffici.

 

Tra tanta meraviglia non mi accorsi che il tempo era velocemente trascorso ed

era ora dell’appuntamento cui arrivai ancor più eccitato.

 

 

Li trovai tutti a parlare della discarica, intenti a preparare dei foglietti con i nostri

nomi scritti da estrarre a sorte.

 

Nunzio e Fabio s’erano procurati dei bastoni, un coltellino serramanico, una

cerbottana, una corda ed un sacco che a parere loro dovevano essere parte

dell’equipaggiamento del grande esploratore.

 

Tonino entrò nel bar e ne uscì con una scatola vuota dove mettere i foglietti,

Pulcetta si propose come colui che doveva tirare fuori il nome del predestinato

dagli dei.

 

" Nunzio, tocca a te, siamo nelle tue mani!" fu l’esclamazione di Pulcetta e con

una pacca sulle spalle spingemmo il fortunato vincitore presso il luogo da

esplorare.

 

Poco mi dispiaceva non essere stato scelto, non dissi a nessuno che io vi ero già

entrato, mi sentii solo in obbligo di assicurare che secondo me all’interno non vi

erano pericoli, che era meglio entrare dal buco sotto il muro, piuttosto che

scavalcare il cancello.

 

L’esploratore, caricato dalle nostre parole, mise nel sacco tutto l’occorrente

precipitandosi per entrare, mentre noi tutti ci sedemmo al bordo del marciapiede

aspettando notizie dall’interno.

 

" se tutto fila liscio, come penso e come spero dobbiamo decidere solo che fare

di quel luogo" proposi io, "dico che potrà diventare la sede della banda dove

portare i nostri giochi e fare le nostre guerre" mi supportò Fabio.

 

"dentro è molto grande e si può organizzare anche un campetto, gli altri ragazzi

che vogliono giocarci dovranno pagare una quota" fece Tonino mostrando già il

suo istinto agli affari.

 

" sede della unione sportiva via Amelia a costo di difenderla con il sangue&ldots;sarà

il nostro rifugio ed il nostro fortino" ribadirono Fabio e Pulcetta.

 

Mentre eravamo intenti in queste discussioni Nunzio arrivò a passi felpati alle

nostre spalle" fantastico, fantastico e strafico&ldots;non potete immaginare che ho

visto&ldots;"L’entusiasmo gli aveva illuminato gli occhi ed arrossato il viso e pur già

conoscendo quel posto rimasi a bocca aperta nel sentire la sua descrizione.

 

Sentii parlare di un luogo misterioso e fantastico, appena uscito dalla penna di

Salgari o Giulio Verne, caseggiati come castelli, mura di cinta adatti alla

resistenza di un assedio acheo.

 

Nunzio non solo ci trasmise questo entusiasmo ma ci costrinse tutti ad entrare:

 

la meraviglia e lo stupore s’impossessò di noi, devo ammettere che lo stupore

che avevo provato prima per conto mio ora si era decuplicata.

 

A parte i fortini, le guerre, gli assedi la cosa che più ci rese felice era uno spazio

tutto per noi. Nei giorni seguenti la discarica, che ribattezzammo ‘la casa del

cemento’ per via delle numerose sacche di cemento lasciate lì da tempo ed

oramai indurite, fu il pensiero costante.

 

Quel luogo riprese vita: via le erbacce, l’immondizia messa tutta in un angolo e

distrutta con il fuoco. Prese forma prima un campetto di calcio e nel caseggiato

più alto nacque la sede per le riunione dove portammo sedie e panchine.

 

Fabio restaurò uno scaffale dove appoggiamo i nostri giornaletti e mappe di

guerra.

 

Gli abitanti del quartiere in breve videro rifiorire quel luogo, le famiglie di ognuno

di noi pian piano accondiscesero a vederci giocare in quel posto.

 

‘La casa del cemento’ fu il luogo magico per noi tutti, lì fummo iniziati alle prime

curiosità sessuali attraverso i giornaletti ‘sporchi’, come li chiamava qualcuno, e

le prima esperienze personali.

 

Difendemmo quel luogo con ogni forza e crebbe la nostra banda: c’era posto per

tutti e tutti fecero qualcosa per renderla accogliente.

 

Ritorna spesso nella mia fantasia quel luogo magico ed unico, a fatica ce ne

staccammo man mano che crescevamo.

 

Tra gli ultimi a staccarsi dall’ex discarica fui proprio io, avevo lì più di una stanza

tutta per me. Scrissi proprio lì le mie prima poesie, lì i miei primi incontri

amorosi, lì la percezione di un mondo da cambiare: erbacce da sradicare,

immondizia da bruciare, muri da abbattere, case da ricostruire, luoghi in comune

da conquistare.

 

L’ex discarica, ‘la casa del cemento’ è tornata nel suo oblio ospitando di volta in

volta extracomunitari e clandestini in cerca di una nuova dignità, in cerca di una

presunta libertà in un posto che ai ragazzi della banda aveva dato più di una

meraviglia, hanno trovato emarginazione e ghettizzazione, miseria ad altra

miseria.

 

In quelle stanze sono entrati con la speranza di un inserimento, dipingendo e

colorando mura scrostate, da lì ripartiti per altri luoghi per altri inutili viaggi della

speranza.