IN QUEL MISERO CANTUCCIO MI RESTAVO

 

Così percosso e scosso in un misero cantuccio mi restavo prigioniero vero di quell'uomo che un tempo si spacciava padre.

In un silenzio cupo e strano di sapore necropolitano, stille lorenziane amare io assaggiavo, traboccanti celere da quel visino tenue ma violato. Sino a precipitare invero su un suolo spettatore, di nefandezze e di meschine efferatezze giammai rivelatore.

Ah se potesse proferir parole! Quante verità riemergere verrebbero?

Opera iniqua, certo, di reiette mani laceranti che tastanti all'unisono voluto avrebbero stritolarmi in quell'io nucleare che, satollo d'energia, destinato s'era ad esternarsi.

Sì, avrei voluto gridare, ausilio invocare, ma attendevo con demerita pazienza che quell'uomo pinto d'insulto, si sarebbe volto, ripintosi d'indulto, a remoto e familiare idillio.

Perché, mi chiedo, ad un originario andazzo, ove procedevo garantito e scalzo, pareva sovrapporsi un divenire peccaminoso e pazzo? E' lecito che a pudici contatti par contrapposto un tumultuoso impatto d'efferato tatto?

Che accarezzarmi, sì, volevan certo, ma sollecitare il mio piacente e soddisfare il suo perverso, ancor più indefesso.

Provavo a scrollarmi alla rinfusa, ma energia cruenta sprigionavan le sue mani, avverso ad un trafugato senza fiato.

E così percosso e scosso, mentre del cupo masticavo e nel vinto rimbombavo, in quel misero cantuccio mi restavo.

Fabio d'Accampo'